Louis ARAGON
«I morti / sono discreti, / dormono / al fresco...» scriveva Jules Laforgue.
Mi perdoni, Balthus, di interrompere il suo sonno. L'eternità è così lunga, la sua strada così incerta che preferisco affidare queste righe al mio angelo custode. Possa consegnargliele il giorno in cui uscirà questo libro.
Il 28 febbraio 2001, seguivo accanto a sua moglie, a sua figlia e ai suoi figli la carretta dei contadini che trasportava il suo feretro dalla minuscola chiesa protestante di Rossinière, affollata di cardinali, al campetto acquistato la vigilia perché venisse fertilizzato dal suo corpo. Pensavo al funerale di Victor Hugo che aveva scelto anche lui il carro funebre dei poveri per farsi condurre all'estrema dimora.
Quando si seppellisce il genio, poco importa che le esequie siano nazionali o familiari. Il fango delle origini val bene il Panthéon. Entrambi diventano ricettacoli dell'ineffabile.
Un giorno, i figli del nuovo millennio poseranno lo sguardo sulla pittura del nostro tempo e scopriranno, stupiti, che il XX secolo, di cui tante scuole hanno fatto la gloria, fu dominato da due solitari: Balthus e Picasso.
Picasso, perché impose agli uomini una nuova visione del mondo, distrusse e ricostruì ciò che il Creatore aveva fatto, trasformò un nome proprio in nome comune.
Balthus, amante della purezza e dell'ambiguità, fece piegare l'apparenza e la trascese. Dopo Masaccio e Piero della Francesca — che amava sopra tutti —, divenne il pittore dell'anima.
Per rappresentare l'immaterialità misteriosa legata alla fragilità di un corpo abitato dalla lucidità dello spirito e dall'accecamento dei sensi, i grandi italiani hanno fatto scaturire dal nulla creature celesti tormentate da Lucifero. Balthus preferì loro fanciulle in boccio, in preda ai turbamenti strazianti e deliziosi della pubertà.
Gli angeli hanno un sesso? Ne hanno due come Tiresia? Balthus ignorò tale questione bizantina e trasformò la loro leggerezza alata in un'immobilità sconvolgente, più ossessiva del movimento. Non ci sono mai ammiccamenti in Balthus, ma gli slanci di un cuore insolente e attento.
Se inavvertitamente le sue adolescenti aprono appena le gambe, è per celebrare la conca sacra in cui il mondo trova la sua origine. La sua arte è una religione in cui il peccato non è empio e, spesso, ricorda che il messaggio divino non deve essere lasciato alla portata dei bambini. Il Padre ha disprezzato così poco la carne, le sue voglie, le sue tentazioni, le sue cadute, che ne ha impastato il Figlio e Lo ha consegnato agli uomini. Il desiderio è l'affiato dell'anima, la cosa in noi e fuori di noi che Balthus ha rivelato nello sguardo delle sue modelle.
Quando la malinconia scendeva come neve sul Grand-Chalet sepolto dal vento sotto la brina, Balthus mi prendeva interminabilmente la mano per riscaldare la sua. L'interminabile mi sembrava corto. Quel rapitore di calore fumava una sigaretta dopo l'altra e, con voce spezzata, mi metteva a parte dei suoi segreti sepolti: «Non so», mi disse alcuni giorni prima della sua morte, «se le ho raccontato, Maître Paul» — mi chiamava sempre così —, «il mio incontro con Antonin Artaud.»
Senza attendere la mia risposta, aggiunse: «Sa quali furono le sue prime parole? 'Balthus, lei è il mio doppio!'» Odo ancora il suo riso soffocato mentre i gatti al suo capezzale facevano le fusa dolcemente. Proseguì: «Ci somigliavamo, infatti. Condividevamo la stessa frenesia di libertà, la stessa passione per la ragione ardente cara ad Apollinaire. Ho cercato, Maître Paul, di tradurla nelle mie tele».
Poi la sua mano pesò sulla mia e Balthus si addormentò.
La scoperta di Artaud lo segnò ben oltre le scene dei Cenci che realizzò su richiesta del poeta. L'eremita di Rossinière e il Momo del Vieux-Colombier si misero entrambi al servizio di una bellezza crudele e incandescente. Iniziati, ne divennero gli iniziatori.
Furono vicini al gruppo surrealista e ai suoi discoli onirici. Ma rifiutarono di sottomettersi alle bolle e alle encicliche di papa Breton, di fondersi in quel cenacolo incredibile e puerile, di accedere alla libertà attraverso il labirinto. L'importante nel surrealismo fu più uscirne che aderirvi. Il movimento deve maggiormente ai suoi disertori che ai suoi veterani. Breton ne fu il Boileau e i suoi Manifesti la sua arte poetica.
Balthus — a differenza di Dalí e anche di Magritte — non si servì mai del surrealismo come di un supporto o di un trampolino. Ne integrò il messaggio trasformandolo; insomma, fece del Balthus, in maniera ineguagliata, invece di sfruttare la preziosità e l'orpello allettante. La sua pittura sapiente e sognante ignora la premeditazione. Non vuole far colpo, ammalia; non vuole recare disturbo, sconvolge; non vuole provocare, incanta. Facendo della grazia lo specchio dell'impudicizia, offre al quotidiano la sua luce ricomposta, i suoi colori di terra e di pelle.
Balthus non è uno che mette in scena, è un artigiano che cava sangue dal silenzio, un poeta che sovverte le convenienze. Fece dell'erotismo un cantico, con disappunto dei voyeurs e dei curiosi.
La prima volta che l'ho incontrato, si produsse il miracolo. Fra il vecchio giovane come l'amore e il vecchio giovanotto che ero e che spero di restare per un po', nacque un'amicizia forte e fresca, che se ne infischia del tempo. lo gli distribuivo le mie magre ricchezze, lui mi fece approfittare dei suoi tesori. Mi permise di guardarlo dipingere e mi insegnò, nello spazio di un quadro, a percepire l'invisibile.
Chi mi restituirà la mano e lo sguardo di Balthus?
La carretta dei contadini ha appena terminato il suo cammino. Siamo ai piedi della sepoltura, attorno a Stanislas, l'alchimista, a Thadée, l'esteta, a Harumi, la bella creatrice di gioielli, a Setsuko, la pittrice dei ciliegi d'oro. Presto la bara scompare sotto una pioggia di rose.
Io, che ho conosciuto le controversie feroci di tante successioni di pittori famosi, mi dicevo che quell'unione, quella calma, quella pace costituivano gli ultimi capolavori di Balthus.
Pechino, agosto 2001