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L'uomo e il nulla

 
L’uomo ed il nulla
 
L’uomo dalle lunghe brache forse era stato così apostrofato a causa del  perenne aspetto trasandato. Robusto, di media età, lineamenti nella norma; non v’era molto da aggiungere del suo apparire. Non ha importanza chi fosse, nel modo canonico nel quale ci si identifica. Lui di certo se l’era chiesto da sempre, ma con  altro intendimento, non lo riguardava che si mostrasse alto o basso,  magro o grasso, se questo fosse rimasto un aspetto confinato nel tempo.
Non aveva valore neanche il fatto che di tanto in tanto si pettinava e che la natura lo avesse forgiato belloccio. Il non avere interesse per l’apparire assume in questo caso un significato relativo. Anch’egli a volte attribuiva valore per le cose terrene come le auto, le donne, e non si mostrava proprio sicuro della possibilità che quest’ultime carpissero il suo “Io” in modo telepatico.
Doveva pettinarsi ed a volte persino rasarsi;  che barba!
Ma cosa mai gli frullava per la mente! Chi cavolo si credeva d’essere quel bell’imbusto che non perdeva occasione per scontrarsi con chiunque provasse a “dire la sua” , con fare pacato, normale, comune.
“Non  valgo niente se non sono eterno” Questo slogan doveva appartenergli. Ma a pensarci bene l’aveva pure detto, ed aveva aggiunto tant’altro in varie occasioni.
Quella volta di tanti anni fa, al chiaror di luna, le sue esternazioni sembravano quasi possibili, di quel reale attribuibile alle favole, nell’interpretazione dei bambini.
Cosa mai abbia voluto significare “essere qualcosa o niente in funzione dell’eterno”? Sarebbe meglio rinchiuderlo! Ebbene si, perché vive ancora e circola tra noi. Poveri gli esseri insidiati dal male del suo dire; aggravatosi nel corso degli anni. Mantiene anche un atteggiamento benevolo, a volte accattivante. Si, proprio a volte, perché di solito verrebbe voglia d’ammazzarlo.
Ma come osa dubitare dell’esistenza di Dio o che questi sia buono ed eterno? È vero nessuno dei presenti seppe confutarlo quando proferì della sua  visione della vita; erano tesi oggettive e neanche dissociabili  da una veduta metafisica, nella quale pochi arditi osano infilare il proprio senno.
Ma pure nella difficoltà di esplorare il suo ego, e cosa ancora più ardua, accennarvi il senso su questo foglio, è bene provarci, se non altro per fornire una visione più eterogenea  del bene e del male.
 
Eccomi, sono Adamo. Sono stato effettivamente etichettato come “l’uomo dalle lunghe braghe” ma nessuno ha avuto il coraggio di dirmelo in faccia. Racconto  di un incontro particolare che mi ha turbato e modificato in alcune convinzioni esistenziali.
 
Sarà stata quella sera di maggio, mentre la  mente frugava tra le stelle, scorsi un foglietto che quasi indiscreto scivolò dalla giacca del vecchio. Non usai la cortesia di avvertirlo. Fui vinto dalla voglia di assaporarne il contenuto, che in modo istintivo ne percepivo l’odore.
Eccolo:
 
Ombre
 
 
Vorrei dire col senno
e non con scarni suoni
d’ombre che furono ivi siam or noi presenti.
Nella mente del buio della notte,
quando logica non appar giammai;
magici sprazzi d’infinite luci
vagheggiano ove pensier li scorge.
 
E fluttua, fluttua anch’esso come le ombre
D’erranti antenati microbi e uomini,
d’occhi gentili o tristi
di mangiati e mangiatori.
 
Qual senso v’era; dove or lor sono?
Ombre che s’intersecano e volan via;
ombre che si credevano presenti;
ombre che appaiano alla mente 
di questo errante viaggiatore
 
