Era salito a Palermo, inosservato. Una valigia ed un astuccio per violino entrambi neri. D’un balzo nell’ultimo vagone, lontano da tutti. Nessuno se n’era accorto, e lui s’era in fretta sistemato nell’estremo scompartimento. Tutto per lui, che aveva subito tirato la breve cortina, sedendosi con più calma, ma con lo sguardo all’astuccio, posto sulla reticella davanti ai suoi occhi.
Era giovane, ma non tanto. Quegli occhi fissi in alto erano neri, ed erano neri i sopraccigli e probabilmente i capelli, che aveva accuratamente rasati quel mattino.
Neri erano i calzoni e le scarpe, nera la camicia e la giacca, ed era gialla la cravatta che si stava sfilando, sganciandosi l’ultimo bottoncino. Quando il treno s’era mosso, aveva atteso un paio di minuti e poi aveva aperto il finestrino sulla campagna che gli scorreva sotto. Aveva spaziato lo sguardo indietro, quasi volesse scorgere un eventuale nemico corso ad inseguirlo. Aveva allora sputato fuori l’amaro che aveva in bocca, e s’era seduto chiudendo gli occhi.
Dentro aveva l’immagine di quell’uomo. Era un’istantanea scattata anni fa. Ma il viso era quello, facile da rintracciare in una sala ristretta. Il naso aquilino inconfondibile, le palpebre pesanti sugli occhi. Il problema era dopo. La fuga nel parapiglia. Svanire.
Il treno ormai correva alla velocità di crociera. La campagna continuava a scorrergli a lato, frustata dai pali lungo il percorso, al ritmo dei colpi sommessi delle congiunture dei binari.
Ormai era in giuoco
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