Sentivo i suoni, li avevo ascoltati da sempre, da quando lei mi portava con sé. Avevo abitato nella sua cassa di risonanza per mesi e mesi. Le sue frequenti visitazioni mi avevano costretto a non provare più paura, ritrosie o gelosie, se ne avessi avute mai: era una delle femmine del branco dentro la quale ero capitato.
Mi sgravidò e mi depositò con altri nati in mezzo al circolo, lì dove avrei dovuto crescere insieme a quelli che come me si dannavano in attesa del cibo.
Ogni tanto mi capitava di riconoscerne l'odore, ma non per questo facevo storie; mi attaccavo ad ogni mammella a tiro.
Un giorno mi spostai, osservando e seguendo i compagni che poco alla volta a quattro zampe se ne andavano dal circolo più interno di propria volontà, senza nemmeno essermi accorto dei sopravvenuti, che qualcuno mi subentrava, mi stava sostituendo in quello spazio angusto, stranamente mai vuoto.
Ora l'Odore cominciava a seccarmi sempre più spesso, a strattonarmi, spingermi sia verso l'esterno che l'interno del branco, a forzarmi le mandibole per cacciarmi in bocca profumi strani, costringendomi ad ingoiarli. I denti spuntando mi dolevano, piangevo ancora più forte di quando stavo là in attesa di berle, ma la compassione riservatami era nulla o quasi.
Avevo l'impressione di essere stato adottato da un corpo estraneo, di essere lì lì per perdere la mia libertà di movimento; da fermo guardavo gli alberi, i più lontani, e li rimpiangevo.
Sinceramente, avrei voluto seguire coloro che, più grandi, sparivano dalla vista zigzagando felici tra fronde e tronchi giganteschi per fare ritorno solo al tramonto.
In sintesi, sentivo la prepotente necessità di starmene da solo.
La femmina che mi aveva adottato non aveva solo me cui prestare attenzione; qualcuno le aveva affidato altri nati, maggiori di poco di dimensione, comunque più grossi e robusti, che parevano fare a gara a malmenarmi non appena questa voltava l'occhio per cogliere un frutto, mettersi in posizione ancestrale o squittire per ragioni incomprensibili con le sue compagne.
Dormivo nelle sue immediate vicinanze e lei, insieme alle altre, nel terzo circolo; quello più vicino ai lattanti dopo quello delle vergini.
Nel frattempo, imparavo a comprendere sempre di più il senso dei loro squittii. La loro memoria era così fresca che la sera riuscivano a rivangare come fosse appena ieri, il loro passato.
Dicevano del tempo della solitudine e non mi pareva che loro dispiacesse: di quando i gruppi erano più numerosi di adesso ma formati di sole femmine e di soli maschi, di quando un maschio si staccava dal gruppo e con occhi di brace si gettava su una di esse per poi lasciarla mesta, riunirsi di nuovo alla mandria.
Qualcuna li ricordava come bei tempi, anche se per il piccolo te la dovevi sbrigare da sola, portarlo appresso che ti inciampava tra le gambe, ti intralciava il cammino verso l'erba e l'acqua, la corsa, via dai predatori.
Chissà chi era stata, quella alla quale era venuto in mente di fare branco con alcuni maschi, forse pensando che in tal modo si sarebbero meglio potute difendere.
“Si, dev'essere stata la paura” concludevano immancabilmente, tutte incinta.
I non dominanti, credendosi per la loro posizione esterna di far quel che volevano tranne quello cui aspiravano, si saltavano l'uno addosso all'altro, nonostante l'ora, come guitti impazziti.