Era entrato in quel museo confondendosi con un gruppo organizzato. Vestito in modo anonimo, girava in mezzo al gruppo, tra le varie sale, con aria assente. Aveva aiutato una madre a sollevare il figlio piccolo e a sistemarlo sul passeggino. Sembrava uno sconosciuto qualsiasi infilato in giorno di agosto. Eppure i suoi occhi erano uno scanner, un radar selettivo. Aveva individuato le telecamere, i sensori degli allarmi, i rilevatori di fumo e antincendio.
Aveva trascritto su un piccolo quadernetto, che portava sempre con sé, la planimetria delle sale con l'esatta ubicazione dei dipinti. Il suo amico David, un hacker con molte primavere sulla tastiera, era entrato nel sistema interno di sicurezza. Due guardiani notturni, facevano la spola tra i vari piani, inserendo un badge magnetico in un terminale posto nei vari corridoi dei piani, per confermare il loro passaggio. L'ultimo percorso avveniva alle cinque della notte. Poi alle sette c'era il cambio di turno.
Aveva due ore scarse per agire. E, per lui, due ore erano sufficienti. La visita odierna era l'ultima della serie. Domani notte sarebbe passato all'azione.
Si era preparato da mesi con disciplina monastica. I suoi amici l'avevano visto diradare le sue presenze al pub sino ad una totale assenza continuativa e ostinata. Non rispondeva più al cellulare e aveva fatto perdere completamente le sue tracce. Nella casa di campagna - quella che veniva usata di rado dalla sua famiglia e da anni in completo stato d'abbandono - aveva stabilito il suo head quarters. Un plastico in scala delle sale del museo, con i piani amovibili, era disposto su un tavolo appoggiato ad una parete. Delle tele grezze, di varie dimensioni, erano appese ai muri. Su un tavolino un plico di volantini erano incolonnati a fianco di uno zainetto. Una piccola torcia elettrica, un cutter, un cacciavite, una pinza e altri attrezzi giacevano allineati a fianco dello zaino.
Era pronto ad agire.
Si era introdotto nel giardino del museo. Aveva sollevato la grata esterna che dava al locale sotterraneo delle caldaie, aperto con i ferri da scassinatore la serratura della porta tagliafuoco, ed era entrato. David gli aveva garantito due ore di copertura sull'intero sistema d'allarme del museo.
Poteva fare ciò che voleva, sguazzare piacioso come un neonato mentre gli fanno il bagnetto. Doveva però fare attenzione ai due guardiani, ma a quest'ora erano a fine giro. Indossò il passamontagna, sistemò il cappuccio della felpa scura, serrò le cinghie dello zainetto e poi si mosse guardingo.
Scivolò lungo i muri, salì le scale e giunse al terzo piano. La luce lunare inondava le sale. Bene, non avrebbe avuto bisogno di usare la piccola torcia elettrica. Nella terza sala trovò ciò che cercava. Si fermò un istante, controllo l'ora, c'era tempo. Era tranquillo, sapeva che l'impresa sarebbe riuscita. Provava una sensazione di sicurezza interiore. Si sentiva leggermente euforico. Sorrise.
Con calma posò lo zainetto davanti al dipinto e indossati i guanti in lattice iniziò a cercare nello zainetto i ferri. Il tempo sembrava un'immagine sospesa. Scorreva dilatato. Aveva provato quella sensazione solamente una volta, quando il dentista gli aveva praticato l'anestesia. Gli sembrava di galleggiare nello spazio con il tempo che rallentava sino a fermarsi.
Tese l'orecchio per cogliere qualche rumore sospetto. Nulla. Procedette con metodo. Aveva provato e riprovato diverse volte quell'operazione, la poteva fare anche a occhi chiusi. Sì, all'inizio era una sensazione strana, innaturale, manovrare quell'ago curvo con le pinze, ma poi, con la pratica, era riuscito ad acquisire maggior manualità. E mentre lavorava sentiva nella sua mente risuonare forte la voce di suo padre (lui aveva sette anni e gli cadevano a terra tutti gli oggetti che prendeva in mano) che, come un ritornello, gli ripeteva “Tu non sei capace a fare nulla!”
Sorrise. Vedrai se non sono capace a fare nulla, pensò mentre estraeva dallo zaino una bomboletta spray di vernice bianca. Ora l'opera era compiuta. Appiccicò, a fianco della tela, alcuni volantini. Estrasse la piccola telecamera, fece una panoramica della sala, poi si soffermò sull'intervento compiuto.
Domani, su tutti i mezzi d'informazione, sarebbe apparsa la sua rivendicazione. La gente avrebbe conosciuto il gruppo da lui fondato. Al momento erano soltanto in cinque adepti, ma presto sarebbero cresciuti.
La tela di Lucio Fontana, “Attese”, quel quarto scarso di metro quadro di idropittura rossa, presentava i tre tagli aperti dall'artista suturati con del filo bianco. Sotto, a spray, compariva la scritta F.R.A.: Fronte per la Restaurazione delle opere d'Arte.
I volantini rivendicavano l'azione: L'Arte all'Arte.
Era una restituzione. Basta con il concettuale, l'arte povera e tutte quelle chiacchere. Le opere d'arte dovevano essere comprensibili al pubblico, dovevano appagarlo, inebriarlo e stordirlo con la loro bellezza. Lo spazio che l'autore, attraverso i tagli, voleva far coincidere con lo spazio reale, quello fuori della tela, grazie alle suture operate da lui, si era nuovamente richiuso. Soddisfatto del lavoro, scese le scale diretto verso il locale caldaie.
Pensieroso, uscì all'aria aperta, sfilò il passamontagna, abbassò il cappuccio della felpa e si incamminò verso la fermata del metrò. In effetti c'era ancora molto lavoro da fare. Pensò a quell'opera di sassi sistemati in un prato. Land Art, così l'aveva ideata quel californiano dell'altro secolo, De Maria, che asseriva che le catastrofi naturali erano la forma più alta di espressione artistica.
Sì, certo, vi avrebbe condotto un gregge di pecore a pascolare tra quei sassi. In fondo era il loro luogo naturale. La terra non era di certo una tela o un museo.
- Blog di Rinaldo Ambrosia
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