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Per Giada

La tua mano a forma
di piccola stella
 verso la mia,
in cerca di calore.
Ho tante cose da raccontarti,
anche se vivo solo
da tredici primavere.
Apri gli occhi curiosi ed increduli
di tutti questi volti,
di tutti questi colori.
Sorridi, senza i dentini,
disarmata
ma troppo piccola per essere ferita.
Stringiti forte alla mia mano,
con questo contatto
ti voglio trasmettere
e regalare un po' del mio amore
per questa vita.
Sei il futuro, sei quello che verrà,
ma non un illusione.
Non hai amari ne gioiosi ricordi,
potrai costruire il tuo oggi
senza malinconia,
sognare il domani senza rimpianti.
Ora che ti ho presa in braccio
e ti sei addormentata,
respiro il tuo profumo,
m'immergo nell'infanzia che il tempo m'ha rubato,
ma senza solitudine. Non sono sola.
Pacata e serena, ti accomodo nella culla,
un'ultima occhiata ai tuoi occhi chiusi,
e socchiudo la porta che hai aperto nel cuore.
Fai sogni d'oro,
E ama, piccola dolce Giada, ama più che puoi.
 
Caterina Manfrini

A volte, spesso, sempre.

A volte ho cercato di recidere
quel filo sottile che separa la ragione dalla follia.
A volte racchiusi i pugni contro il petto
ho giocato a fare il matto.
A volte ci sono riuscito, c’è chi mi ha creduto.
A volte l’ho anche riconosciuto
nascosto nel cono d’ombra di una falce di luna.
A volte ho giocato con lui a rimpiattino
accasciandomi a terra piegato in due dalle risate.
Spesso mi sono riso addosso.
Sempre ho pagato l’istrione di turno.
 
 

versi per_versi

accodandosi in processione
le sofferenze intagliano
la maschera scura dolente
specchio di quella profonda
che s'asconde nei visceri
tanto più è ferita l'anima o il cuore.
allora il verso prende suono
di lamento fino alla moroloja
pietosa e anche liberatoria
accompagnando il pianto
timido intimo quanto dolce e
insicuro annaspa tra sogno e realtà
incerto se salvare o lasciare annegare
la speranza di un qualsiasi domani.
 
 

C.3.3. C.6.6.

Vide i visi di chi gli fece visita
in carcere, ma degli altri seppe solo
vaga traccia, lo sconforto del racconto
indiretto, se non addirittura un nulla di fatto.
Ad ogni buon conto, chi c'è c'è
e chi non c'è non c'è.
Similmente, uno dovrebbe davvero avere
un cuore di pietra per apprendere
del fatto della Nella senza piangere.
Ridere di sé, piangere per gli altri, questo
importa, ma io personalmente
sono un Principe Spruzzino:
imparto un'onda verso il prossimo
e poi me la riprendo in faccia,
tipo fiotto di seme o bere
un fluido (acqua diaccia
o latte) direttamente dalla bocca
di chi mi bacia. Sono un radar.
La fiducia insomma in me va
riposta usando un simbolo, metà
di un oggetto che combacia.
Il resto è irraggiungibile, persino
con un codice amico. Poi mi dico, un fatto
che colpisce o che annienta chi ama chi amiamo,
come lo comunichiamo?
 
[04042010]

Chiamata per il morto, poi risorto

Suona il campanello lo sconosciuto e arriva
nel mezzo della comitiva
di parenti in lutto ancora
storditi della disgrazia che ha distrutto
tutto. Li martella col metallo
sulla gomma infrangibile dello spirito
(che è tremendo nella sua incapacità
di stramazzare) il rimpianto

gioco di_versi ...

suggestioni dell'anima
eruttano tal getti di geyser
illuminano come giochi pirici
gioco di perle in fontane urbane
oppure occhi su slarghi virtuali di mondi
e cose aliene che spalancano
visioni di un altrove ideogramma
di possibile paradiso
lì appena tre pensieri lontano.
Corrono così emozioni
percezioni e sensazioni
che il piacere dei sensi
vuole dire comunicare
condividere e godere
aprendo la caccia al modo
nell'armamentario della vita
a spigolare parole rivestirle
di senso nuovo o diverso
architettarle nel canto
liberarle al vento.

