Scritto da © Mariagrazia Tum... - Lun, 02/01/2012 - 12:34
Era giunta in anticipo, l’estate, quell’anno, ma nel mio cuore era piombato ancor più lesto il gelo tipico degli inverni più rigidi. L’afa soffocante permeava di sé ogni anfratto della vita che si snodava attorno, bloccando pensieri e intimorendo velleità di iniziativa.
La svolta definitiva all’atmosfera dolce e lieve che avevo respirato fino al giorno prima era giunta, inattesa, nel corso della notte riempita dal faccione sornione e falsamente sorridente della luna che campeggiava a mezz’aria gettando sguardi furtivi tra la gente assonnata di periferia.
Una telefonata, nel cuore del buio più profondo, mi raggiunse comunicandomi la morte di nonna Adelina; una chiamata sbrigativa, senza emozione, spinta dall’ovvia necessità che io venissi a conoscenza della sua perdita; a comporre il numero l’altra sua nipote, mia cugina Federica, i cui rapporti con nonna si erano limitati alle obbligate, rituali visite domenicali di quand’era bambina, su imposizione perentoria dei genitori, che reputavano quella consuetudine una tradizione troppo in linea con la condotta media dei tanti borghesi che avevano sempre cercato di emulare da poter concedere deroghe in materia.
E Federica digeriva di malavoglia quell’imposizione di cui non riusciva a capire la ragione, lei che, una volta varcato il grande cancello d’entrata della bella dimora stile liberty di nonna, non faceva che ciondolare senza direzione da una stanza all’altra, con evidente fastidio e palese negligenza.
Non aveva nulla contro nonna; solo, non si capivano, e non tanto per via delle opposte generazioni che le dividevano, ma per un sentire agli antipodi che bloccava ogni tentativo di dialogo e reciproca confidenza.
Nonna era nata idealista, tanto quanto Federica, su diretto imprinting del padre, il fratello di mamma, era per convinzione materialista.
Poste di fronte alla medesima immagine di paesaggio marino visto al tramonto, nonna vi avrebbe intravisto un segno tangibile della presenza divina, Federica ne avrebbe derivato l’inutilità dello scatto stesso, ché una vetta presa al calar del sole ha dopotutto un peso irrilevante, per non dire nullo, sulla vita di tutti i giorni.
Tant’è: la nonna aveva trascorso tutta la sua vita ad allevare figli e ad accudire un marito che gliene aveva combinate di tutti i colori, sopportando e perdonando anni di scappatelle in nome del rispetto ad una tradizione familiare che disdegnava la separazione e prediligeva il silenzio e l’indulgenza assoluta della donna verso il padre famiglia.
I nonni si erano conosciuti molto giovani, grazie alla comune frequentazione di ambienti clericali; lei avrà avuto si e no 14 anni e nonno, rampollo di una nota e ricca famiglia di avvocati per tradizione, se ne era innamorato all’istante.
Lei si era concessa con iniziale parsimonia, non disdegnando la corte serrata di quell’affascinante giovanotto ventiduenne che la attendeva puntuale, ogni pomeriggio, all’uscita della scuola di musica dove Adelina prendeva lezioni di pianoforte, seguendo le impronte della mamma, celebre pianista dell’epoca.
Nonna mi raccontò che il loro fu un amore strutturalmente romantico, fatto di mani che si sfioravano al chiar di luna, di frasi sussurrate piano all’orecchio per tema di essere uditi e di passeggiate sorvegliate, come d’uso ai tempi, dal fratellino più piccolo, guida privilegiata delle loro prime peregrinazioni pomeridiane.
Nonna ebbe un bel daffare a tenere a bada gli ardimentosi tentativi di approccio di nonno, uomo focoso e dal temperamento sanguigno, che mal tollerò le resistenze tenaci di una ragazza tanto tenera; epperò credette bene rassegnarsi alla caparbia volontà di nonna, quantomeno per non incorrere nella prospettiva, che avrebbe mal sopportato, di perderla.
Si sposarono allo scoccare dei 18 anni di lei, in una chiesa parata a festa, con tanto di megalomani annunci sui giornali che contano della città, la gente bene accorsa in massa a commentare il matrimonio dei Montini, l’ammirata, blasonata e invidiata famiglia meneghina che tanto di sé aveva e avrebbe fatto parlare.
Nel giro di 10 mesi nonna fu mamma di due gemelli, mia mamma e il papà di Federica, nati in una giornata di maggio, nella casa che sarebbe stata per la vita, quella palazzina tutta bianca, su cui campeggiava da tempo immemore, da che la saga familiare prese a trasmetterla di prole in prole, lo stemma altisonante della famiglia più in vista e più chiacchierata del luogo.
A distanza di un anno, nonna sperimentò di nuovo la gioia della maternità e la ciclicità dell’evento si interruppe solo dopo i vagiti del nono arrivato, da che i medici dovettero intervenire d’urgenza con l’asportazione dell’utero, nel tentativo estremo di salvarle la vita dopo un’emorragia violenta che non ne voleva sapere di arrestarsi.
