Scritto da © Maurice Ravel - Mer, 13/07/2011 - 00:55
Quand’ero piccola sognavo di essere la principessa Sissi. Oggi non potrei aspirare ad altro che a essere la principessa di tanti viscidi e schifosi vermi, che passeggiano nella merda. Merda, signori,sì. Potrei cercare un bel sinonimo per evitare che voi arricciate il naso, ma questo sarebbe richiedermi troppo.
Quando non si è amati, è difficile amarsi. Perciò ho sempre gradito infliggermi del male gratuito. Dolore a sbafo. Se guardaste le mie braccia, ne rimarreste terrorizzati. Infinite cicatrici. Cicatrici che indicano tante, mille sofferenze. La prima me la inflissi con un mozzicone di sigaretta. Ero sola in stazione quel giorno. D’altronde era estate. Tutta la gente era al mare a divertirsi. Quel giorno volevo capire cosa fosse il dolore fisico. Auto infliggersi volontariamente quel dolore. Allora finì di tirare l’ultima boccata di cancro allo stato puro, mi feci coraggio, girai il polso sinistro e spensi la mia sigaretta proprio lì. A sinistra delle mie vene bluastre. Sentii l’odore della carne bruciata. Della mia carne. Avvertì la mia disperazione innanzi a un gesto apparentemente folle. Il ricordo di quel giorno. Sulla mia pelle. Per sempre.
Le altre cicatrici imparai a infliggermele con il tempo. A volte mi graffiavo con le unghie il viso, a detta di alcuni, molto bello. Il mio era, ed è un male interiore. Nessuno potrebbe capire, all’infuori di me stessa.
Tutte le volte che litigavo con mia madre e lei mi urlava contro di esser uguale a mio padre, sarei voluta morire. Scappare. Cambiare identità e città. Girare il mondo e perdermi per strade sconosciute. Vivere come una barbona sotto i ponti, magari.
Dopo un po’ di tempo cominciai a bere. Non c’era sera che io non fossi ubriaca. E ubriaca di cosa? D’infelicità, signori. Barcollavo. Ma continuavo a bere. Non mi avrebbe ucciso l’alcool, pensavo. Guardavo il mondo con occhi diversi. Con gli occhi di un’ubriaca. E in quella prospettiva, tutto mi sembrava migliore. Forse mi sentivo anch’io una persona migliore. Chissà.
Camminavo per strada con la consapevolezza di esser diversa. Vivevo sapendo che tutti fossero diversi da me. Ma io vivevo? La mia era vita? In realtà, fingevo di esser viva. Respiravo. Ma se avessi potuto, avrei anche deciso non farlo. Mangiavo. E per un certo periodo mi rifiutai di farlo, volevo morire.
Sapevo di non esser stata amata da colui, che avrebbe dovuto amarmi. E coloro che mi amavano, lo facevano in un modo che non concepivo. Dicevano di amarmi. Ma nel concreto non era così. Mia madre mi odiava. Perché ero uguale all’uomo che lei amò prima di tutti. E ogni occasione era buona per ribadirmi che fossi uguale a lui. Amava scagliare la sua rabbia verso di me. Eppure ero solo una ragazza. Ero solo una bambina. Ed ero incompresa.
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