Ode del terzo occhio ai Chicken Nugget e ad altre delizie
di Rachel Zucker - da www.poetryfoundation.org
(traduzione di Franca Figliolini)
"Cos'è una poesia?", chiedo ai bambini.
"Una poesia è una canzone, una canzone senza musica... Una cosa che dici dove conta il suono delle parole... Una storia che ti fa sentire qualcosa", rispondono i bambini raccolti in un semicerchio intorno a me. Le risposte mi sorprendono. In qualche modo, sono più sofisticate, più interessanti di quelle dei miei studenti universitari quando pongo loro la stessa domanda.
"Bravi!", dico. "E di cosa abbiamo bisogno per fare una poesia?"
"Carta!" grida un bambino.
"No, no," rispondo. "Si può usare della carta, ma non si deve."
"Una penna!" tenta una ragazzina.
"No, nemmeno questo," dico. "Si può usare una penna, ma non si deve."
"Parole?" sussurra una minuscola bambina bionda.
"Sì!"
"Immaginazione?" si avventura a dire un'altra bambina.
"Sì! Abbiamo bisogno di parole. Abbiamo bisogno di immaginazione. E, fate attenzione a questo, abbiamo bisogno anche dei nostri occhi e orecchie e naso e corpo e senso dell'umorismo. Sapete? Io sono un poeta. Questo significa che cerco di fare caso al mondo, di guardarlo con molta attenzione. Uso parole che suonano bene come in una canzone, parole che fano sentire qualcosa e cerco di descrivere quello che vedo e ascolto e annuso e gusto e tocco e sento."
I bambini annuiscono. Ho conquistato la loro attenzione: ora, è il momento di sorprenderli. Devo sorprenderli almeno tanto quanto loro lo hanno appena fatto con me, sorprenderli almeno tanto quanto lo aveva fatto mio figlio.
"Ti va di sentire una poesia?", mi aveva chiesto due settimane fa, mentre preparavo la cena.
Certo, avevo risposto. Sapevo che Alex Caloyeras, l'insegnante dell'asilo, aveva cominciato a parlare ai bambini della poesia, perciò non ero stata colta del tutto di sorpresa. Anzi, a dirla tutta, Alex mi aveva chiesto se potevo andare nella sua classe e fare qualcosa con la poesia per i bambini, ed io avevo accettato, senza pensare a come avrei potuto insegnare qualcosa di poesia a bambini che non sanno né leggere né scrivere".
“Ba moo hab a face like da clock inda hawl see signs on teeves onda gerdenwal,” recitò Abram.
"Bello", dissi, tagliando verdure che probabilmente non sarebbero state mangiate e cominciando a chiedermi in che pasticcio mi fossi messa. Notai, mentre trasformavo le carote in "spade", che Abram continuava a ripetere questi suoni nonsense esattamente, una volta dopo l'altra.
"Cosa stai dicendo?" gli chiesi.
"Ba Moo, di Blahblah Louey Stevason", mi rispose.
Il girono dopo trovai nello zainetto di Abram un fascicoletto spillato di poesie e una nota di Alex che spiegava che, in onore del Mese Nazionale della Poesia, i bambini da tre a cinque anni dell'asilo avrebbero memorizzato alcuni testi e ne avrebbero discusso. Poi, sarebbe andato a parlare con loro un Vero Poeta. Oddio! pensai. Il Vero Poeta sarei io.. E poi vidi "The Moon", di Robert Louis Stevenson.
The moon has a face like the clock in hall
She shines on thieves on the garden wall...
[NdT: questo gioco tra i 'versi' recitati da Abram ed il 'vero' testo poetico è sostanzialmente intraducibile. Diciamo che il bambino recita i suoni della poesia, pronunciati in modo infantile]
(...) "Ho qualcosa di molto importante da dirvi...." dico ai bambini nella classe piegandomi verso di loro ed abbassando la mia voce ad un sussurro. "probabilmente voi pensate di avere due occhi, giusto?" Loro annuiscono. "Ebbene, non è così". Si guardano l'uno con l'altro. Alcuni ridono. "Ognuno di voi ha anche un terzo occhio". Una ragazzina mi guarda arrabbiata, con disapprovazione; quella bambina bionda e minuta di prima sembra essersi innervosita. (...)
"Tutti hanno un terzo occhio", spiego. "E' il modo in cui uno vede tutte le cose del mondo che non può veramente vedere, ma che sa che sono lì, come la magia, il modo in cui appaiono i fiori di notte, il modo in cui si comporterebbe una balena facendo finta di essere una principessa". I bambini annuiscono e ridacchiano. "Anche i grandi hanno il terzo occhio, ma... beh, è una cosa molto triste...", sospiro e scuoto le spalle, "i grandi si dimenticano di usarlo e a volte persino di averlo! Quando uno è un poeta deve usare tutto quello che ha, specialmente il terzo occhio. Per voi non c'è nessun problema, perché siete bambini, e i bambini sanno come usare il terzo occhio. Proviamo!"
Chiedo ai bambini di chiudere i loro occhi 'normali' e di stare molto calmi e fermi e di cercare di capire se riescono a 'vedere' attraverso il loro terzo occhio. Mantengo il silenzio per quanto possibile e poi dico, "Adesso facciamo una poesia. Continuate a tenere gli occhi chiusi e alzate una mano quando volete aggiungere qualcosa alla nostra poesia. Ogni verso della nostra composizione inizierà allo stesso modo, così: 'Col mio terzo occhio vedo...' E poi mi dite quello che vedete."
