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fiaba:la rivoluzione delle lettere

“Questa sarà l’ultima volta, l’ultima davvero!” esclamò furente il custode della lingua dopo aver assistito impotente e per l’ennesima volta a tutti gli errori di grammatica che Evaristo aveva disseminato sul quaderno, infischiandosene bellamente delle sorti della nostra amata lingua.
Aveva deciso che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe sopportato quelle penose umiliazioni alla nostra lingua e che, non vedendo opportunità di miglioramento possibili, avrebbe messo in atto il suo piano: avrebbe rapito tutte le lettere dal mondo, abbandonando gli abitanti della Terra al loro destino.
“Ah ah ah! Ora vedranno cosa significa stare senza lettere, ben gli sta! Dopotutto è colpa loro se ci troviamo in questa orribile condizione!” proruppe con tono deciso.
Il piano era progettato da tempo: non appena avesse potuto avrebbe sottratto tutte le lettere e le avrebbe tenute nascoste in una caverna di montagna dove lui e il bimbo più bravo sulla Terra nella lingua italiana le avrebbero conservate e dove avrebbero intrapreso uno studio forsennato di regole e regolette di linguistica, così da mantenere puro e intatto il nostro antico idioma.
Aveva scelto un luogo bellissimo, incontaminato, lontano da tutto e da tutti, una zona di montagna dove il tempo pareva essersi fermato; grazie alle prime lettere di cui era riuscito ad entrare in possesso praticò un foro larghissimo in  mezzo ai monti, tagliando in perpendicolare gli alberi che si trovavano sul suo percorso. Gli furono d’aiuto tutte le lettere T che era riuscito a racimolare e i quanti più punti esclamativi trovò: usò le prime come martelli e i secondi come trapani per praticare un buco 100 metri per 80 all’interno di quei monti per farne, appunto, il luogo del segreto nascondiglio.
Mise all’interno della caverna quanti più atlanti e dizionari gli fosse possibile e quanti più quaderni potessero starci, per il resto non c’erano che due sedie per gli studi previsti e un’enorme lavagna per le quotidiane trascrizioni; non c’era altro in quell’immensa caverna completamente buia, dove nemmeno il sole riusciva mai a penetrare.
Una mattina si mise accanto al portone d’entrata della scuola che Frido frequentava e lo sollevò con l’aiuto della A che, grazie alla sua guglia appuntita, riuscì a trasportare il bambino lontano da lì; Frido, che inizialmente non riusciva a capire cosa gli stesse capitando, in seguito si sentì tutto orgoglioso per essere stato prescelto e prese a mostrare enorme gratitudine per il custode e per quella importante missione che si stavano accingendo a compiere.
Non fu difficile al custode impossessarsi di tutte le restanti lettere dell’alfabeto: queste, infatti, non appena udirono l’espressione di rammarico e di dolore che si sprigionò dalle labbra del custode, si ritrassero in ordine dal quaderno di Evaristo e poi da tutti i quaderni dell’universo, senza fare commenti, in completo silenzio, quasi stessero aspettando da sempre quel misterioso richiamo.
Caricò l’intero alfabeto su alcuni vagoncini colorati che aveva preparato e partì alla volta della montagna.
Varcarono il cancello d’entrata, che recava scritto in alto “QUI RIPOSA LA LINGUA ITALIANA”, in piena notte, senza far rumore, di sottofondo solo il mormorio dei fiumi vicini che scrosciavano lentamente nei loro letti assonnati. Intanto, sulla Terra, da quando le lettere erano scomparse, era calato il silenzio, tutto era immobile, le persone non potevano più ne scrivere né parlare, riuscivano solo a pensare ma i pensieri, si sa, quando non possono essere espressi, restano cosa morta, senza espressione. La Terra, insomma, era divenuto un pianeta in completa agonia e i suoi abitanti fantasmi senza voce.
Il custode della lingua non perse tempo e si mise lesto a impartire precise disposizioni a Frido sulle attività che avrebbero compiuto: il mattino presto una veloce colazione a base di lettura e studio dell’analisi grammaticale, il pomeriggio ripasso dell’analisi logica e la sera predisposizione di uno scritto con i risultati dei progressi compiuti.
Non erano previste attività di svago, per riposare o andar per i boschi.
Intanto il tempo scorreva veloce: trascorsero 10 giorni, un mese, due, tutti spesi nell’accanito rituale del raggiungimento della perfezione linguistica. Frido, che era un ragazzino molto intelligente e anche molto vivace, cominciò a sentire nostalgia per il tempo libero che si ritagliava a casa, quando si poteva permettere libere volate sulla sua bicicletta rosso fuoco o fischiettanti passeggiate tenendo per mano il suo aquilone che volava fluente per l’aria di primavera. Chiese con coraggio al custode se potesse, tra un tema e l’altro, trascorrere qualche mezz’oretta a raccogliere more, o a osservare il passaggio lento del ruscello lì vicino e a far cadere, rasente all’acqua, le pietruzze che raccoglieva sulla via, per poi rallegrarsi dei progressi compiuti in quel gioco che faceva da bambino.
Il custode, all’udir pronunciare quella richiesta, si mise a urlare con tanta forza da far crollare, ad una ad una, tutte le foglie dell’enorme ippocastano vicino alla caverna, che per il frastuono per poco non crollava anch’essa; non avrebbe permesso a Frido alcun’altra attività che non fosse lo studio, solo e soltanto lo studio.
A Frido tutta quella solitudine e la mancanza di mamma e dei tanti amici che aveva sulla Terra iniziò a pesare molto; presto si formò in lui il proposito di rapire le lettere al custode e riportarle
 
