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Roland Barthes - L’impero dei segni - dedicato alla cultura giapponese (haiku)

 "Perché il Giappone? perché è il Paese della scrittura: fra tutti i Paesi conosciuti, è in Giappone che ho incontrato la pratica del segno più vicina alle mie convinzioni e ai miei fantasmi, o, se si preferisce, più lontana  dai disgusti, irritazioni  e rifiuti che suscita in me la semiocrazia occidentale"
 
 
                                                                                                        R. Barthes
L'effrazione del senso
 
Lo haiku ha una proprietà un poco fantasmagorica: che ci s'immagina sempre di poterne comporre da se con facilita. Ci si dice: che cosa di piu accessibile alla scrittura spontanea di questo haiku (di Buson):
 
È sera, autunno, io
penso soltanto
Ai miei parenti
 
Lo haiku fa invidia: quanti lettori occidentali non hanno mai sognato di passeggiare per la via, taccuino alla mano, annotando qui e la delle “impressioni”, la cui brevità garantirebbe la perfezione, la cui semplicità attesterebbe la profondità (in virtù d'una doppia mitologia, una classica, che fa della concisione una prova d'arte, l'altra, romantica, che attribuisce un valore di verità all'improvvisazione)?
Pur essendo del tutto intelligibile, lo haiku non vuole dire nulla ed è per questa doppia condizione ch'esso sembra offerto alle interpretazioni in un modo particolarmente disponibile, servizievole, come un ospite cortese, che vi permette d'installarvi comodamente in casa sua, con le vostre manie, i vostri valori, i vostri simboli; l’”assenza” dello haiku (come si può affermare altrettanto bene d'uno spirito irreale che d'un padrone di casa partito per un viaggio), invoca la subornazione, l'effrazione, in una parola, la voluttà maggiore, quella del senso.
Questo senso prezioso, vitale, appetibile come una fortuna (caso e denaro) lo haiku, sbarazzato dalle costrizioni metriche (nelle traduzioni che noi possediamo) sembra fornircelo a profusione, a buon prezzo e su ordinazione: nello haiku, potremmo dire, il simbolo, la metafora, la morale non costano pressoché nulla: soltanto qualche parola, un'immagine, un sentimento, la dove la nostra letteratura richiede abitualmente un poema, un dispiegamento о (nel genere più breve) un pensiero cesellato, insomma un lungo travaglio retorico. Cosi anche lo haiku sembra offrire all'Occidente dei diritti che la sua letteratura gli rifiuta e delle comodità ch'essa gli lesina. Avete il diritto, suggerisce lo haiku, d'essere futile, breve, ordinario; racchiudete ciò che vedete, ciò che sentite, in un minimo orizzonte di parole e saprete interessare; avete il diritto di fondare voi stessi (e a partire da voi stessi) ciò che vi sembra ragguardevole; la vostra frase, qualunque essa sia, enuncerà una morale, produrrà un simbolo, voi sarete profondo; con minimo dispendio, la vostra scrittura sarà piena.
 
L'Occidente inumidisce di senso ogni cosa, alla maniera di una religione autoritaria che imponga il battesimo all'intera popolazione; gli oggetti del linguaggio (fatti con la parola) sono evidentemente dei convertiti di diritto: il senso primo della lingua richiama, metonimicamente, il senso secondo del discorso e questo richiamo ha valore di un vincolo universale. Noi abbiamo due modi per evitare al discorso l'infamia del non-senso e sottomettiamo sistematicamente l'enunciato (in una chiusura estrema di ogni tipo di nullità, che potrebbe far intravvedere il vuoto del linguaggio) all'una о all'altra di queste significanze (ovvero fabbricazione attiva di segni): il simbolo e il ragionamento, la metafora e il sillogismo. Lo haiku, le cui espressioni sono sempre semplici, colloquiali, in una parola accessìbili (come si dice in linguistica), è attirato in un tipo о nell'altro di questi due imperi del senso. Dal momento che si tratta di un “poema” lo si cataloga in quella parte del codice generale dei sentimenti che si chiama “l'emozione poetica” (la Poesia abitualmente è per noi il significante di ciò che è “confuso”, dell'”ineffabile”, del “sensibile”, rappresenta insomma la classe delle cose inclassificabili): si parla di “emozione concentrata”, di “annotazione sincera di un istante d'eccezione”, e soprattutto di “silenzio” (il silenzio essendo per noi segno di un pieno di linguaggio). Se uno degli autori di haiku (Joso) scrive:
 
Quante persone
Sono passate attraverso la pioggia d'autunno
Sul ponte di Seta!
 
vi si legge l'immagine del tempo che fugge. Se un altro (Basho) scrive:
 
Vengo attraverso il sentiero di montagna.
Ah! che meraviglia!
Una violetta!
 
