Scritto da © Ezio Falcomer - Mar, 20/12/2016 - 09:21
<< Ferber e i due della scientifica uscirono; si ritrovò da solo nella stanza. La luce calava ancora, ma non aveva voglia di accendere; sentiva, senza poterselo spiegare, che il delitto era stato commesso in pieno giorno. Il silenzio era quasi irreale. Da dove gli veniva la sensazione che in quel crimine ci fosse qualcosa che lo riguardava in modo personale? Osservò di nuovo il complesso motivo composto dai brandelli di carne distribuiti sul pavimento della sala. Più che disgusto, provava una sorta di pietà generale per il mondo intero, per l’umanità che nel suo seno può dare vita a tali orrori. A dire il vero, si meravigliava un po’ di riuscire a sopportare quello spettacolo che aveva sconvolto persino i tecnici della scientifica, pur preparati al peggio. Un anno prima, sentendo che cominciava ad avere delle difficoltà a reggere davanti a scene cruente, si era recato al centro buddhista di Vincennes per chiedere loro se fosse possibile praticarvi la “Asubhā”, la meditazione sul cadavere. Il lama di guardia aveva dapprima tentato di dissuaderlo: tale meditazione, a suo avviso, era difficile, inadatta alla mentalità occidentale. Quando gli aveva rivelato la sua professione, il monaco si era ricreduto e aveva chiesto di riflettere. Alcuni giorni dopo, gli aveva telefonato per dirgli di sì, che nel suo caso particolare, l’“Asubhā” poteva andare bene. Non la si praticava in Europa, dov’era incompatibile con le norme sanitarie; ma poteva dargli l’indirizzo di un monastero dello Sri Lanka che riceveva talvolta degli occidentali. Vi aveva sacrificato due settimane di vacanza, dopo avere trovato (era stata la cosa più difficile) una compagnia aerea che accettasse di trasportare il suo cane. Ogni mattina, mentre sua moglie andava in spiaggia, lui si recava a un carnaio dove si deponevano i morti recenti, senza precauzioni contro predatori e insetti. Così, concentrando al massimo le proprie facoltà mentali e cercando di seguire i precetti enunciati da Buddha nel sermone sul “samma sati”, aveva potuto osservare attentamente il cadavere livido, osservare attentamente il cadavere suppurante, osservare attentamente il cadavere smembrato, osservare attentamente il cadavere divorato dai vermi. A ogni stadio, doveva ripetersi quarantotto volte: “Questo è il mio destino, il destino dell’umanità intera, non posso sfuggirvi.”
Adesso se ne rendeva conto: l’“Asubhā” era stata un successo totale, al punto che l’avrebbe raccomandata senza esitare a qualsiasi poliziotto. Non era per questo divenuto buddhista, e anche se il suo senso di repulsione istintiva alla vista del cadavere si era notevolmente ridotto, provava ancora “odio” per l’assassino, odio e paura; desiderava vedere l’omicida annientato, cancellato dalla faccia della Terra.>>
(Michel Houellebecq, “La carta e il territorio”, e-book, Milano, Bompiani, s.d., pp. 161-62)