Scritto da © Ezio Falcomer - Lun, 12/09/2016 - 04:13
<< Emerse dalle tenebre.
Memento e incubo.
Un uomo in un mantello colore delle ombre, su un cavallo da guerra colore dell’acciaio. Un viandante. Nient’altro che un viandante in nero.
Avanzò lungo la strada flagellata dalla pioggia del Giorno dei Morti. Superò i relitti di case sventrate, invase da erbacce sibilanti nel vento. L’aria era opaca, miasmatica. Vapori lividi si levavano dal lastrico di pietre, disperdendosi contro nubi simili ad antracite liquefatta. Nessuna luce arrivava sulla terra, Forse la luce aveva cessato di esistere.
Wolfengrad, Turingia.
La guerra era passata quattro estati prima. E poi di nuovo l’inverno prima. Troppi eserciti diversi, troppi condottieri diversi. Un unico desiderio: macellarsi gli uni con gli altri. e macellare il resto, tutto il resto. Strutture, raccolti, animali, uomini. Alla fine, la guerra se n’era andata. Solo un interludio nella demolizione. In un modo o nel’altro, in un tempo o nell’altro, la guerra sarebbe tornata.
La guerra era eterna.
Sul lato destro della strada, s’innalzava una linea di corpi, crisalidi di stracci su acciottolato viscido di piaghe purulente. Attorno a essa, erano in parecchi a piangere, a pregare, a implorare.
Il viandante in nero non si fermò.
Avanti a lui, qualcuno stava urlando. grida incoerenti, distorte dalla disperazione. Una donna di età indefinibile, capelli simili a un cespuglio di rovi, occhi iniettati di rosso, scattò di fronte al cavallo da guerra. Era lei a urlare cose prive di senso nell’oscurità del Giorno dei Morti. Le sue mani scheletriche artigliarono le redini.
Il viandante in nero trattenne l’animale, evitando che s’impennasse. Avrebbe potuto allontanare la donna con una frustata, con un calcio in faccia. Oppure avrebbe potuto ucciderla e basta. Nessuno avrebbe alzato un dito per fermarlo. A nessuno sarebbe importato.
Non accadde.
Il viandante in nero si protese dalla sella. Sotto il cappuccio appesantito dalla pioggia, il suo volto era un fulcro di oscurità. Il viandante in nero appoggiò sul capo della donna una mano guantata. Le passò lentamente le dita sulla fronte. Sussurrò qualcosa. Parole perdute nel vento.
Di colpo, la donna cessò di urlare, cessò di agitarsi. Abbandonò la stretta attorno alle redini. Si lasciò scivolare in ginocchio sul lastrico, giunse le mani, si fece il segno della croce. Chinò il capo nella pioggia.
Il viandante in nero riprese ad avanzare. E adesso c’era qualcos’altro a invadere il vento.
Fiamme.
E cenere.
Torce, molte torce. Pulsavano oltre la pioggia, oltre i vapori lividi che si levavano dalla strada. Forme solo vagamente umane si muovevano tra i bulbi infuocati. A ogni loro movimento, campanelle invisibili tintinnavano. Le forme erano chiuse in palandrane grigie, la parte inferiore della faccia protetta da maschere a forma di becco. Parevano corvi deformi. A tutti gli effetti, lo erano.
Mietitori della morte, predatori del morbo.
Monatti.
Le campanelle che portavano legate alle caviglie erano un avvertimento, una minaccia e un requiem. La guerra eterna se n’era andata da da Wolfengrad. La peste era rimasta. La peste non aveva mente. la peste non aveva occhi. La peste divorava e basta.
C’erano almeno quattro diversi gruppi di monatti al lavoro in vari punti della strada. Operavano con una tecnica ineluttabile, affilata come la lama di una mannaia. Si avvicinavano ai corpi avvolti da stracci che giacevano sul selciato. Due di loro sollevavano il cadavere, lo gettavano sul carro trainato da un animale scarno. Ad ammassarsi sopra altri cadaveri. Il terzo tagliava la stoffa grezza che racchiudeva il corpo e frugava quello che stava sotto. Niente sfuggiva: collane, anelli, monili, orecchini, monete, denti, crocefissi. No, niente sfuggiva.
La razzia finiva nel sacco di tela ruvida tenuto aperto dal quarto uomo della squadra. Gli stracci venivano richiusi alla meglio attorno a ciò che era stato un vecchio, una ragazza, un bambino, un uomo. Gli stracci tornavano a nascondere le bocche spalancate nel rantolo di sofferenza conclusivo, la carne scavata dalla malattia, le piaghe purulente. Tutto questo accompagnato dal tintinnare dei campanelli. Poi il carro si spostava in avanti con un sussulto.
Fino al cadavere successivo.
I superstiti osservavano dietro le fessure delle finestre inchiodate. Alcuni, i più temerari, i più disperati, osavano affacciarsi sulle soglie. Madri, fratelli, vedove, figli, nipoti, nonne. Non aveva importanza chi fossero, che cosa fossero. Potevano solo osservare. Qualcun altro era stato annientato, qualcun altro si era lasciato dietro il vuoto. La prossima alba, il prossimo crepuscolo, poteva toccare a loro, a chiunque di loro. Vuoto che generava altro vuoto. A Wolfengrad, Turingia, ogni giorno era il Giorno dei Morti. Anche da tutte le parti ogni giorno era il Giorno dei Morti.
“L’angelo delle tenebre!”
Nell’oscurità piena di fiamme, satura di cenere, la donna demente aveva ricominciato a urlare.
“E’ tornato a cavalcare la terra!”
Il viandante in nero superò l’ultimo carro dei monatti. Continuò a muoversi verso altre torce, altre ombre.
“Dietro di lui cavalca la Furia!”