è perche ha trovato un eremita buddista, “fior di virtu” e cosi via. Nemmeno un tratto che, nel commento occidentale, non venga investito di una valenza simbolica. О meglio, si vuole ad ogni costo intravvedere nella terzina dello haiku (i suoi tre versi di cinque, sette e cinque sillabe) il disegno di un sillogismo, in tre tempi (la posizione, la sospensione, la conclusione):
 
II vecchio acquitrino:
Una rana vi salta dentro,
Oh! il rumore dell'acqua.
 
In questo singolare sillogismo, l'inclusione si fa con la violenza: è necessario, per esservi contenuta, che la minore stia nella maggiore. Beninteso, se si rinunciasse alla metafora о al sillogismo, il commento diventerebbe impossibile: parlare dello haiku sarebbe semplicemente ed esattamente ripeterlo. Cosa che fa, innocentemente, un commentatore di Basho:
 
Sono già le quattro...
Mi sono alzato nove volte
Per ammirare la luna.
 
“La luna e cosi bella, - dice il commentatore, - che il poeta si alza e rialza senza fine per contemplarla alla sua finestra”. Decifranti, formalizzanti о tautologiche, le vie dell'interpretazione, destinate qui da noi a svelare il senso, cioè a farlo entrare con l'effrazione - e non a scuoterlo, a farlo cadere, come il dente del rimasticatore d'assurdo, quale deve essere l'apprendista zen, alle prese con il suo koan — le vie dell'interpretazione non possono dunque che sciupare lo haiku: perche il lavoro di lettura che vi è connesso è quello di sospendere il linguaggio, non di provocarlo: impresa di cui per l'appunto il maestro dello haiku, Basho, sembrava conoscere bene la difficoltà e la necessità:
 
Come è ammirevole
Colui che non pensa:
«La vita è effimera»
Vedendo un lampo.
 
da “L’impero dei segni” – Einaudi “Gli struzzi” – 1984
 
 
 