Erano, questi, i miei giorni d'Africa

Erano, questi, i miei giorni d’Africa, la mia consolazione.
Con la vista andavo ai fiocchi di cotone in divenire nel turchese, sballottolati da un vento alto che non scendeva a terra se non per propagare fuochi enormi.
Sognavo poi le teste rasate dei miei fratelli di sangue riusciti a scampare, coloro che l’iniziazione aveva giunto in un vincolo più stretto ancora del parentale.
Ed infine vedevo la mia donna, raddrizzare il viso dall’orcio di creta dove continuava a sobbollire e raggrumare la manioca  come se le onde di quell’aria calda ascensionale fossero diventate insopportabili per lei e le impedissero di stare ancora ferma, lì in ginocchio.
I suoi occhi simili alla brace che covava nera e rossa tra i due sassi che la tenevano al riparo dal sollevarsi della sabbia in agguato pungevano la macchia gialla indicante, nel verde scuro delle foglie intoccate, il varco preferito dai cacciatori.
Dei miei figli, uno correva in tondo con altri tre, del più piccolo potevo a tratti vedere soltanto la curva del braccio, sorreggersi alla spalla e al collo della madre.
Ero stato sorpreso nel sonno, picchiato e incatenati a sangue i piedi sullo stesso giaciglio in cui dormivo accanto a loro, costretto, dopo la razzia, una volta legato con catene più lunghe ai polsi e alle caviglie dei miei compagni, a camminare giorni e notti attraverso la foresta, sui greti insidiosi, di fiumi che avrebbero potuto donarci una morte subitanea.
L’inizio di un lungo cammino senza difesa alcuna che ci avrebbe portati a vedere per la prima volta l’oceano, e la grande casa di legno che si muoveva..
A segnare il passo della lunga fila i cacciatori più potenti ed agili, a chiuderlo le vergini bambine.
I nostri carcerieri, più piccoli e sottili, con la pelle meno scura della nostra………….  

Una lezione affollata

Con un pò di ritardo vi racconto una lezione unitre di Rivoli, al Laboratorio di scrittura, vista da Maria Luisa Agnisetta Prodon :                                                          
 
19 marzo, Venerdì, S.Giuseppe, Festa del Papà.
 
Giornata serena, freddo pungente; si è ancora in pieno inverno. Il solstizio di Primavera, che avverrà tra due giorni, sembra molto lontano.
Nella piccola aula in cui si radunano i partecipanti del Laboratorio di scrittura nessuno ha avuto il coraggio di togliere i giacconi imbottiti e le grosse sciarpe annodate intorno al collo. Qualche signora mantiene anche il suo caldo copricapo. Dalla finestra si intravedono i mucchi di neve caduta recentemente ammassati ai lati della strada; i marciapiedi celano delle insidiose lastre di ghiaccio che terrorizzano i pedoni, specialmente gli anziani. Ho sentito dire in qualche negozio che il Pronto Soccorso dell’Ospedale non sa più dove ospitare le vittime di innumerevoli rovinose cadute, causate dal ghiaccio che non si scioglie e che non sempre si riesce a notare. La mamma di un mio ex-allievo mi raccomanda, scusandosi, di stare in casa e di non avventurarmi per le strade gelate. Mi chiede se non mi sono offesa; capisce che implicitamente mi ha, con ragione, aggregata al folto esercito dei vecchi che procedono incerti per le strade di questo spietato, lungo, crudele inverno.
La rassicuro, perché so benissimo che la sua premura è dettata dall’affetto, e so anche benissimo che sono vecchia. Sono stata per un attimo incerta se scrivere addirittura molto vecchia. Ho 84 anni, quando ero giovane io, chi raggiungeva questa “venerabile” età era considerato quasi un dinosauro sopravvissuto all’era glaciale; se partecipo a qualsiasi riunione sono sempre la più vecchia; l’anno scorso ho seguito un corso di computer e la giornalista di Luna Nuova che venne ad intervistarci mi indicò sul suo giornale con l’appellativo di “nonna cibernetica,”sembrava strano che alla mia età mi cimentassi in una simile impresa.
Ma ho deciso di non scrivere molto vecchia, perché non mi sento tale, anche se l’involucro, la carrozzeria e il funzionamento nel complesso lasciano piuttosto a desiderare. Desidero precisare che all’omissione di quel molto ha contribuito parecchio e continua a contribuire il nostro corso di scrittura, il ritrovarsi tra amici, il conoscere persone nuove, tutte gentili, che mi fanno sentire quasi della loro età, accettata e considerata quasi come una loro coetanea. Il cielo li benedica tutti.
 