 
 
veloce agli umani, cui erano state sottratte in modo sleale e dopotutto immeritate. Pensava che prima o poi il custode si sarebbe distratto e lui ne avrebbe approfittato per riprendersi le lettere e intraprendere il suo viaggio; si mise perciò a scrutare giorno e notte ogni movimento del custode.
Una mattina presto, Frido, nella mente l’idea fissa della fuga, con la coda degli occhi notò il custode ipnotizzato davanti alla lavagna e tutto concentrato a comporre la parola più lunga del mondo. Lo sentiva mormorare:“elapsam….goderenf….solipsott..non ci siamo, non ci siamo!” seguitava a ripetere, colto da ripetuti impeti di disappunto che riecheggiavano per la vallata: credette che fosse quello il momento giusto per scippargli le lettere e scappare lontano. Agguantò i dizionari che pendevano un po’ ovunque nella caverna e fece scivolare con attenzione le lettere dentro alcuni quaderni che si era portato dietro in quella strana missione. Mise in moto i vagoni con cui aveva affrontato il viaggio d’andata e ci caricò sopra le vocali e tutto il resto, mentre il custode e ne stava con lo sguardo fisso nel vuoto per l’incapacità di trovare la parola che cercava. Partì senza perdere tempo, destinazione Terra: superò valichi e sormontò dirupi, e infine gli apparve la gigantesca palla rotonda cui si stava lentamente avvicinando. Non aveva, però, fatto i conti con il custode che, fiutato l’inganno, lo aveva raggiunto a bordo di una tonda O, con l’obiettivo di impedirgli la fuga, ritornare in possesso delle lettere e riprendere il primato sulla lingua. Gli fu d’aiuto l’uncino appuntito del punto interrogativo, che gli assestò infine un colpo feroce da stenderlo dolorante al terreno. Il verdetto delle lettere decretò una terribile condanna: il custode costretto a ruotare in perpetuo dentro la caverna, in costante adorazione di un vocabolario vuoto, rincorso senza tregua dai puntini delle I che l’avrebbero assalito fino a sfinirlo; tra i capelli lo spuntone affilato di un punto esclamativo. Frido era finalmente libero; giunto sulla superficie terrestre sparse ansioso le lettere tutt’attorno; la Terra prestò si rianimò e la vita riprese a circolare con vigore. Gli abitanti  piansero di gioia. Le lettere si misero in girotondo e intonaron felici: “Eccoci qui, siam ritornate, pronte a restar sol se ci amate”. Il mattino dopo, tutti i bimbi dell’universo erano curvi sui libri a studiare con impegno e dedizione; il primo pensiero fu per Frido, il loro eroe coraggioso. Fu grazie a lui se sulla Terra i bambini impararono ad amare la lingua, senza assurde e inutili ossessioni, coscienti che solo la cura e il giusto rispetto ce la garantiranno tra noi rigogliosa e piena di vita.
 
 
 
 
 
 

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