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Quegli anni lontani

[Pensò che le persone se ne vanno e lasciano dei ricordi che non sempre sono visibili, che bisogna cercarli. E questi ricordi sono vivi e crescono mentre li si ignora e s'intrecciano con ricordi di altre persone e diventano grandi, diventano un mondo. E bisogna inseguirli quei ricordi, altrimenti il mondo si fa sconosciuto e ostile.]
da " Le rose di Evita" di Nico Orengo
 
C'era lui, si faceva chiamare Lino, il diminutivo del suo nome, Michelino. Era davvero singolare, un vero tipo. Di famiglia agiata, fagocitava le bizzarrie con una forte personalità. Nell'Almanacco dei tipi strani o negli Oscar dei primati, sarebbe stato registrato sotto la voce “Persona Altamente Eccentrica”.
    Vestiva (erano i primi anni settanta) capi inconsueti di abbigliamento con una indifferenza reale, non ostentata. Frequentavamo le scuole medie. Al posto del berretto, Lino sfoggiava un vistoso sombrero, retaggio di qualche viaggio in Messico dei suoi genitori, alternato (nei periodi più tranquilli della sua esuberanza) da una cupa bombetta londinese, recuperata dallo zio musicista.
    Al posto del tradizionale elastico o cinghia con cui legavamo i libri, sfoggiava un tascapane ricco di disegni (il disegno era il suo mondo) che richiamavano la serie televisiva MASH, un ospedale da campo dell'esercito americano nella guerra di Corea.
Intelligente all'inverosimile, gli bastava ascoltare una lezione per focalizzarne i punti essenziali e farne una sintesi, la particolarità maggiore del suo carattere era una spiccata bonomia canalizzata in una forma di ottimismo verso il mondo. Il sorriso era la sua bandiera. Sempre allegro, l'intera classe faceva capannello attorno a lui.
    C'era stata la settimana degli zoccoli. Di ritorno dai parenti montani, era venuto a scuola con degli zoccoli di legno. Il rumore nei corridoi superava il vociare di noi alunni. Era finito in presidenza a colloquio dal Preside accompagnato dai genitori. Il giorno dopo si era presentato a scuola impeccabile dentro un abito marrone con tanto di gilè (erano gli anni in cui il marrone era un colore che si usava ovunque: moquette, divani, tende...). No, la cravatta si era rifiutato di indossarla, e durante l'intervallo, con un paio di forbici aveva tagliato il bordo dei calzoni ricavando delle frange che facevano invidia alle tendine della latteria del corso. Lui era così, uno spirito un po' folle, un pò ribelle.
    Al ritorno delle vacanze estive (le trascorreva in montagna da un parente nel Trentino che aveva un negozio di strumenti musicali e che suonava nella banda del paese) sfoggiava un sax tenore luccicante. Lo suonava per strada, con gli occhi chiusi, e la musica saliva alta nel cielo. Improvvisava degli assoli di jazz e tutti si fermavano ad ascoltarlo. Nel suonare, aveva la stessa tensione, lo stesso accanimento di John Coltrane. In seguito era passato al flauto traverso, forse gli avevano rubato il sax, di fatto, con il flauto, il suo registro musicale era diventato più pacato, più intimista. Ovviamente portava lo strumento sempre con sé. Non si era inserito in nessuna band o complesso (come si chiamavano allora) perseguiva la sua ricerca esistenziale in solitudine, immerso tra la folla.
    Alla gita scolastica (eravamo d'inverno) sfoggiava un 'duvet' color verde pisello, colore insolito per quei tempi, e che a distanza sembrava un appezzamento di un orto a primavera. Eppure quella gita segnava uno spartiacque per tutti noi. Erano gli anni di dura contestazione e come un vento improvviso gli spinelli erano il dettato del momento, e lui lì, si era perso. Rollava dei cannoni che sembravano i fumaioli di una nave da crociera.
   Io l'avevo perso un po' di vista perché, dopo le medie avevo iniziato a lavorare in una officina, mentre lui si era iscritto al liceo. Lo vedevo qualche sabato pomeriggio, dopo il lavoro, con la tavola dello skateboard sottobraccio, tra quelle braccia piene di lividi e escoriazioni per via delle cadute.
A volte lo trovavo al campetto, dove giocavamo a baseball, o almeno facevamo finta di praticare quel gioco dalle regole inconsuete, per noi. Sapevo che aveva smesso di studiare e che praticamente non faceva nulla. Musica, fumo, libri e gli amici erano le sue attività principali, quelle secondarie erano il sesso e il sonno.
Lino andava per la maggiore con il gruppo delle amiche. Circolavano voci che madre natura lo avesse dotato, oltre che di uno spiccato senso dell'umorismo, anche di una altrettanto spiccata appendice del corpo.
      L'avevo ancora incontrato anni dopo, su un autobus, immerso nella sua solita verve intratteneva gli astanti. Poi gli anni erano volati via come pula al vento, e non l'avevo più rivisto. Circolavano ogni tanto voci su di lui. Si diceva che si fosse sposato, che si fosse separato, che fosse finito a gestire un campeggio, che fosse andato dai parenti nel Trentino, che fosse ritornato in città, che dormisse all'addiaccio nei parchi pubblici, che fosse andato sulla Luna... che... che... voci.
    Soltanto voci che circolavano, abbracciando il ricordo dei lontani anni scolastici e che oggi sono congelate su uno schermo di un computer.
 

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