La nonna visse la sua vita per la famiglia e per lei abbandonò le sue aspirazioni in un domani di celebrità, altamente probabile date l’indubbio talento di cui era dotata e che le menti più raffinate del tempo non smettevano di decantare, nel vano sforzo di spronarla a non cedere alla prospettiva della rinuncia.
Spesso le avevo domandato quale peso avesse avuto per lei seppellire i suoi sogni in un angolino della coscienza e continuare come se nulla fosse un’esistenza mutilata; centellinava cauta le parole di ritorno, dietro gli occhiali chiari che le contornavano il volto, mentre si accingeva, ora che i figli erano cresciuti e non avevano più bisogno di lei, a mettere mano alle sue arie preferite, la finestra lasciata aperta per lasciar filtrare il sole tiepido di aprile, e poter osservare in solitudine il passaggio muto delle allodole festanti per il paesaggio dai toni pastello su cui posavano le ali.
Diceva che no, non era stato quel sacrificio che molti reputavano arrendersi ad una realtà che le aveva donato tante gioie, una famiglia unita, i figli realizzati, i nipoti adorati.
Eppure mi è sempre parso di scorgere un’ombra bruna addensarsi sul suo respiro mentre prendeva fiato per trovare le parole migliori a raccontarmi una storia che, forse, per pudore, preferiva tener serrata dentro di sé.
La sera prima della sua morte, avevamo festeggiato insieme, parentado unito e sorrisi di circostanza, nella casa di lei, uniti nell’attico tirato a nuovo per l’occasione, la musica giusta di sottofondo e le tante frasi spese per il mio agognato successo al concorso d’accesso al corso di laurea in medicina, sede di Bologna.
La mamma era fuori di sé dall’euforia, stampato addosso il riverbero di un entusiasmo fanciullesco mai sopito dal tempo e la soddisfazione esibita in occasioni in cui il pudore appare tanto fuori luogo come a me apparivano vuote quelle celebrazioni tutte esteriori e forse poco interiormente partecipate.
Papà era pediatra, e così suo papà, e pure il papà del papà, e dovette sembrare inopportuno a tutti interrompere una consolidata tradizione di famiglia, a tutti tranne che alla nonna, che più volte aveva preteso di conoscere le mie intime ambizioni, i miei più segreti desideri e semmai covassi nell’animo una volontà tutta mia, magari insospettata e tenuta chiusa nel profondo del mio animo.
La sola risposta che seppi concederle fu l’esibizione dei documenti di iscrizione alla laurea in medicina, la soluzione che non avrebbe scontentato nessuno.
Poi, finita la festa, raccolti i pochi oggetti che da Bologna avevo portato, decisa a ritornarvi per familiarizzare con la città prima dell’inizio dei corsi, presi la porta e me ne andai, in silenzio, così come ero arrivata, stanca del vociare scomposto e delle risa fin troppo sottolineate dei presenti.
Scesi la lunga scala che collega il piano superiore, dove ancora la celebrazione si stava consumando, al grande cancello di uscita, e lì scorsi la nonna, rossa dall’evidente sforzo di starmi appresso, in mano un libricino che mi porse in tutta fretta. Mi stampò veloce un bacio in fronte e mi carezzò lieve la guancia, poi mi prese in un abbraccio come mai aveva fatto, quasi presagisse che quella sarebbe stata l’ultima volta.
Ringraziai e ricambiai la stretta, poi misi in moto la mia auto nuova fiammante, dono di famiglia per la mia recente riuscita e volai per Bologna; in breve, la telefonata, lo sgomento, la voglia di rompere il mondo, di urlare il proprio dolore, di salirmene in cielo con lei.
Su, nella volta celeste, le avrei finalmente confidato il mio intatto sogno di calcare le scene dei teatri, di intravvedere nelle persone la stessa emozione che avvertivo io quando declamavo i versi dei grandi autori classici che divoravo avidamente non appena le pause dallo studio sostanzialmente imposto me lo consentivano. Le avrei raccontato di quando marinavo il liceo, incurante delle possibili conseguenze che me ne sarebbero derivate, per andare ad assistere alle prime degli spettacoli più importanti della città e di come l’emozione si impadroniva di me quando ascoltavo le parole piene di valore, dense di sentimento e di desiderio per la vita che attraversavano l’intero parterre per venire a poggiarsi sul mio cuore in subbuglio da tanto intenso turbamento.
Nessuno sapeva di questa mia segreta passione, nemmeno con lei avevo mai avuto il coraggio di aprirmi, quasi fossi una ladra che teme di essere acciuffata per ogni movimento falso che commette.
Presi il treno, la notte fonda, quasi presagendo che le ombre corte sugli oggetti intorno avrebbero attutito, impossessandosene loro, il mio dolore, per recarmi all’ultimo addio; nello zaino solo una fotografia, la sua, ritratta giovane, in riva al mare, con lo sguardo alto al cielo, e poi il libricino, quello che mi aveva donato il giorno prima, in tutta fretta, un libro tanto piccolo da poter essere serrato in una mano.