L'esenzione del senso
 
Lo zen, nella sua completezza intraprende battaglie contro ogni prevaricazione del senso. È noto che il buddismo elude la via fatale di ogni asserzione (o di ogni negazione), raccomandando di non esser mai preda delle quattro proposizioni seguenti: questo è A,- questo non è A, - questo è ad un tempo A e non-A, — questo non è né A né non-A. Ora, questa quadruplice possibilità corrisponde al paradigma perfetto, quale l'ha creato la linguistica strutturale (A, - non-A, — né A né non-A [grado zero], A e non-A [grado complesso]); in altre parole, la via buddista è esattamente quella del senso ostruito: l'arcano stesso del significare, cioè il paradigma, è reso impossibile. Quando il sesto Patriarca da le sue istruzioni che riguardano il mondo, esercizio della domanda-risposta per meglio sconvolgere il funzionamento paradigmatico, raccomanda, qualora venga proposto un termine, di portarsi verso il suo termine opposto («Se, nel porvi domande, qualcuno vi interroga sull'essere, rispondetegli con il non-essere. Se vi interroga sul non-essere, parlategli dell'essere. Se vi fa domande sull'uomo comune, rispondetegli parlandogli del saggio, eccetera»), in modo da far apparire il ridicolo connesso allo scatto paradigmatico e al carattere meccanico del senso. Ciò che viene mirato (con una tecnica mentale la cui precisione, la pazienza, il raffinamento e la saggezza attestano sino a qual punto il pensiero orientale ritiene difficile la perenzione del senso), ciò che viene colpito è il fondamento del segno, cioè la classificazione (maya): costretto alla classificazione per eccellenza, quella del linguaggio, lo haiku opera però in previsione d'ottenere un linguaggio piatto, che nulla (come avviene immancabilmente con la nostra poesia) collochi su degli strati sovrapposti di senso, ciò che potremmo chiamare una «sfoglia» di simboli. Quando ci vien detto che fu il rumore della rana a risvegliare Bashò alla verità dello zen (anche se questo è un modo ancora troppo occidentale di parlare), si può intendere che Bashò scopri in questo rumore, non certo il motivo di un'«Ìlluminazione», di un'iperestesia simbolica, ma piuttosto la fine del linguaggio; c'è un momento in cui il linguaggio vien meno (momento ottenuto con grande sforzo d'esercizi) ed è proprio questa cesura senza eco che costituisce ad un tempo la verità dello zen e la forma, breve e vuota, dello haiku.
Il rifiuto dello «sviluppo» è qui decisivo, perché non si tratta d'arrestare il linguaggio su un silenzio carico, pieno, profondo, mistico, oppure su un vuoto dell'anima che si disporrebbe alla comunicazione divina (lo zen è senza Dio); ciò che viene enunciato non deve svilupparsi né nel discorso né nell'assenza del discorso; ciò che è enunciato è opaco e tutto ciò che si può fare è ripeterlo; è ciò che si raccomanda all'apprendista che elabora un koan (cioè un aneddoto che gli viene proposto dal maestro): non di risolverlo, come se avesse un senso, e nemmeno di afferrare la sua assurdità (che sarebbe ancora un senso), ma di rimasticarlo, «sino a che casca il dente». Tutto il pensiero zen, di cui lo haikuai non è che l'aspetto letterario, appare cosi come una immensa pratica votata a sospendere il linguaggio, a rompere questa sorta di radiofonia interiore che risuona continuamente in noi, sin dentro il nostro sonno (forse è proprio per questo che s'impedisce agli apprendisti di addormentarsi), una pratica votata insomma a svuotare, a sconcertare, a prosciugare il chiacchiericcio irrefrenabile dell'anima: e può darsi che ciò che, nello zen, si chiama il satori e che gli occidentali non possono tradurre che con termini vagamente cristiani {illuminazione, rivelazione, intuizione) non sia altro che una sospensione panica di linguaggio, il bianco che cancella in noi il regno dei Codici, la rottura di questa recita interiore che costituisce la nostra persona; ora, se questo stato dì a-linguaggio è una liberazione, forse è proprio perché, per l'esperienza buddista, la proliferazione del pensiero alla seconda (il pensiero del pensiero) o, se si preferisce, il supplemento infinito degli innumerevoli significati — cerchio di cui è depositario e modello il linguaggio stesso - tutto ciò è ritenuto un vincolo; mentre invece, è l'abolizione del pensiero alla seconda che rompe l'infinito vizioso del linguaggio. In tutte queste esperienze, cosi sembra, non si tratta di annientare il linguaggio sotto il silenzio mistico dell’'ineffabile, ma di misurarlo, d'arrestare la trottola verbale che coinvolge nel suo moto rotatorio il gioco ossessivo delle sostituzioni simboliche. Insomma, è il simbolo come operazione semantica che viene combattuto.
Nello haiku la parsimonia di linguaggio è oggetto d'una cura che a noi pare inconcepibile, perché non si tratta tanto di essere concisi (cioè di restringere il significante senza diminuire l'intensità del significato), quanto, al contrario, di agire sulle radici stesse del senso, per ottenere che questo senso non si diffonda, non si interiorizzi, non si faccia implicito, non si liberi, non vaghi nell'infinito della metafora, nella sfera del simbolo. La brevità dello haiku non è formale: lo haiku non è un pensiero ricco ridotto ad una forma breve, ma un evento breve che trova tutt'a un tratto la sua forma esatta. La parsimonia di linguaggio è ciò in cui l'occidentale si rivela meno abile: non è tanto ch'esso produca testi troppo lunghi о troppo brevi, ma tutta la sua retorica gl'impone il dovere di rendere sproporzionato il significato e il significante, sia «diluendo» il secondo sotto i flutti loquaci del primo, sia «approfondendo» la forma verso le regioni implicite dei contenuto. L'esattezza dello haiku (che non è per nulla esatta pittura del reale, ma adeguamento del significante e del significato, soppressione dei bordi, delle sbavature e...degli interstizi che d'abitudine eccedono e frastagliano il rapporto semantico), questa esattezza ha evidentemente qualcosa di musicale (musica di significati, non necessariamente di suoni): lo haiku ha la purezza, la sfericità e il vuoto stesso d'una nota musicale. Forse è per questo che si ripete due volte, come un'eco: non dire che una volta sola questa parola squisita, significherebbe attribuire un senso alla sorpresa, allo spunto, alla repentinità della perfezione; ripeterla più volte, sarebbe suggerire che il senso deve essere svelato, cioè simulare la profondità; tra le due possibilità, né singolare né profondo, l'eco non fa che porre un rigo sotto la nullità del senso.
 
