Scritto da © Rinaldo Ambrosia - Lun, 10/08/2015 - 11:28
Era quella sensazione, come una voglia di fragola, che a volte si rinnovava. Un tuffo in un istante di serenità ovattata che apparteneva al lontano passato.
Una sensazione tipica dell’infanzia, priva di assilli e melanconie.
Un istante di sospensione. C’era tutta la leggerezza di quegli anni ancora da compiere, l’assenza delle esperienze che lentamente satureranno l’esistenza. Un software ancora da scrivere. Anche il corpo rispondeva a quella leggerezza, rannicchiato in posizione fetale sul quel divano che assorbiva il pomeriggio. Il pensiero sfumava, si abbandonava a quella pausa ad occhi aperti. Non occorreva definire che cosa era stato il percorso di una vita, la sua qualità. C’era, e ciò bastava per immergersi in quella sensazione di piena leggerezza. Ruotavano le immagini come in un caleidoscopio di giorni.
- Dai, passami la palla…
- Giochiamo a figurine?
- Facciamo una corsa in bicicletta?
Era una sensazione basata sul ricordo, priva dell’emozione. Scorreva, come i volti delle persone sedute in un tram che scorre davanti alla fermata, metafora del tempo.
E quel passeggero, quel ragazzo nello scorrere del tempo lentamente si faceva uomo.
Erano i passi che la vita imponeva necessariamente nel consumarsi delle esperienze e nella ripetizione dei giorni. Mancava l’ago della bussola, della finalità della vita, in quell’arrendersi ad una colorata e felice consunzione biologica degli anni, riempiendo la bisaccia dei giorni di interessi e azioni. Anche il camminare, nel percorrere i consueti spazi, rallentava il suo impeto sino ad acquietarsi. Restavano i sogni, alcuni uguali a quelli di ieri, altri deformati da un assurdo moto totale. Non c’era gesto nel giorno, né spazio della parola. Dissolta ogni abitudine, era un ripartire a riempire la lavagna di nuovi segni, tracciare nuovi percorsi nello stemperare delle ore. E lentamente la musica si acquietava, sino a che l’ultimo musicante, chiuso lo spartito, si allontanava con il suo strumento.
Il concerto dei giorni era terminato.
Una sensazione tipica dell’infanzia, priva di assilli e melanconie.
Un istante di sospensione. C’era tutta la leggerezza di quegli anni ancora da compiere, l’assenza delle esperienze che lentamente satureranno l’esistenza. Un software ancora da scrivere. Anche il corpo rispondeva a quella leggerezza, rannicchiato in posizione fetale sul quel divano che assorbiva il pomeriggio. Il pensiero sfumava, si abbandonava a quella pausa ad occhi aperti. Non occorreva definire che cosa era stato il percorso di una vita, la sua qualità. C’era, e ciò bastava per immergersi in quella sensazione di piena leggerezza. Ruotavano le immagini come in un caleidoscopio di giorni.
- Dai, passami la palla…
- Giochiamo a figurine?
- Facciamo una corsa in bicicletta?
Era una sensazione basata sul ricordo, priva dell’emozione. Scorreva, come i volti delle persone sedute in un tram che scorre davanti alla fermata, metafora del tempo.
E quel passeggero, quel ragazzo nello scorrere del tempo lentamente si faceva uomo.
Erano i passi che la vita imponeva necessariamente nel consumarsi delle esperienze e nella ripetizione dei giorni. Mancava l’ago della bussola, della finalità della vita, in quell’arrendersi ad una colorata e felice consunzione biologica degli anni, riempiendo la bisaccia dei giorni di interessi e azioni. Anche il camminare, nel percorrere i consueti spazi, rallentava il suo impeto sino ad acquietarsi. Restavano i sogni, alcuni uguali a quelli di ieri, altri deformati da un assurdo moto totale. Non c’era gesto nel giorno, né spazio della parola. Dissolta ogni abitudine, era un ripartire a riempire la lavagna di nuovi segni, tracciare nuovi percorsi nello stemperare delle ore. E lentamente la musica si acquietava, sino a che l’ultimo musicante, chiuso lo spartito, si allontanava con il suo strumento.
Il concerto dei giorni era terminato.
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