Che mai voleva significare “dire col senno e non  scarni suoni”, come se le parole non fossero sufficienti per spiegare qualcosa! Ma com’è possibile comunicare col senno; in quale modo gli altri percepirebbero se non ci servissimo di un codice?
È vero, sembra quasi che col piccone si voglia aggiustare un orologio da polso.
 Questa è l’impressione che si ha nell’interpretare  con il comune mezzo semantico frasi come:
“Nella mente del buio della notte,
quando logica non appar giammai;
magici sprazzi d’infinite luci
vagheggiano ove pensier li scorge”. O ci si limita a sorvolare, scappare via; al massimo liquidare l’autore come di un inetto, oppure immettersi anima e corpo in una sorta di fluido sensoriale e lasciarsi trasportare senza una meta.
Chi sono “i mangiati , chi i mangiatori” su questo posto dove l’infame mistero ci ha adagiato o sbattuto, e beffardo sembra seguirci, burlandosi di noi, della nostra ingenuità, ignoranza, impotenza.
È enorme il distacco tra un microbo ed un uomo alla luce del comune pensare, eppure egli, nella sua “concentrata semantica”, sembra attribuirne la stessa importanza, l’identica finalità,  il medesimo destino.
In quale modo mai la Trascendenza, potrebbe preoccuparsi d’un microbo, di un’anonima pianta vissuta chissà quando e dove. tuttavia, avendoci riflettuto, l’uomo è la stessa cosa e purtroppo per chi potrà soffrirne. Ma non per questo dovrà temere un destino più angusto, nefasto.
Lo stesso patetico sconforto traspare dagli occhi di un cane, di un bambino, di un malvagio a riposo quando, appena sentori della loro impotenza dinnanzi al mondo, s’adagiano alla clemenza della corte divina.
Ebbene si, fui molto turbato dalle frasi di quella, non saprei definirla, una poesia o qualcosa del genere. Doveva essere il mio interlocutore; ma per il momento non volevo scoprirmi. Bisognava che entrassi nel suo mondo in punta di piedi. Avevo la netta impressione che se non mi fossi adoperato in tale modo, sarebbe scappato, avrebbe travisato le sue idee.
 
Non l’avevo mai fatto, ma l’idea di trafugargli temporaneamente eventuali sue opere, scritti vari, mi entusiasmava e nel contempo mi turbava.
La strana sensazione che mi prendeva con un gozzo alla gola, era quella che può provare un cercatore d’oro, quando ormai stremato e deluso dei tanti anni d’infruttuosa ricerca del prezioso metallo, d’improvviso ne trova una pepita, ma non piccola, ma enorme.
Seppi della sua dimora e mi intrattenni  diversi giorni nei pressi di essa. Una villetta in campagna, niente di particolare. Lo vidi spesso gironzolare in giardino a svolgere i ruoli di giardiniere, muratore e cose simili. A dire il vero, questa cosa mi turbò non poco. Avevo creduto che una simile mente dovesse rimanere sempre a studiare, a meditare. Sembrava che perdesse del tempo prezioso dedicandosi a quelle attività di routine. Ma poi  ne fui certo, doveva esserci una logica anche in questo.
Comunque, rubargli qualcosa sembrava un giorno da ragazzi. Infatti, non chiudeva mai le porte di casa. Sembrava che esistessero solo per contenere le intemperie.
Un pomeriggio, vedendolo allontanare dirigendosi verso il vicino paese, decisi di fare una visita in quella casa così allettante per i miei desideri.
Mobili di discreto valore erano sparsi qua e la, senza un ordine prestabilito. Oggetti d’ogni genere posati a caso sopra di essi. Libri, tanti, ingialliti dal fumo del camino e da un tempo beffardo trascorso anche in quella strana dimora, piena di mistero e di solitudine.
Non volevo trafugargli niente di cui poteva accorgersene. Desideravo solo carpirne il contenuto e poi rimetterlo a posto. Temendo un suo ritorno, presi a caso uno di quei brogliacci incastrati fra i tomi, lo infilai nella casacca, diedi un veloce sguardo ai titoli dei libri ed agli autori, e quasi come un professionista, guadagnai l’uscita e mi allontanai.
Arrivato a casa, volli gustarmi la sorpresa. Così nonostante la grande curiosità, non lessi subito il manoscritto, anzi, mi preparai una tisana rilassante e mi abbandonai sulla comoda poltrona a godere a piccoli sorsi del contenuto della bevanda e del brogliaccio.
Gustai cosi quei momenti.
 