 
 
L'incidente
 
L'arte occidentale trasforma l'«impressione» in descrizione. Lo haiku non descrive mai: la sua arte è anti-descrittiva, nella misura in cui ogni stadio della cosa è immediatamente, caparbiamente, vittoriosamente trasformato in una fragile essenza d'apparizione: istante letteralmente « intrattenibile», in cui. la cosa, pur non essendo già altro che linguaggio, diventa parola, passa da un linguaggio ad un altro, e si costituisce come il ricordo di questo futuro, per ciò stesso anteriore. Perché, nello haiku, non è soltanto l'evento propriamente detto che prevale
 
Vidi la prima neve
E dimenticai quel mattino
Di lavare il mio viso
 
ma anche ciò che a noi sembrerebbe aver vocazione di scena dipinta, di quadretto, come molti ne esistono nella pittura giapponese, per esempio questo haiku di Shiki:
 
 
Con un toro a bordo
Una piccola imbarcazione attraversa il fiume
Sotto la pioggia della sera
 
 
diventa o meglio non è che una sorta di rilievo assoluto (cosi come si recepiscono tutte le cose, futili o meno, nel pensiero zen), una piega leggera con cui viene pinzata, con un gesto veloce, la pagina della vita, la seta del linguaggio. La descrizione, genere occidentale, ha il suo corrispettivo spirituale nella contemplazione, inventario metodico di forme di attribuzione della divinità o di episodi del racconto evangelico (in Ignazio di Loyola, l'esercizio della contemplazione è essenzialmente descrittivo); lo haiku, al contrario, è articolato su una metafisica che non ha né soggetto né Dio, analogo al Mu buddista, al satorì zen, che non s'identifica assolutamente con la discesa illuminatrice di Dio, ma piuttosto con il «risveglio di fronte all'evento», scelta della cosa come accadimento e non come sostanza, attacco a quel bordo anteriore del linguaggio che è contiguo all'opacità (del resto tutta retrospettiva, ricostruita) dell'avventura (che accade al linguaggio più ancora che non al soggetto).
La quantità, la dispersione di. haiku da un lato, la brevità, la concisione di ciascuno d'essi dall'altro, sembrano dividere, classificare all'infinito il mondo, costituire uno spazio di puri frammenti, una polvere di eventi, che nulla - per una sorta di mancanza di eredi della significazione — può né deve coagulare, comporre, dirigere, concludere. Ciò dipende dal fatto che il tempo dello haiku è senza soggetto: la lettura non ha altro io che la totalità degli altri haiku di cui quest’io, per infinite rifrazioni, non è mai altro che il luogo di lettura: secondo un'immagine proposta dalla dottrina Hua-Yen, si potrebbe dire che il corpo collettivo degli haiku è un reticolo di gemme, nel quale ciascuna gemma rispecchia tutte le altre e cosi via, all'infinito, senza che mai si possa afferrare un centro, un nucleo primario d'irradiazione (per noi l'immagine più esatta di questo rimbalzare senza impulso motore e senza arresto, questo gioco di lampi senza origine, potrebbe essere quella del dizionario, in cui una parola non si può definire che a partire da un'altra parola). In Occidente lo specchio è un oggetto per essenza narcisistico: l'uomo non concepisce lo specchio per guardarvicisi. Ma in Oriente, o per lo meno cosi sembra, lo specchio è vuoto: è il simbolo del vuoto stesso dei simboli («Lo spirito dell'uomo perfetto — dice un maestro del Tao — è come uno specchio. Non afferra nulla ma non rigetta nemmeno nulla. Riceve ma non conserva»). Lo specchio, dunque, non intercetta che altri specchi, e questa riflessione infinita è il vuoto stesso (che, lo si sa, è la forma). Così lo haiku ci fa rimemorare ciò che non ci è mai capitato; in esso noi riconosciamo una ripetizione senza origine, un evento senza causa, una memoria senza persona, una parola senza ormeggi.
