Scritto da © Rinaldo Ambrosia - Gio, 30/04/2015 - 10:53
Quante volte t’ho atteso vedendo la tua figura avvicinarsi leggiadra come in sogno. Erano attimi che sfilavano lenti lungo quell’estate aperta al silenzio del giorno. Quante volte, tra le pensiline e i binari, t’ho atteso alla stazione, tra quei marmi già radiografie del tempo e le persone in attesa dei loro cari. Correva via un gatto tra le ronde dei ferrovieri a fine turno, mentre il sole abbagliava i sassi.
Passeggiavo, in quelle mattine assolate sotto la volta delle pensiline, e le traversine dei binari erano le scale dei miei pensieri che fuggivano verso l’infinito.
Quante volte ti ho atteso in quegli anni dove la luce giocava a rimpiattino con l’ombra. Pensavo ai giorni a venire, tra il passeggiare sotto il verde dei viali e i tuoi sorrisi. Ma le parole si perdevano nella luce del giorno. Era una estate dove la città deserta assisteva muta ai nostri incontri. C’era tutta la monumentalità delle facciate delle chiese e dei palazzi riflessi nei nostri occhi. Allora, il silenzio faceva ombra su di noi, ogni gesto era superfluo. Bastavano gli sguardi. E una corrente sottile ci attraversava in quella dimensione soltanto nostra, più assordante del silenzio.
I nostri passi risuonavano sotto i portici deserti, attraversati da rari passanti che si muovevano arresi alla mollezza del giorno. E la stazione, come gigantesco orologio privo di sfere, era lì, in agguato, pronta a fagocitarti per riportarti alle tue latitudini. Ed io camminavo nuovamente sotto i portici in compagnia della mia ombra, in attesa del nostro prossimo incontro, lungo i binari della stazione.
E il giorno non finiva mai.
Passeggiavo, in quelle mattine assolate sotto la volta delle pensiline, e le traversine dei binari erano le scale dei miei pensieri che fuggivano verso l’infinito.
Quante volte ti ho atteso in quegli anni dove la luce giocava a rimpiattino con l’ombra. Pensavo ai giorni a venire, tra il passeggiare sotto il verde dei viali e i tuoi sorrisi. Ma le parole si perdevano nella luce del giorno. Era una estate dove la città deserta assisteva muta ai nostri incontri. C’era tutta la monumentalità delle facciate delle chiese e dei palazzi riflessi nei nostri occhi. Allora, il silenzio faceva ombra su di noi, ogni gesto era superfluo. Bastavano gli sguardi. E una corrente sottile ci attraversava in quella dimensione soltanto nostra, più assordante del silenzio.
I nostri passi risuonavano sotto i portici deserti, attraversati da rari passanti che si muovevano arresi alla mollezza del giorno. E la stazione, come gigantesco orologio privo di sfere, era lì, in agguato, pronta a fagocitarti per riportarti alle tue latitudini. Ed io camminavo nuovamente sotto i portici in compagnia della mia ombra, in attesa del nostro prossimo incontro, lungo i binari della stazione.
E il giorno non finiva mai.
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