Soffio di vita
 
Da una vaga idea dell'uomo
il verbo generò l'animale.
Esso volle tendere al padre.
Un'arcaica specie rinnegò il passato e protese per ardito futuro.
Barcamenarono in tanti
nei secoli bui
per capir di prostrarsi
supine al cospetto del conscio.
Poi, dall'eterno, inconsapevol
vivere, un misterioso evento generò il senso del me.
Chiesi alla gradita illusione e scorsi immanenza nel fondo dell'immagine nostra
che gaia esultava.
Rimasi sbigottito. Avrei voluto sorseggiarla, ma mi scese di botto in gola nella mente.
Non capivo come si potesse partorire qualcosa del genere. Chi era per lui il  Verbo e come poteva supporre che fosse limitato. Infatti se cosi non fosse stato, non avrebbe avuto “una vaga idea dell’uomo”, avrebbe saputo con certezza cosa creare e perché. Ancora, come mai doveva attraversare una lungaggine di quel genere, ossia, essere animale; presupponendo per esso una non consapevolezza di se stesso.
Poi che senso avrebbe generare qualcosa o qualcuno che voglia tendere a se stesso, per che cosa, per emularlo forse, e come, quando, perché; in quale millennio?
No, troppo incongruenze, gli eventi non possono essere stati questi, c’è qualcos’altro, oppure conosco poco del mio misterioso amico.
Era veramente inconsapevole il vivere dei miliardi di esseri che precedettero l’uomo?
C’è un’apparente contraddizione tra la prima poesia e questa a proposito del valore da attribuire a qual si voglia entità biologica. Infatti nella  prima sembrava dovessimo condividerne  il  destino persino con i protozoi, in quest’ultima sembra, invece, che siano solo serviti per arrivare alla propria coscienza di se, di noi.
Se cosi fosse,  verso  quale coscienza staremmo correndo per passarne il testimone?
Come possono coesistere  immanenza e trascendenza. Come mai allora egli presuppone un idea di qualcosa o qualcuno e poi il tutto sia, come dire, un frutto dell’immanenza?
Ma veramente c’è da esultare qualora ci si convinca che la nostra esistenza sia un mero frutto dell’immanente?
Per quanto riesca ad intuire, l’immanente sarebbe una misteriosa capacità dell’energia, della materia ad organizzarsi, non so per quale fine; ma arrivare al senso dell’Io, alla coscienza può sembrare gia una buona meta. Ma quale pietà vi può essere per quell’Io che conscio di se stesso, della propria miseria, non fiuti una sorte benevole del suo
futuro post vitae?
Ci deve essere molto di più! 
 
Quella sera, pensando e ripensando al significato di quelle parole mi addormentai sul rosso sofà, il tepore della stanza alimentato da un generoso camino, aveva contribuito al rilassamento. Dicono che i sogni sopragiunti ai sonni profondi non si ricordino. Sarà vero in parte, o a causa del brusco risveglio causato dall’abbaiare del cane, che mi permise di ricordare alcuni tratti del sogno.
Tutti sanno quanto sia difficoltoso rendere indelebili alcuni concetti, scene varie che ci capita di sognare. Il più delle volte svaniscono miseramente lasciandoci con un amaro in bocca; come a dire, torna nel tuo comune vivere, nella cosiddetta realtà fatta di tutto e di niente.
Quella volta non mi lasciai sopraffare dalla pigrizia, presi una penna un pezzo di carta e mi appuntai quei concetti sognati sotto una forma prosaica.
                                           
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Speranza
 
Meta irreale dell’umano senno!
Gloria perenne dei rancor sopiti!
D’arte, d’amore e di dolcezza langui!
Taci, ti prego, non soffocar il mio cuor.
 
Senso istintivo è chiederti perdono;
li odo invocare, t’hanno patito.
Madre dell’amor, saper tu devi
L’arduo dovere che per natur detieni.
 
Gioie mancate, vanità perduta, sguardi lascivi
Dove veder non posso, ombre osservate,
malinconie languite, in te dover pongono arpiglio.
 
Seme di vita, amante mia diletta, cresci sovrana
Come tu sai far.
Odi l’amica fede, senti l’amor, palpa il perdono.
Ora dimmi, cercarli posso 
In questa selvaggia vita di apparente mal?
 
 
Di sicuro non mi metterò a fare la parafrasi, anche perché non ne sarei capace e sarebbe comunque soggettiva. In una composizione del genere penso vi possono essere varie interpretazioni. Chissà Freud  come avrebbe interpretato una personalità che partorisce un sogno  del genere. Comunque io non ci capisco molto.
 
È probabile che  i pensieri abbastanza contorti siano una sorta di coktail tra le mie riflessioni di ieri, a sua volta in funzione del contenuto delle prose dell’amico.
 
Quella luminosa mattina di maggio, invitava ad una passeggiata tra i fiori; le rose trastullavano col loro intenso profumo gli ingenui uccelletti i quali, inconsci e divertiti, saltellavano da un ramo all’altro in cerca di nuovi amori.
La campagna era addobbata a festa. Le fronde degli alberi, adorne di giovani foglie, sembravano sventagliare sull’illusione umana un tiepido diversivo.
 