Ciò che sto dicendo dello haiku, potrei dirlo benissimo anche di tutto ciò che accade mentre si viaggia in questo paese che si chiama qui il Giappone. Laggiù, infatti, nella strada, in un bar, in un negozio, in un treno, avviene sempre qualcosa. Questo qualcosa - che è, etimologicamente, un'avventura - è di ordine infinitesimale: può trattarsi di un'incongruenza d'abbigliamento, di un anacronismo di cultura, di una libertà di comportamento, di un'eccentricità di itinerario, eccetera. Inventariare questi accadimenti sarebbe un'impresa sisifea, perché non risplendono che nel momento in cui li si legge, nella scrittura vivente della strada e il turista occidentale non potrebbe spontaneamente riferirli che caricandoli del senso stesso della propria distanza: bisognerebbe appunto farne degli haiku, linguaggio che ci è negato. Ciò che si può aggiungere è che queste infime avventure (la cui accumulazione, durante tutta una giornata, provoca come una sorta di ebbrezza erotica) non hanno mai nulla di pittoresco (il pittoresco giapponese ci è indifferente, perché è distaccato da ciò che costituisce la specialità stessa del Giappone, cioè la sua modernità) né di romanzesco (non prestandosi in nulla alla chiacchiera, che ne farebbe dei racconti e delle descrizioni). Ciò che queste avventure offrono alla lettura (laggiù io non sono un visitatore, ma un lettore) è la fermezza della traccia, senza sbavature, senza margini, senza vibrazioni; tutti questi comportamenti (dal vestire al sorridere) che, presso di noi, a causa dell'inveterato narcisismo dell'occidentale non sono altro che i segni di una sicurezza tronfia, si trasformano, tra i giapponesi, nelle semplici maniere di trasmettere, di tracciare qualcosa di imprevisto nella strada: poiché la certezza e l'indipendenza del gesto non rimandano più in questo caso ad un'affermazione dell'io (a una «sufficienza») ma soltanto ad un modo grafico di esistere; di modo che lo spettacolo della strada giapponese (o più genericamente dei luoghi pubblici), stimolante come il prodotto di un'estetica secolare, in cui ogni volgarità è come decantata, non dipende mai da una teatralità (un'isteria) del corpo, ma, una volta di più, da questa scrittura alla prima, in cui l'abbozzo o il rimpianto, il tentativo e la correzione sono egualmente impossibili, perché il tratto, liberato dall'immagine presuntuosa che colui che scrive vorrebbe dare di sé, non esprime, ma, semplicemente, fa esistere. «Quando tu cammini, - sostiene un maestro zen, - accontentati di camminare; quando sei seduto, accontentati di star seduto. Ma soprattutto non esitare!»: ecco che cosa sembrano suggerirmi, a modo loro, il ragazzo in bicicletta che porta al culmine del suo braccio levato un vassoio di scodelle, oppure la giovane fanciulla che s'inchina con un gesto così profondo, cosi rituale da perdere ogni servilismo di fronte ai clienti d'un grande magazzino partiti all'assalto di una scala mobile, oppure il giocatore di pachinko che introduce, sospinge e riprende la sua pallina, con tre gesti la cui coordinazione stessa si traduce in un disegno, oppure il dandy che al caffè fa saltare, con un colpo rituale (secco e virile) l'involucro in plastica del suo tovagliolo caldo con cui si asciugherà le mani prima di bere la sua coca-cola: tutti questi «incidenti» sono la materia stessa dello haiku.
 
 
Tale
 
Il lavorio dello haiku consiste nel fatto che l'esenzione del senso si compie attraverso un discorso perfettamente leggibile (contraddizione negata all'arte occidentale, che non sa contestare il senso che rendendo incomprensibile il proprio discorso), di modo che lo haiku non si rivela ai nostri occhi né eccentrico né famigliare: assomiglia a tutto e a nulla. Leggibile, lo riteniamo semplice, prossimo, conosciuto, gustoso, delicato, «poetico», in una parola offerto a tutto un gioco di aggettivi rassicuranti; insignificante, però, esso ci resiste, sfugge alla fin fine gli aggettivi che un momento prima gli avevamo attribuito ed entra in quella sospensione di senso che ci risulta cosa inattesa, perché rende impossibile l'esercizio più corrente della nostra parola, che è il commento. Che cosa dire di questo haiku?
 
