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Izmir

 
Da che ha varcato l’uscio della scuola media dove lavoro nessuno ha mai mostrato di credere in lui; neppure io, che ora scrivo di lui, ho mai preso il disturbo di ascoltarlo o guardarlo.
A ben pensarci, la sua presenza è sempre stata un poco evanescente, come se la sua figura fosse avvolta da una coltre di nebbia fitta a rinserrarlo tutto.
Neppure la sua voce mi è familiare, eppure è in classe da che è suonata la prima campanella, lo scorso settembre.
Viene dall’Albania, da Scutari, dove è nato 14 anni fa, una terra piena di agricoltori fieri e rudi, funestata da una guerra intestina che ne ha minato alle basi il già traballante tessuto economico e sociale; un territorio zeppo di nulla, solo distese sterminate di monti e dirupi, di terre incolte e agricoltura abbozzata.
Della famiglia d’origine si sa solo che i suoi componenti non hanno mai badato a lui se non per trascurarlo e che l’abbandono è la condizione perenne della sua giovane persona.
La realtà della scuola gli è stata ignota da che, giunto in Italia, i servizi sociali ne hanno decretato d’ufficio l’ingresso e la frequenza coatta.
Non l’ha mai disdegnata, semplicemente non è mai parso molto a suo agio tra quei banchi che non aveva mai visto prima e gli stretti corridoi che occupano gran parte dell’edificio.
Con tutta probabilità lo scarso interesse che ha sempre mostrato per le attività proposte è riconducibile alla modesta dimestichezza con la nostra lingua e le nostre abitudini.
Rammento che i primi giorni di scuola li trascorreva tutti a guardare il soffitto e a domandare nel suo incerto italiano se poteva andare alla toilette, forse perché non si sentiva a proprio agio tra noi italiani che chissà cosa ci attendevamo da lui.
 
 
 
Sono trascorsi piano questi ultimi mesi, lui ha imparato moltissimo, a sorridere, a restare in classe più a lungo, a ricambiare lo sguardo, a tenerlo alto, senza paura, mentre si aggirava solo nei corridoi della scuola.
Ora sa dare la mano, porgere il sorriso e attendere il suo turno, parlare quando richiesto, e sa pure affrontare un impegno per lui inimmaginabile solo fino a qualche mese fa, discutere davanti a 9 insegnanti la tesina che ha pazientemente approntato per l’esame finale di licenza.
Quando l’ho visto entrare, tutto solo, nella stanza dove lo aspettavamo tutti, nessun altro compagno a sentire la sua esibizione, mi ha stretto il cuore; aveva il sorriso forzato delle prime occasioni, la voce tremante del principiante, le mani che si dimenavano senza ragione lungo i fianchi scomposti.
Gli si domanda quale sia l’argomento scelto: risponde senza esitazioni e attacca a parlare della sua Albania, di quei monti che deve sentire lontani, di quelle mani amiche forse perdute irrimediabilmente, di una guerra tribale e incomprensibile vista in tivù che, rammenta, ha divelto la sua casa e il suo avvenire.
La nostra curiosità di adulti è grande: indaghiamo, vogliamo sapere, impellenti, se mai sia giunto da noi via mare o via terra: lui ci stupisce, riferisce di aver sorvolato il cielo albanese, poi visto dall’alto il pezzettino d’Adriatico che divide la nostra dalla sua terra, infine approdato su queste terre che ha sempre creduto amiche.
Colgo l’espressione stupita dei presenti: tutti, in effetti, ci aspettavamo un altro racconto: ci coglie di sorpresa la sua narrazione, noi che abbiamo sempre creduto che tutti gli immigrati, soprattutto quelli provenienti dalle terre slave o da quelle oltre il Mediterraneo, arrivino tra noi traversando il mare dentro la stiva di una nave affollata da altri poveracci colmi di speranze spesso mal riposte.
 
 
 
 
Non riusciamo a capitarci di come un albanese che immigra possa scegliere un mezzo tradizionalmente destinato ai viaggi da turismo per volare via da una realtà di dolore e miseria.
Davvero non ce li vediamo i loro volti e quei pacchi rigurgitanti stracci e abiti rattoppati trasvolare le terre aride d’Albania alla ricerca di un tozzo di pane meno duro e un’esistenza meno precaria di quella avuta in destino.
Eppure è quella la realtà; e gli occhi, i suoi occhi, si illuminano grandi quando al pc vede sfilare i ricordi d’infanzia, e le case bucate dalle bombe lontane, e le donne trentenni che paiono nonne, infilate in abiti obbligati lunghi fino ai piedi, nel mezzo di una voragine accaldata di piena estate.
Gli domandiamo se senta nostalgia della sua terra; leggo sul volto di tutti il sarcasmo nascosto di chi non può rivelare i propri segreti più intimi, e cioè come cavolo si potrà mai sentire la mancanza di tanta desolazione e tanta esibita indigenza.
Lui aggira abilmente la domanda: si, certo, replica, che sente pena per le sue terre abbandonate, ma il suo patimento sta per volgersi al termine, perché l’estate vicina significa ritornarci, in quei luoghi, nella sua abitazione in rovine lungo le sponde di un ruscello in secca, tra le foglie rade di un dirupo scosceso senza niente intorno.
 
Un fiume di emozioni si riversa lungo i percorsi di vita interrotta che si susseguono davanti la cinepresa colorata che ci rimanda le immagini di una terra a noi così prossima eppure così diversa.
Ci affrettiamo a cambiare argomento, non sia momento di lacrime vane, passiamo svelti alla matematica e poi all’inglese, quindi alla storia dell’arte, in una girandola incompleta di nozioni percorse  a metà e sfilacciate come è sfilacciata la sua storia di abbandono.
Girovaga sulle dite emozionate, poi tocca la penna a sfera lasciata cadere sul piano del banco su cui ha appreso a restare fermo e in attesa paziente, lo sguardo non ha ancora preso il vigore della sicurezza, sente che sta per volgere al termine quella mezz’ora di celebrità che si è regalato, serpeggiando tra ricordi e zigzagando una storia che abbiamo saputo intravedere forse un poco in ritardo.
Si alza, si allontana dopo il grazie rivolto a noi tutti, grazie di cosa non saprei davvero dire: grazie a te, a quei minuti di composta esposizione che ci hai donato, e alla tua figura in carne ed ossa che ho imparato a osservare meglio, senza nebbia di contorno, tolti finalmente gli occhiali scuri del giudizio.
 
 
 
 
 

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