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Condannata a vivere

Nuda, emerse dai labirinti dei sensi e restò immobile nel suo sudore di mandorle amare, macchiato d'erba tagliata.
Una lama di sole già allungava avida la sua mano, a carpire come amante gelosa, le tracce dell'amore tra le pieghe sgualcite del letto. Nonostante tutto, era mattina. 
E cruda nella sua bruttezza, la realtà la costringeva ad alzarsi.
Rotolavano come biglie di vetro colorato i minuti e si fermavano negli angoli della stanza,
tintinnando incerti e urtandosi l'un l'altro.
Lei continuava ad infilare l'ago della memoria nella trama dei giorni passati, ansiosa di portare a compimento il suo minuzioso lavoro.
Sembrava che all'improvviso la percezione della realtà circostante, fosse stata come levigata dalla pioggia, che durante la notte, incessamente, aveva ritmato la loro danza.
Si sciolse dall'abbraccio, come un petalo che malinconico si sfoglia e lentamente si lascia scivolare dalla sua corolla. E un tremore, come l'ala di farfalla che freme un'ultima volta
prima di morire, la colse, improvviso. Guardò un ultima volta quel corpo già abbandonato e ancora ignaro, smarrito nell'oblio del sonno e nella penombra amara del distacco, si avviò.
Si voltò a cercare l'ombra del suo sorriso nella scheggia di specchio che ornava le sue ciglia. Era ancora lì quello scintillio ramato, nascosto agli sguardi della folla ordinaria,
era una minuscola scaglia di sole cesellata tra lamine di ossidiana.
Era lì e occhieggiava fremente, ondeggiando curvilineo sulle gote, scivolando e in attesa, fermo all'angolo della bocca.
Come fosse un sospiro a lungo trattenuto, alzò lentamente la mano e sposto' la falce nera dei suoi capelli che, in oscura eclissi, le nascondevano il profilo.
Poi seguì la curva morbidamente assonnata della sua bocca e scorse, al di là del suo respiro, il segno che la lucida follia dell'amore aveva disegnato sul suo viso.
Sentì acuto il dolore, che già stillava nere gocce, mentre i rovi del silenzio che lei stava intrecciando, stracciavano la pelle del suo cuore. Ma, muta di ogni pianto, si chiuse, silenziosamente, la porta alle spalle e scese nella luce del giorno.
Respirando avidamente i sorsi di quel mattino e tenendo per mano la paura, ripercorse cauta quel tratto di strada, tacitando le voci che attraverso le sbarre dell'anima, petulanti chiedevano conto, con arrogante pretesa, della sua irrevocabile scelta.
E sembrò uno scherzo quel raggio di sole improvviso, finto nel suo artificioso splendore,
quando beffardo si allungò e spavaldo accese una fiamma sul pallore del suo viso.
Una minuscola goccia di rubino, il sangue di antiche ferite, si fermò tra gli arabeschi bruniti dei ricordi e improvvisamente si schiusero i neri petali del tempo.
Così andavano ora i suoi passi, foglie staccate dal ramo, abbandonate all'indifferente calpestìo dei passanti e destinate a disfarsi nell'umido fangoso divenire dei giorni.
Strinse il pugno in fondo alla tasca del dolore e sentì viva la punta di quel chiodo 
che si conficcava al centro della sua anima.
Soffriva. Ancora. Era viva. 
Ancora una volta il dolore aveva respinto la sua morte e la condannava alla vita.
 
(Tratto da ''Le pagine della notte''  2010 - Stefania Stravato)
 

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