La porta dietro l'armadio (parte prima) | Prosa e racconti | Rinaldo Ambrosia | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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La porta dietro l'armadio (parte prima)

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All’apparenza quell’arco in vicolo Santa Maria 7, o meglio in piazzetta dei Maestri Menusieri, nulla possiede di strano. È la notte a impossessarsi delle figure che ornano l’arco e ad assegnare loro il ruolo di presenze vive. È la notte a suggerire che nell’affresco dipinto sul muro seguendo i dettami artistici di De Chirico si possa entrare facendo un solo passo.”

 

Torino il diavolo e altre cose.

Luciano Del Sette e Marco Torello

 

 

 

 

Al 5 di via Montebello, la signorina Frisa, inquieta, si aggira per casa. Da una decina di giorni è pensionata. Osserva il suo viso (magro e ilare, dove un corto caschetto di capelli candidi, mette in risalto l’azzurro dei suoi occhi), riflesso nello specchio appeso sopra il cassettone. Le sue mani, in modo automatico, scivolano, lungo i fianchi, sino alle tasche dei pantaloni. Magra è magra. Lo è sempre stata. Ma, nonostante gli anni, conserva ancora un’immagine graziosa. Il suo vero nome è Maria, ma da sempre, per via del suo fisico alto e asciutto, per tutti è Frisa.

Un paio di amori andati male, il ripiegarsi in modo accanito sul suo lavoro di bibliotecaria, l’abbandonarsi alla lettura, da sempre la sua passione prediletta, e gli anni sono trascorsi via veloci. Ora eccola qui, a distendere con la mano le pieghe del golf riflesse dallo specchio.

L’ombra della Mole si allunga sul marciapiede. Maria sfiora con lo sguardo l’edificio antonelliano illuminato dal sole, carezza distrattamente il portaritratti sopra il cassettone con la fotografia di Anna, la sua nipote prediletta, e apre il cassetto che contiene ritagli e articoli su curiosità torinesi.

Solleva il primo foglio, inforca gli occhiali appesi al collo con una cordicella scura (niente metallo luccicante, per favore!).

Il foglio è una fotocopia in cui s’intravede un cascinale immerso nella neve, con la scritta: Domus Morozzo, e in primo piano la riproduzione di una lapide. Legge:

 

 

1556

NOSTRE DAMUS A LOGE ICI

ON IL IIA LE PARADIS LENFER

LE PVRGATOIRE IE MA PELLE

LA VICTOIRE QVI MHONORE

AVRALA GLOIRE QVI ME

MEPRISE OVRA LA

RVINE HNTIERE

 

 

Poi pensa:

Già, la lapide di Nostradamus. Stando ai cultori dell’esoterismo, ogni lapide condanna la persona che ne porta il nome a rimanere imprigionata per sempre in quel luogo; altro che le centurie…

Strana città questa, dove Nietzsche parla ai cavalli, si sostituiscono nelle culle i re, le palle di cannone francesi sono disseminate dovunque come bonbon, e si continua a sfornare automobili e brioches. Mah, chi la capisce è bravo!

 

Lo squillo del telefono interrompe il flusso dei suoi pensieri.

- Zietta ?

- Oh, Anna!

- Senti, zietta, ho trovato una cosa per te.

- Oh bella! e che cos’è?

- Guarda, non te lo dico, non ti muovere di casa, corro io lì da te.

Dieci minuti d’orologio, ed é il rumore dello scooter in strada, seguito dallo squillo del campanello, a distogliere nuovamente Frisa dai suoi pensieri.

 

Anna è vitale e fresca come i suoi ventidue anni.

- Ehi, che guance gelate che hai!

- Oggi il tempo non scherza, zia!. - Anna si toglie il casco, si libera della giacca da sci, e ne estrae dalla tasca interna una busta che sporge alla zia.

- Ecco, zietta, l’ho trovata incastrata tra i legni di un antico canterano che sto ristrutturando, vedrai che sorpresa!

Frisa apre la busta e dispiega un foglio ingiallito dal tempo. Tracciate a matita, con elegante grafia, legge:

 

 

Nella più lunga notte d’inverno,

nell’isola di San Liborio,

dove sopravvivono antichi mestieri,

si aprirà la grande porta dell’Averno”.

