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Ad un incrocio

 
 
Ero al banco che dilapidavo il tuo nome.
Lo spendevo a bassa voce per uno di valore
ignoto, che a pelle non so quanto manchi al cuore,
per via che non ha allori, non ha sentinelle in memoria.
Del resto, perché presentarti al mio fianco
se in questo momento non vorrei mostrarlo
ma in ogni bicchiere lo espongo?

 

Regalare parole al vento serve a darsi un colore,
secondo alcuni camaleonti. Non si vedono più
per le stesse ragioni dell’asma: l’aria salubre
è inquinata dall’intonaco alle nuvole, signora
Rosa. E sono in un posto di lupi: la città ha zanne
che spuntano dall’asfalto con l’avorio dei fari
consunto e insinuante: fa buio, affidati a noi.
 
Andai nel punto in cui attraversare la strada
consente di passare un po’ di tempo a zonzo.
L’idea di fuggire a ritroso è tipica degli uomini
inutili (come evadere dal verbo fermo, indicativo
decisamente sicuro). Vidi il pericolo mostrato
dalle pedonali col fiato corto: non c’è bocca
più misteriosa di quel tratto con denti bianchi
alternati a caduti.
 
Appare tanto sottile che un passo in avanti
rende il futuro un filo malsano da raggiungere.
Ci vuole sangue per diventare eroi, ma la solitudine
è un vampiro, o una trasfusione senza tregua.  
Udivo le frenesie dei cavalli nei vani motore,
vano come una terribile prigione in cui scoppi
e prese d’aria imbizzarriscono i pistoni, un inferno
nel quale la stessa parola ruota va per esplosioni.

 

Di quanti cavalli io udissi sui garretti di gomma  
le automobili ne domano più che i reggimenti,
o i circhi. Domatori e cavalli stanno nello stesso metallo,
con l’astuzia di chiamarsi con dei rombi, segno che
la geometria di certe anime si adatta agli acuti, mentre
si sa bene che quando percorri le curve con sussurri,
poco altro rallenta le urla.

 

Ed era tanto buio che il tuo nome, quando uscì
dalla gola, suonò disperato.

 

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