La composizione che ne è venuta fuori aveva tutta la specificità e stranezza che io amo nella poesia. Si muove di immagine in immagine con quella qualità associativa bizzarra e azzeccata che i poeti adulti fanno fatica ad ottenere.
Poi, sempre in gruppo, fecero un poema in rima, i cui primi due versi erano:
avevo un biscotto che si chiamava Gatto
ma in realtà era della frutta un rossetto
[NdT: in realtà anche qui la traduzione è pressoché impossibile. Il testo originale è "I had a bagel named Cat / But really she was a fruit bat.” Ora, il bagel è una sorta di panino rotondo e il fruit bat un tipo di pipistrello, detto anche rossetto egiziano. Ho fatto del mio meglio...] (...)
Da quel giorno di sette anni fa, continuo ad andare nelle classi dei miei figli "a fare qualcosa con la poesia" ogniqualvolta un insegnante me lo chiede. Quando mio figlio Moses era in seconda e stava studiando il fiume Hudson, sai un modulo che mi era stato suggerito da Jueli Carr, un poeta. Lessi "L'uomo di neve" di Wallace Stevens che inizia dicendo: “One must have a mind of winter / To regard the frost and the boughs / Of the pine-trees crusted with snow . . . ” ["Si deve avere una mente invernale/per considerare il gelo ed i rami/dei pini incrostati di neve,..."] Parlammo di cosa potesse significare avere "una mente invernale". Poi discutemmo di come sarebbe stato avere una mente fluviale. In gruppo, scrivemmo una poesia a cui ciascuno studente contribuì con un verso che iniziava: "Con la mia mente fluviale io...". In effetti, le composizioni della "mente invernale" e della "mente fluviale" sono una variazione di quelle del terzo occhio. Sono inviti a guardare più profondamente nel cuore del mondo.
Con lo stesso gruppo ho usato anche un modulo per la scrittura di odi del poeta Danielle Pafunda e ho chiesto ad ogni ragazzino di scrivere una "Ode al fiume". La struttura porposta da Danielle è semplice, solo quattro versi:
Ode a________
una parola che descrive il soggetto
una parola che descrive il soggetto
un fatto riguardante il soggetto
verso jolly (immagina il soggetto che parla o agisce oppure te che parli al tuo soggetto)
E' un formato facilmente adattabile e i bambini lo amano. Un bambino che si era mostrato insofferente durante la scrittura della poesia di gruppo (quando avevo chiesto una parola per descrivere il fiume lui mi aveva risposto: "chicken nugget") scrisse una bella ode su un castoro e poi continuò a produrne altre (...) su tutti gli animali e pesci che vivono nel fiume, sui suoi amici e parenti e, sì, anche un'ode ai "chicken nugget".
Continuo a fare poesia con i bambini perché gli insegnanti apprezzano le mie visite e perché mi fornisce una scusa per vedere i miei figli in azione durante la scuola (il verso di Moses per il poema della mente fluviale fu: "Con la mia mente fluviale io sogno tutto quello che è successo o succederà alle creature dentro di me." Dovetti evitare di guardare l'insegnate per paura di scoppiare di orgoglio oppure... di scoppiare a ridere). Vado perché i bambini amano la poesia e il loro entusiasmo è contagioso e dopo scappo a casa e scrivo.
Quando facevo l'università uno dei miei insegnanti disse che quando si resta bloccati nello scrivere, bisognerebbe leggere cose tradotte, perché posseggono una naturalezza e freschezza che ci può spingere a tornare a farlo. Guardare i bambini che fanno poesia, mi fa lo stesso effetto. Ai bambini piace giocare col linguaggio. Amano quelle che i loro insegnanti chiamano "parole succulente". Amano i giochi di parole surreali e le rime. Pensano che la poesia sia fantastica perché, come dice mio figlio, "in una peosia puoi dire quello che vuoi nel modo che vuoi". La poesia è quel genere di libertà che "i bambini sanno meglio". Ma amano anche fare poesie che seguono una forma (come l'ode) e hanno un sacco di regole. Non sono ancora stati messi contro la poesia da insegnanti ben intenzionati ma mal guidati che insegnano poesia come se fosse un codice segreto che deve essere faticosamente decifrato, un approccio che esaspera chiunque e lo spinge a chiedersi perché i poeti non si limitino a dire quello che vogliono significare.
Insegnare ai bambini mi fornisce un sacco di idee per insegnare agli studenti universitari, che sono così presi dall'usare la poesia per esprimere i loro sentimenti o turbamenti metafisici che spesso si dimenticano persino di usare i loro due occhi 'normali'. Ed anch'io, sebbene sia un Vero Poeta, talvolta mi dimentico di avere un terzo occhio. Aiutare i bambini a fare poesia mi ricorda di aprire gli occhi, tutti, persino di notte, quando sembra non ci sia niente da vedere - come la luna di Stevenson, che brilla “On streets and fields and harbor quays / And birdies asleep in the forks of the trees.” ["Sulle strade, sui campi e sui moli dei porti/e sugli uccelli svegli negli incroci dei rami"]
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Mi perdonerete se alla fine di questo lungo excursus mi autocito, ma mi è venuta inevitabilmente in mente questa, tratta dal mio "Abbecedario":
P come Poesia
Vieni, e ti regalerò la poesia
- disse il bambino alla bambina.
Lei lo guardò con gli occhi spalancati
e immaginò di passargli la mano tra i capelli
e disegnargli col dito il contorno delle labbra.
E sentì le parole traboccare
come un canto
come un sortilegio.
a Ferdinando
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