Scritto da © Marco valdo - Ven, 13/01/2017 - 20:34
I bargigli di zio Gino,
aggrovigliati ai miei e ai bavi stenno,
che le orbite sue le mie lambettero,
già che i centimetri di lingua languivano all'ugola,
dove le morse delle falangi in retroguardia assediate
il molle tutto astrettero,
di fronte nel mentre nel medio del ventre
il cavo voragine si fette,
per intrudimento di turibolo sconsacrato,
che dalle patte volea poco soggiornare
“L'ecchim'è chi mo sie, l'ecchim'è chi mo sie!”
paretti udire, nel tanto di stanca, sudandomi.
Zio Gino si fece viscoso, divaricandomi alle anche
anche i gambi miei tremettero vergogna;
al pari dell'uscio mio che minzionò a gocce,
mentre la servitude porta, il cucinato esalava.
Rosseggiava il volto, poi esanguato...
ed era il mio, che in risposta al dunque
non dimandette perché? ne percome...
ma per dove? l'orbita mia, sì, chiesse
e quale balocco regalato in festa
sol dopo vivaconda sorpresa
zio Gino ignarante mi tense, ma poco
che il balocco già riposto alle credenze
i pomelli miei vergò di salustri lacrime
che scettero
non per maraviglia.
D'allora fu che lo zio Gino, repente
rinnova lo invito a me...
perché ne venga anche il mio australe
di tornar a lo vistare, lo prima che ieri.
Ma rimando io al dì, che seggermi possa,
senza guanciali.
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