Scritto da © Manuela Verbasi - Mer, 28/09/2011 - 11:49
I tulipani
I tulipani sono troppo eccitabili, è inverno qui,
guarda quanto ogni cosa sia bianca, quieta e innevata.
Imparo la pace, mentre si posa quieta a me vicina
come la luce su questi muri bianchi, questo letto, queste mani.
Non sono nessuno; niente a che fare con le esplosioni.
Ho dato il mio nome e i vestiti alle infermiere
la mia storia all'anestesista e il mio corpo ai chirurghi.
Hanno appoggiato la mia testa tra cuscino e bordo del lenzuolo
come un occhio fra palpebre bianche che non si chiuderanno.
Stupida pupilla, di tutto deve fare incetta.
Le infermiere passano e ripassano, non disturbano,
passano come i gabbiani verso terra nelle loro cuffie bianche,
facendo cose con le mani, uguali l'una all'altra,
così che è impossibile dire quante siano.
Il mio corpo è un sasso per loro, vi si apprestano come l'acqua
ai sassi sui quali deve scorrere, levigandoli garbata.
Mi danno il torpore con i loro aghi luccicanti, mi danno il sonno.
Adesso ho perduto me stessa sono stanca di bagagli -
la mia borsa di pelle come un nero portapillole,
mio marito e il bambino sorridono nella foto di famiglia;
i loro sorrisi mi agganciano la pelle, piccoli ami sorridenti.
Ho gettato cose in mare, io cargo di trent'anni
tenacemente attaccata al mio nome e indirizzo.
Hanno strofinato via tutti i miei affetti.
Impaurita e denudata sulla plastica verde della barella
ho guardato la mia teiera, il comò della biancheria, i miei libri
affondare lontani, e l'acqua arrivarmi sopra la testa.
Sono una suora adesso, mai stata così pura.
Non volevo fiori, volevo soltanto
sdraiarmi a palme in su completamente vuota.
Come si sia liberi, non avete idea quanto liberi -
la pace è così grande che abbaglia,
non chiede nulla, un'etichetta col nome, qualche bazzecola.
Con questa, alla fine, chiudono i morti; li immagino
masticarsela come un'ostia da Comunione.
I tulipani sono troppo rossi in primo luogo, mi feriscono.
Anche attraverso la carta da regalo li sentivo respirare
piano, attraverso la bianca fasciatura, come un bimbo mostruoso.
Rossastri parlano alla mia ferita, le rispondono.
Sono traditori: sembrano ondeggiare, anche se mi tirano giù,
scompigliandomi con le loro lingue inattese e il colore,
una dozzina di rossi piombi intorno al mio collo.
Prima nessuno mi sorvegliava, adesso sono sorvegliata.
I tulipani si voltano verso di me, e la finestra dietro
dove quotidianamente la luce si allarga e si assottiglia,
io mi vedo, piatta, ridicola, ombra di carta ritagliata
fra l'occhio del sole e gli occhi dei tulipani,
non ho faccia, ho voluto cancellarmi.
I vividi tulipani consumano il mio ossigeno.
Prima che arrivassero l'aria era abbastanza calma,
pulsava, respiro dopo respiro, senza scompiglio.
Poi i tulipani l'hanno riempita di un gran rumore.
Ora l'aria spinge e gli vortica attorno come un fiume
spinge e vortica attorno a una macchina rosso-ruggine affondata.
Concentrano la mia attenzione, che era felice
giocando e riposando senza impegnarsi.
Anche i muri sembrano riscaldarsi tra loro.
I tulipani dovrebbero stare dietro le sbarre come bestie pericolose;
si aprono come la bocca di un grosso felino africano,
ed io mi accorgo del mio cuore: apre e chiude
la sua ampolla di rossi boccioli per vero amor mio.
L'acqua che assaggio è calda e salata come il mare,
e viene da un paese lontano come la salute.
Tulips
The tulips are too excitable, it is winter here.
Look how white everything is, how quiet, how snowed-in
I am learning peacefulness, lying by myself quietly
As the light lies on these white walls, this bed, these hands.
I am nobody; I have nothing to do with explosions.
I have given my name and my day-clothes up to the nurses
And my history to the anaesthetist and my body to surgeons.
They have propped my head between the pillow and the sheet-cuff
Like an eye between two white lids that will not shut.
Stupid pupil, it has to take everything in.
The nurses pass and pass, they are no trouble,
They pass the way gulls pass inland in their white caps,
Doing things with their hands, one just the same as another,
So it is impossible to tell how many there are.
My body is a pebble to them, they tend it as water
Tends to the pebbles it must run over, smoothing them gently.
They bring me numbness in their bright needles, they bring me sleep.
Now I have lost myself I am sick of baggage ----
My patent leather overnight case like a black pillbox,
My husband and child smiling out of the family photo;
Their smiles catch onto my skin, little smiling hooks.
I have let things slip, a thirty-year-old cargo boat
Stubbornly hanging on to my name and address.
They have swabbed me clear of my loving associations.
Scared and bare on the green plastic-pillowed trolley
I watched my teaset, my bureaus of linen, my books
Sink out of sight, and the water went over my head.
I am a nun now, I have never been so pure.
I didn't want any flowers, I only wanted
To lie with my hands turned up and be utterly empty.
How free it is, you have no idea how free ----
The peacefulness is so big it dazes you,
And it asks nothing, a name tag, a few trinkets.
It is what the dead close on, finally; I imagine them
Shutting their mouths on it, like a Communion tablet.