 

                                                                                         ***

 

Ludvig Kielmann, dagli amici detto famigliarmente “Kiel”, passeggia con il suo pointer lungo il Po. Kila, curiosa, punta ogni cespuglio, annusa l’aria, inspirando l’odore di foglie secche, starnutisce vistosamente e scodinzola. In questi giorni si è presa una brutta blefarite, le sue ciglia sono come ciliegie mature. La cagna dalle ciglia rosse punta il muso contro il fiume dove due canoe scivolano silenziose sull’acqua. Eh, brutta cosa la pensione, caro Kiel. E brutta cosa è quest’insonnia che ti nasce dentro e ti costringe a vagare di notte per la città. Quartiere dopo quartiere, isola dopo isola.

Da quando hai lasciato la questura e il tuo ufficio di corso Vinzaglio (ispettore di polizia), la vita, da quel gran brusio che era, si è affievolita. Sì, gli amici al bar sono sempre gli stessi, così come le partite a scopone scientifico (ma voi, ve lo vedete un ispettore di polizia con l’hobby dei francobolli?), e i giorni della settimana. Non come quel tuo amico Guido Baretti, quello dell’esercito, con la passione degli scavi. Lui sì, che scavando la notte, resuscita il passato di questa città. Ricordi quella volta che ti ha coinvolto nei sui giri notturni (tanto sottoterra il giorno e la notte, come sposi, si confondono entrambi). Vi eravate dati appuntamento nei pressi di corso Matteotti. “Vedrai, sarà interessante”. Ti aveva detto Baretti, poi, veloce come un prestigiatore, aveva messo le transenne e aperto un tombino. Al suo interno, una scala a chiocciola vi aveva portato sino al livello della galleria. Buio e umido. Rivoli d’acqua colano lungo una parete. Il fango ricopre l’intera struttura. Baretti ti spiega che tutta la fortificazione era invasa dal fango e che i volontari hanno dovuto liberarla con secchi, carriole, e anni di buona volontà. Ma tu, Kiel, sei già lontano con il pensiero.

Vi incamminate in fila indiana. I lampi di luce proiettati dalle pile squarciano il buio del corridoio. Passate attraverso parti della galleria franata; si intravedono le fondamenta dei palazzi costruiti negli anni settanta: grigi artigli in cemento armato che affondano nella terra.

Baretti, entusiasta, parla, delle sue ricerche, degli scavi, ti sporge una fotografia di una lapide, dicendo:

- Guarda, si trova di tutto sottoterra.

Sulla foto, una lastra in pietra rischiarata da un colpo di flash, si evidenzia una scritta.

 

NELLA NOTTE PIÙ LUNGA D’INVERNO

NELL’ISOLA DI SAN LIBORIO

DOVE SOPRAVVIVONO ANTICHI MESTIERI

SI APRIRÀ LA GRANDE PORTA DELL’AVERNO

 

E da splendido anfitrione, Baretti ti racconta della leggenda del dio Moloch, e del tributo in vittime umane che i fenici-cananei dedicavano a questa divinità attraverso la “Grande Porta”. Poi ti narra di una leggenda urbana che vuole che questo “divoratore di sangue” continui a estendere anche oggi la sua influenza attraverso uomini o edifici, attirando le sue vittime come un ragno nella tela. Ascolti le sue parole, mentre con il piede eviti una pozza d’acqua. Ma lui è nuovamente assorbito dalla struttura muraria, e estasiato dice:

- Qui c’è il corridoio detto a biscia; da queste feritoie i difensori sparavano sugli attaccanti... osserva come sono regolari le strutture in mattoni... come l’opera è ben rifinita nonostante lo scopo per cui era prevista.

Eh sì, ispettore, guardi i mattoni, ma sei assente. Pensi a lei, vero?

Ma che diavolo... - dice lui; già, ma lui che ne sa dell’amore? È immerso nelle sue mura, nelle gallerie. Queste costruzioni reggono tutto il peso della sua vita. Anni di ricerche, documenti e scavi. E ancora scavi. Ascolti distratto le sue parole, sul muro della parete di fronte non vedi più i mattoni sabaudi, ma il viso di Luisa, grande come un manifesto pubblicitario che ti sorride. Senti il suo profumo aleggiare nell’aria, così forte e intenso che copre l’odore di fango e muffa. E all’improvviso ti senti soffocare e vuoi uscire.

 

- Mio Dio, questa storia mi sta facendo diventare matto! - esclami, accasciandoti in un angolo, con la testa racchiusa tra le mani.

        

                                                                                             ***

                                                                   FINE PARTE PRIMA

 

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