Memento e incubo.
Un uomo in un mantello colore delle ombre, su un cavallo da guerra colore dell’acciaio. Un viandante. Nient’altro che un viandante in nero.
Avanzò lungo la strada flagellata dalla pioggia del Giorno dei Morti. Superò i relitti di case sventrate, invase da erbacce sibilanti nel vento. L’aria era opaca, miasmatica. Vapori lividi si levavano dal lastrico di pietre, disperdendosi contro nubi simili ad antracite liquefatta. Nessuna luce arrivava sulla terra, Forse la luce aveva cessato di esistere.
Wolfengrad, Turingia.
La guerra era passata quattro estati prima. E poi di nuovo l’inverno prima. Troppi eserciti diversi, troppi condottieri diversi. Un unico desiderio: macellarsi gli uni con gli altri. e macellare il resto, tutto il resto. Strutture, raccolti, animali, uomini. Alla fine, la guerra se n’era andata. Solo un interludio nella demolizione. In un modo o nel’altro, in un tempo o nell’altro, la guerra sarebbe tornata.
La guerra era eterna.
Sul lato destro della strada, s’innalzava una linea di corpi, crisalidi di stracci su acciottolato viscido di piaghe purulente. Attorno a essa, erano in parecchi a piangere, a pregare, a implorare.
Il viandante in nero non si fermò.
Avanti a lui, qualcuno stava urlando. grida incoerenti, distorte dalla disperazione. Una donna di età indefinibile, capelli simili a un cespuglio di rovi, occhi iniettati di rosso, scattò di fronte al cavallo da guerra. Era lei a urlare cose prive di senso nell’oscurità del Giorno dei Morti. Le sue mani scheletriche artigliarono le redini.
Il viandante in nero trattenne l’animale, evitando che s’impennasse. Avrebbe potuto allontanare la donna con una frustata, con un calcio in faccia. Oppure avrebbe potuto ucciderla e basta. Nessuno avrebbe alzato un dito per fermarlo. A nessuno sarebbe importato.
Non accadde.
Il viandante in nero si protese dalla sella. Sotto il cappuccio appesantito dalla pioggia, il suo volto era un fulcro di oscurità. Il viandante in nero appoggiò sul capo della donna una mano guantata. Le passò lentamente le dita sulla fronte. Sussurrò qualcosa. Parole perdute nel vento.
Di colpo, la donna cessò di urlare, cessò di agitarsi. Abbandonò la stretta attorno alle redini. Si lasciò scivolare in ginocchio sul lastrico, giunse le mani, si fece il segno della croce. Chinò il capo nella pioggia.
Il viandante in nero riprese ad avanzare. E adesso c’era qualcos’altro a invadere il vento.
Fiamme.
E cenere.
Torce, molte torce. Pulsavano oltre la pioggia, oltre i vapori lividi che si levavano dalla strada. Forme solo vagamente umane si muovevano tra i bulbi infuocati. A ogni loro movimento, campanelle invisibili tintinnavano. Le forme erano chiuse in palandrane grigie, la parte inferiore della faccia protetta da maschere a forma di becco. Parevano corvi deformi. A tutti gli effetti, lo erano.
Mietitori della morte, predatori del morbo.
Monatti.
Le campanelle che portavano legate alle caviglie erano un avvertimento, una minaccia e un requiem. La guerra eterna se n’era andata da da Wolfengrad. La peste era rimasta. La peste non aveva mente. la peste non aveva occhi. La peste divorava e basta.
C’erano almeno quattro diversi gruppi di monatti al lavoro in vari punti della strada. Operavano con una tecnica ineluttabile, affilata come la lama di una mannaia. Si avvicinavano ai corpi avvolti da stracci che giacevano sul selciato. Due di loro sollevavano il cadavere, lo gettavano sul carro trainato da un animale scarno. Ad ammassarsi sopra altri cadaveri. Il terzo tagliava la stoffa grezza che racchiudeva il corpo e frugava quello che stava sotto. Niente sfuggiva: collane, anelli, monili, orecchini, monete, denti, crocefissi. No, niente sfuggiva.
La razzia finiva nel sacco di tela ruvida tenuto aperto dal quarto uomo della squadra. Gli stracci venivano richiusi alla meglio attorno a ciò che era stato un vecchio, una ragazza, un bambino, un uomo. Gli stracci tornavano a nascondere le bocche spalancate nel rantolo di sofferenza conclusivo, la carne scavata dalla malattia, le piaghe purulente. Tutto questo accompagnato dal tintinnare dei campanelli. Poi il carro si spostava in avanti con un sussulto.
Fino al cadavere successivo.
I superstiti osservavano dietro le fessure delle finestre inchiodate. Alcuni, i più temerari, i più disperati, osavano affacciarsi sulle soglie. Madri, fratelli, vedove, figli, nipoti, nonne. Non aveva importanza chi fossero, che cosa fossero. Potevano solo osservare. Qualcun altro era stato annientato, qualcun altro si era lasciato dietro il vuoto. La prossima alba, il prossimo crepuscolo, poteva toccare a loro, a chiunque di loro. Vuoto che generava altro vuoto. A Wolfengrad, Turingia, ogni giorno era il Giorno dei Morti. Anche da tutte le parti ogni giorno era il Giorno dei Morti.
“L’angelo delle tenebre!”
Nell’oscurità piena di fiamme, satura di cenere, la donna demente aveva ricominciato a urlare.
“E’ tornato a cavalcare la terra!”
Il viandante in nero superò l’ultimo carro dei monatti. Continuò a muoversi verso altre torce, altre ombre.
“Dietro di lui cavalca la Furia!”
(Alan D. Altieri, “Magdeburg. L’eretico”, Milano, Corbaccio, 2005, pp. 15-17)