The tulips are too red in the first place, they hurt me.
Even through the gift paper I could hear them breathe
Lightly, through their white swaddlings, like an awful baby.
Their redness talks to my wound, it corresponds.
They are subtle: they seem to float, though they weigh me down,
Upsetting me with their sudden tongues and their colour,
A dozen red lead sinkers round my neck.
Nobody watched me before, now I am watched.
The tulips turn to me, and the window behind me
Where once a day the light slowly widens and slowly thins,
And I see myself, flat, ridiculous, a cut-paper shadow
Between the eye of the sun and the eyes of the tulips,
And I hve no face, I have wanted to efface myself.
The vivid tulips eat my oxygen.
Before they came the air was calm enough,
Coming and going, breath by breath, without any fuss.
Then the tulips filled it up like a loud noise.
Now the air snags and eddies round them the way a river
Snags and eddies round a sunken rust-red engine.
They concentrate my attention, that was happy
Playing and resting without committing itself.
The walls, also, seem to be warming themselves.
The tulips should be behind bars like dangerous animals;
They are opening like the mouth of some great African cat,
And I am aware of my heart: it opens and closes
Its bowl of red blooms out of sheer love of me.
The water I taste is warm and salt, like the sea,
And comes from a country far away as health.
Intorno alle quattro del mattino, “in quell’ora azzurra, immobile, silenziosa, quasi eterna che precede il canto del gallo, il grido del bambino, la musica tintinnante del lattaio che posa le bottiglie”, Sylvia Plath oggettiva in simboli le sue idee e suggestioni creando una cosmologia personale che verrà apprezzata soltanto dopo la sua morte e che la farà diventare la poetessa più importante e tormentata del secolo scorso: l’amore come un uncino, un gancio che afferra e tormenta la carne; un padre e un marito come fantasmi, ombre che legano, vincolano, incatenano; una madre come natura incurante e maligna o come bocca vorace che paralizza e inghiotte; l’io staccato da sé stesso che indossa la maschera dell’omicida, del vampiro che prosciuga il respiro; i manichini, le calve figure senza volto, che diventano le figurazioni della luna spettrale, ora bocca aperta in una O di dolore ora teschio col cappuccio d’osso; lo specchio e il lago come luoghi di riflessi che generano sdoppiamenti e moltiplicazioni ossessive; i fiori come simbolo di vitalità e femminilità feconda o come presenze abnormi, divoratrici, spossessatori della persona o raggelanti e funeree; le bende, la stoffa, il vento, le nuvole e l’aria come simboli di soffocazione, di imbavagliamento, di dissolvimento fisico, di incomunicabilità. Le immagini e le parole della Plath sono infilzate dal trattino lunghissimo—un arresto del respiro, una sosta sul vuoto prima di pronunciare l’indicibile, una “stasi nel buio”.
L’intera opera di Sylvia Plath riflette il profondo senso di disagio e di angoscia che distingue la letteratura americana del secondo dopoguerra. I rapporti interpersonali sono superficiali, i personaggi soli, schiacciati dalle istituzioni, oppressi dalla paura di non essere come la società vuole che siano e, comunque, vittime di un sistema che non consente a nessuno di scegliere liberamente. Non c’è tenerezza nei rapporti umani, neanche tra madre e figlia.
In un mondo dove cultura e politica restano, almeno ai livelli più elevati, appannaggio esclusivo degli uomini, la Plath cerca parole, immagini e miti femminili per far parlare alle donne una lingua che appartenga esclusivamente a loro. Le voci plathiane, con i ritmi e i suoni del corpo, evocano il momento del parto, la disperazione di un aborto, l’eccitazione del rapporto sessuale, l’orrore delle torture, lo stordimento dell’abbandono, la tenerezza della maternità. L’inquietudine, la paura e le incertezze delle donne si traducono in una continua e angosciante riflessione sulla propria capacità creativa, sulla fatica della scrittura femminile che si muove continuamente tra assenza e presenza.
Riferimenti pittorici convivono nell’immaginario della Plath, espressioni del dissidio esistenziale, del disagio universale: le figure surreali, le calve figure senza volto, i paesaggi irreali, gli oggetti trasformati in idoli e amuleti di Giorgio De Chirico e gli esseri straziati e mutilati, gli oggetti distorti e maciullati di Francis Bacon.
Il 26 febbraio Sylvia Plath fu ricoverata in ospedale per essere sottoposta ad appendicectomia e scrisse questa poesia il 18 marzo, ispirata all’esperienza ospedalierea. La compose a gran velocità come chi scrivesse una lettera urgente. Da allora in poi tutte le sue poesie furono scritte in questo modo e il tempo non fu esagerato quello che le restò da vivere.
L’11 febbraio 1963 Sylvia preparò fette di pane imburrato per i figli, li mandò a giocare dai vicini, poi rientrò in casa, sigillò porte e finestre con del nastro adesivo, aprì il gas, infilò la testa nel forno e si tolse la vita. Appuntato sulla carrozzina del figlio un biglietto: “ per favore chiamate il dottor Horder”. Fu sepolta a Heptonstall, nel cimitero che aveva descritto in “ November Graveyard”. La lapide sulla tomba reca incisa una frase di un testo buddista: “ Anche tra fiamme vilente si può piantare Il Loto d’oro”.
poesia di Sylvia Plath
traduzione di Paolo Gironi http://www.gironi.it/poesia/plath.php
recensione tratta da www.oblique.it/manifesto_plath.html e dal web
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