Il medico legale aveva buttato il cuore sul piatto della bilancia con la stessa delicatezza con cui il fruttivendolo gli pesava un chilo di patate o il salumiere due etti di prosciutto. Duecentocinquantasette grammi segnati sul display. Perfetti. Il due più il cinque si rivelavano in quel sette magico. Della giusta grandezza, quella del suo pugno, dalla forma di tronco di cono compresso dall'avanti all'indietro, era l’organo perfetto. Sublime. Sublime il sangue che evaporava dalla bacinella d’acciaio in una nube rossastra. Il vapore avvolse le luci bianche malate che pendevano dal soffitto, tenute soltanto da una capillare corda di nylon. Che materiale magnifico – si ricordava sempre – resistente quanto sottile. Dopo aver estratto ogni molecola di emoglobina dal muscolo, il medico lo spostò al centro di una caverna di plexiglas illuminata da ogni lato. Poi, prese alcune siringhe e le conficcò nell’ormai rinsecchito miocardio. Sembrò quasi che gli aghi si stessero per spezzare al penetrare quella carne disidratata. Il medico li aggiustò e subito iniziarono a scivolare liquidi, cristalli e gas attraverso lunghi e stretti canali di pyrex. Gocce d’amarezza cadevano accumulandosi sul fondo della beuta graduata, ultimo traguardo del siero estratto. Attraverso un altro tubetto trasparente ioni d’invidia precipitavano col nitrato d’argento in un solido cristallino bianco. Conficcata nel ventricolo destro, da una terza siringa colorata di rosa, etene misto a molecole d’amore si propagava pericolosamente attraverso la canna trasparente. Infilzato come uno spiedino ed in mostra come un prezioso diamante al museo, il cuore, nonostante tutto, si muoveva ancora. Niente sangue, niente pompaggio, semplicemente in preda a violente convulsioni. Sembrava respirare. Espirare. In piedi davanti ad un armadietto pieno di boccette colorate ben allineate e divise per colore e sfumatura, il medico osservava la sua collezione, ammirava i colori sgargianti ed opachi. Chiuse lo sportelletto e tornò dalle sue amanti. Le siringhe colorate su cui erano annotate “gioia”, “spensieratezza” e “malinconia”, sputavano nei tubi di pyrex i reagenti, trasportando i sentimenti privando il cuore di ogni cosa potesse contenere. Attraverso un quarto canale di pyrex, l’acido solforico fumante trasportava moli di rabbia formando un liquido denso e oleoso che scivolava con velocità fino nella beute; così come la miscela blu-violetto di azulene e tristezza. Il corpo svuotato giaceva a qualche metro da li. Adagiato su un tavolo in acciaio, aperto al petto andava putrefacendosi. Le cellule raggrinzite sembravano voler tirare le altre cellule verso se stesse, creando solchi, piccole valli di rughe. Il viso era ancora pietrificato nella smorfia di dolore con cui aveva abbandonato la realtà fisica. Lentamente le cellule epiteliali caddero, la pelle si squamò e le ossa divennero polvere. Il medico controllò che gli aghi, e tornò all’armadio. Prese una boccetta rosa, taglio qualche grammo dei cristalli rosa che conteneva e li tirò su col naso, poi si iniettò la soluzione salina endovena. Giusto per equilibrare. Il medico sorrise. All’improvviso ci fu un boato immenso. La beuta etichettata “amore” esplose spargendo schegge di vetro ovunque. Una di queste si conficcò nell’orbita sinistra del medico che cadde a terra. Un lieve odore dolciastro riempì la stanza e depositandosi sulle superfici, corrose ogni cosa.
Del laboratorio, rimase solo un etichetta con una scritta: “maneggiare con cura”.
Rita Foldi [fallenfairy]
Associazione Salotto Culturale Rosso Venexiano
-Direttore di Frammenti: Manuela Verbasi
-Supervisione Paolo Rafficoni
-Editing: Alexis
-Racconto di Rita Foldi [fallenfairy]
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