Nella mente la confusione e lo sbigottimento per quella perdita incolmabile; presi posto, ero sola nello scompartimento di prima classe che mi avrebbe condotto a Milano; il caldo era insopportabile ma a me pareva spirasse un freddo gelido, e che mi investisse tutta, e impietrisse ogni tentativo di ragionamento e infine bloccasse i miei pensieri.
Estrassi lenta il libro bianco; sulla copertina mezza erosa dal tempo e, forse, dall’uso, il titolo “le nuvole e i sogni” e, appena più dentro, in quarta di copertina, una dedica, scritta a matita, firmata Gianfranco, forse un vecchio amico di nonna, magari un misterioso innamorato: “I sogni son come le nuvole, arroccati tra i giorni uguali di ognuno di noi; occorre solo far filtrare il sole tra il buio che talvolta li inonda. Solo così fiorirà di nuovo la gioia”.
Lessi di un fiato quelle poche decine di pagine che componevano l’intero testo. Un libro pieno di poesia, sulle occasioni perdute, sulla necessità di fare spazio alle proprie più recondite ambizioni, sulla certezza che solo il talento manifestato senza paura possa dare un senso pieno alla vita.
Nella mente sfilavano prepotenti i ricordi di bambina, di quando mi bastava un nulla per essere felice, un aquilone tra le dita e il sorriso radioso che sbocciava giocando in riva al mare; rammentai che, allora, i treni erano la mia passione, vi immaginavo tutta una vita che prendeva corpo dentro quelle pareti scure dove amavo far scivolare la fantasia a comporre e scomporre immagini di quotidiana normalità o costruire improbabili e fugaci sogni di fanciulla al fiorire della vita.
Quando salivo sui treni non vedevo l’ora di giungere a destinazione; ora, martellante, mi si presentava il desiderio che non si fermasse, quel treno, che non si fermasse mai alla stazione, né in quel momento in cui sentivo lo stridore dell’impatto del bolide in dirittura d’arrivo sulle rotaie, né mai, perché il treno che si fermava era l’improrogabile appuntamento con il vigliacco destino che mi si imponeva, e la mia coscienza non era ancora pronta ad accettare la realtà di una tomba fredda a custodire il misterioso, sacro corpo della nonna.
Fui, infine, costretta a scendere, dal treno, nella Milano accaldata dal solleone di inizio agosto, con un sollievo nell’aria dovuto solo all’orario di inizio giornata; con un taxi volai al cimitero per salutare la nonna. Nonostante l’orario, notai alcune sagome aggirarsi meste tra le aiuole della cappella cremisi di famiglia, e allora decisi che non era quello il momento. Volevo essere sola con lei, senza la costrizione di frasi obbligate e il peso dei saluti e delle lacrime ostentate; mi fermai dietro l’immensa quercia da cui potei ascoltare, non vista, le parole di commiato del sacerdote che si appellava ad un improbabile aldilà da cui la nonna ci stava osservando e che lo sconforto di quei giorni non avrebbe dovuto oscurare la certezza della vita eterna e blablabla.
Attesi che la folla si radunasse e si disponesse a lasciare il camposanto e finalmente fui sola.
Lambii appena la tomba dove era conservato il suo corpo, mentre il sole di mezzogiorno tagliava in orizzontale le forme e le figure che si stagliavano tutt’attorno a formare cerchi concentrici che si avvinghiavano e srotolavano dando la sensazione della vertigine.
Posai piano una rosa accanto alla fotografia del sarcofago, la stessa che avevo mirato sul treno qualche minuto prima. Poi osservai il cielo e mi parve che una nuvola, apparsa d’improvviso tra il terso del cielo chiaro, con altrettanto fugace movimento, si avvitasse su di sé e di colpo sparisse, lasciando al calore del sole appena sorto il compito di riscaldare la terra.
Era scritto anche sul suo libro, che le nuvole compaiono e poi inesorabilmente se ne vanno, seguendo un destino da cui nessuno le può sottrarre.
L’ho riletto, spesso, quel libricino, e lo conservo ancora, oggi, che sono nonna anch’io e non ho timore di riferire ai miei nipoti le stesse cose che appresi anni fa, su un convoglio che non avrei mai voluto si fermasse, che mi portava dritta da nonna Adelina, agitando tremante le dita tra i misteri di quelle pagine sconosciute, la stessa levità che lei usava per carezzare il pianoforte mogano stipato dietro la porta socchiusa del soggiorno immenso; mi pare di udirlo, quel suono, nella quiete che accompagna i miei giorni di solitudine, sprigionarsi alto e veleggiare libero nella volta del cielo.
Sul mio volto ho tanto desiderato, da allora, che mi facesse visita il sorriso buono di me, bimba, che giocavo vicino al mare, ma l’attesa è stata spesso vana e impietosamente lastricata di dolore.
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