Brezza primaverile
II battelliere mastica
la sua pipa;
 
oppure di questo:
 
Luna piena
E sulle stuoie
L'ombra di un pino;
 
o ancora:
 
Nella casa del pescatore
L'odore del pesce secco
E il calore;
 
o ancora (e non infine, perché gli esempi potrebbero essere innumerevoli):
 
Soffia il vento d'inverno
Mandano lampi
Gli occhi dei gatti.
 
Tali tratti (questo termine si confa allo haiku, sorta di leggera cicatrice tracciata nel tempo) instaurano ciò che si è potuto chiamare «la visione senza commento». Questa visione (il termine è ancora troppo occidentale) è alla fine intieramente restrittiva; ciò che è abolito non è il senso, ma qualsiasi idea di finalità: lo haiku non serve a nessuno degli «usi» (essi stessi pur tuttavia gratuiti) concessi alla letteratura: insignificante (a causa di una tecnica di arresto del senso) come potrebbe istruire, esprimere, distrarre? Allo stesso modo, mentre certe scuole di zen concepiscono la meditazione seduta come una pratica destinata al conseguimento della buddità, altre rifiutano persino questa finalità (pure apparentemente essenziale): è necessario stare seduti «soltanto per stare seduti». Non è del resto lo haiku (come gli altri innumerevoli gesti grafici che segnano la vita giapponese più moderna, più sociale), non è scritto «soltanto per scrivere»?
 
Ciò che sparisce nello haiku, sono le due funzioni fondamentali della nostra scrittura classica (millenaria): da una parte la descrizione (la pipetta del battelliere, l'ombra del pino, l'odore del pesce, il vento d'inverno, non sono descritti, cioè ornati di significati, di ammaestramenti, impegnati a titolo d'indizi nello svelamento di una verità o di un sentimento: il senso è negato al reale; meglio ancora: il reale non dispone più del senso stesso del reale); d'altro lato sparisce la definizione. Non soltanto la definizione si trasferisce al gesto, sìa pure grafico, ma ancor di più essa è lasciata andare alla deriva verso una sorta dì efflorescenza inessenziale, eccentrica dell'oggetto, come suggerisce bene un aneddoto zen, in cui si vede il maestro conferire il premio di definizione (che cos'è un ventaglio) non tanto all'illustrazione muta, puramente gestuale, della funzione (spiegare il ventaglio) ma all'invenzione di una catena di azioni aberranti (richiudere il ventaglio, grattarsi il collo, riaprirlo, posarci sopra un dolce e offrirlo al maestro). Non descrivendolo né definendolo, lo haiku (potrei ormai chiamare in questo modo ogni tratto discontinuo, ogni accadimento della vita giapponese, cosi come mi si offre alla lettura) si assottiglia sino alla pura e semplice enunciazione. È questo, è così — dice lo haiku — è tale. O meglio ancora: tale!, dice, con un tocco cosi istantaneo e così breve (senza oscillazioni né riprese) che perfino la copula ci pare di troppo, come il rimorso di una definizione proibita, per sempre allontanata. Il senso non è che un flash, un graffio di luce: « When the light of sense goes out, but with a flash that has revealed thè invisible world», scriveva Shakespeare, ma il flash dello haiku non rischiara, non rivela nulla; è come quello di una fotografia che si scatta con molta cura (appunto alla giapponese) ma avendo omesso di caricare l'apparecchio con l'apposita pellicola. O ancora: lo haiku (il tratto) riproduce il gesto indicatore del bambino piccolo che mostra col dito qualsiasi cosa (lo haiku non fa questione di distinzione di soggetto) dicendo soltanto: quello! con un movimento cosi immediato (cioè cosi privo di ogni mediazione: quella del sapere, del nome o anche del possesso), che ciò che viene indicato rappresenta l'inutilità stessa di ogni classificazione dell'oggetto: nulla di speciale, afferma lo haiku conformemente allo spirito zen: l'evento non è classificabile secondo alcuna specie, la sua eccezionalità non approda a nulla; come un ricciolo grazioso, lo haiku s'arrotola su se stesso; la scia del segno che sembra sia stata tracciata, si cancella: nulla è stato acquisito, la pietra della parola è stata gettata inutilmente: non ci sono né onde né colate di senso.
 
 
 
di Roland Barthes sull’haiku nel suo libro “L’impero dei segni”, dedicato alla cultura giapponese.
 

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a cura di Ezio Falcomer

♦Compagnia di teatro sul web Accademia dei Sensi♦

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