Ma torniamo alla lezione del 19 marzo. Avevo deciso di parteciparvi nonostante la difficoltà oggettiva causata dall’inclemenza del clima. Quando entrai nell’aula fui salutata da esclamazioni e saluti gioiosi che non mi aspettavo, sembravano contenti di vedermi, Renato mi venne persino incontro e mi stampò un bacione sulla guancia, e tutti mi fecero festa. Forse avevano pensato che non osassi sfidare il freddo, la paura delle malattie, le strade sdrucciolevoli. E’ normale che lo credessero, per una vecchietta come me. Ma io temevo di più il pensiero di non stare in mezzo a loro,che mi danno tanto,e che, penso, mi abbiano adottata come una nonna che può ancora offrire qualcosa delle sue antiche capacità.
 
La lezione – se così si può chiamare il pacato, piacevole procedere dei nostri discorsi – iniziò con la lettura dei lavori degli studenti. Non eravamo in molti, quel giorno. Rinaldo come sempre prestò la sua voce a chi non si sentiva di leggere personalmente  il proprio lavoro, ( anch’io tra questi). Qualcuno invece preferì leggere da sè. Ascoltavo attentamente, contenta di constatare l’armonia dello stile, la scelta dei vocaboli, la vivacità delle idee, e nello stesso tempo la naturalezza e la semplicità dell’esposizione.
 Forse queste frasi saranno lette in classe, e desidero quindi far notare ai miei amici che con questi apprezzamenti non voglio atteggiarmi a giudice delle loro capacità, ma che li invito a considerare il fatto che ho insegnato per circa 50 anni e che quindi, per deformazione professionale, non posso fare a meno di valutare quello a cui presto attenzione. Una valutazione in questo caso eccellente.
 
Sembrava che i miei amici si fossero messi d’accordo.
 Era la Festa del Papà
 Molti parlarono del loro padre. Sempre con affetto, con tristezza, con commozione. Li guardavo, commossa anch’io, li ascoltavo, partecipando alle loro emozioni.
Alcuni, benché con i capelli grigi, si rappresentavano come piccoli bimbi sulle ginocchia di un padre grande, forte, come loro lo sentivano, che li abbracciava e li proteggeva. Altri lo ricordavano quando, giovanetti, li guidava con autorità e con una severità che ora benedivano. Poco a poco, nella mia immaginazione, la piccola aula del nostro Laboratorio si riempì dei tanti Papà ricordati, molti già scomparsi, altri ancora viventi, e tutti stavano alle spalle dei loro figli e delle loro figlie e tenevano le mani sulle loro spalle, li proteggevano, li consigliavano, li aiutavano con i mezzi che avevano a disposizione, materiali e non, ed erano contenti di essere ricordati con tanto affetto, di essere presentati agli amici del Laboratorio con tanta tenerezza e tanto rimpianto, e questi loro figli forse parlavano delle loro intime emozioni per la prima volta nella loro vita.
E così io vedevo la piccola aula piena di persone amate, che non scompariranno mai dai nostri cuori e che sempre sapranno consigliarci e guidarci nella nostra vita come hanno sempre fatto con le loro parole e con il loro esempio.
 
Dimmi, cara Maria – la nostra docente – li hai visti anche tu, come li ho visti io? Credo di si, perché anche tu eri commossa ed avevi gli occhi lucenti di lacrime trattenute
 
                                                                                              Maria Luisa Agnisetta Prodon
 
 

La transumanza della neve.

Nascono i ruscelli oggi
nascono nelle loro case di ghiaia
nascono le sponde sole ma in pari
nasce un criterio verso il mare.
 
Come d’amore stiamo
nell’alveo alle rive
d’ansia e di clamore.

Il principe Valiant

Ti ricordi il principe Valiant?
Aveva occhi come perle nere
i capelli come ali di corvo
e lunghe mani eburnee e gentili,
il vichingo, figlio del re di Thule,
insuperato sogno di principe
in strisce technicolor
che ci contendevamo a spinte
 
E siamo ancora lì
alle nostre principesche illusioni
con l'emozione che stringe la gola
- forte -
e trasforma il respiro in ansito
 
 

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