Deve essere questo il modo col quale la natura c’inebria e ci limita.
La sofferenza, l’evidente caducità della vita, i pensieri raramente profondi, lasciano il posto all’immediato gioire.
Basta una giornata di sole, una bella donna che ci sorride, un invitante pranzetto e saremmo capaci di vendere l’anima, l’eternità pur di appagarci di simili desideri.
L’uomo è così frivolo da perdere la sua sola opportunità certa, la vita terrena, pur di non raccogliere tutte le proprie forze e guardare un poco oltre l’orizzonte.
Ma torniamo all’inconsapevole amico. Avevo l’impressione, perseguendo a conoscerlo, che fosse reo di grande presunzione. Qualcosa mi diceva che le sue strane dicerie, corressero il rischio d’impantanarsi in qualcosa di miseramente terreno.
Nonostante ciò, continuavo a sperare che fosse una piccola ancora di salvezza, nel grande oceano fatto di “agghiacciante solitudine”, nel quale vagavo alla deriva, oramai rassegnato.
Erano passati alcuni giorni da quando avevo sottratto il foglio incastrato tra i libri del vecchio. Nel frattempo avevo meditato sovente sulle sue “elucubrazioni prosaiche”.
Era giunto il momento di riportare indietro quel foglietto che era stato così prezioso per le mie meditazioni. Volevo anche cercare nella sua dimora  qualcos’altro che potesse nutrire uno spirito alla deriva. Sono pochi, del resto, le possibilità di appagare la propria inquietudine, quando si nasce col fine ultimo di dare un senso più profondo alla propria esistenza.
Rincorrendo questo miraggio si naviga sull’ordine delle cose. Ogni attrattiva della vita di tutti i giorni assume un’importanza marginale, a volte superflua, ottimisticamente scarna. Questa visione deve risultare similare tra tutti coloro che vivono la propria esistenza con lo stesso scopo.
Per tale ragione si sente il bisogno di confutare ad oltranza le intime elucubrazioni, per questo motivo ci si sente attratti da chi, uomo o donna che sia, possa alimentare questo intrinseco desiderio. A volte penso che c’è qualcosa di errato quando ci si identifica come uomo, donna, omosessuale.
Non mi accoltellate se perseguo questa idea che per me è quasi una verità evidente. D’altronde, chi si sente di marcare la linea di separazione tra amore ed amicizia. Per questo sarebbe opportuno identificarsi come essere umano e basta. Il nostro corpo è solo un esile mezzo d’indagine al servizio di qualcosa di molto più grande, che se non esistesse farebbe di noi un non senso.
Le ultime luci d’un dì di primavera inoltrata schiarivano quella misteriosa casa che avvolgeva con fare indiscreto il mio ignoto amico. Ero giunto in prossimità della dimora senza un’idea certa. Non potevo sperare che si allontanasse come la volta precedente. Non avevo speranza d’intrufolarmi furtivo per riporre il foglietto nei libri, tanto meno di appropriarmi di qualcos’altro che potesse dare spunto alle mie elucubrazioni.
Guardai la villetta scivolare nelle nere fauci della notte. Di lì ad un’ora, l’unica luce che colpiva le mie pupille era sparsa da una piccola finestra  che guardava in una valle circostante. Ho creduto che la vista del territorio antistante tale punto d’osservazione abbia potuto incidere sulla visione delle cose dell’anziano uomo. Non poteva essere sfuggito al mio amico il trascorrere del tempo, scandito dal cambio delle stagioni, dal giorno e la notte, dalla vita e la morte degli esseri e delle cose.
Rimasi con lo sguardo proiettato verso quella dimora e quasi inconscio, spingevo la mente al di la delle mura, oltre il reale. Lasciandomi soggiogare dal tepore di quella particolare sera, avvolta d’una coltre di stelle indiscrete, rimasi seduto su un masso tra sonno ed oblio.
Credevo di conoscere quel posto da prima che costruissero quella casa, o come sarà dopo che verrà demolita. Intravedevo della gente che nasceva, soffriva, si divertiva, svaniva. Altre persone del passato o del futuro, ormai non sapevo più che collocazione temporale avessero. Non aveva, del resto nessuna importanza. Passato e futuro erano come un tutt’uno sposati ad un inesistente presente. Le stelle sembravano divertirsi della mia vacillante  sensazione.
Cosa avrei voluto che accadesse; non è nell’istinto, ne nella ragione, tanto meno potevo cercare il da farsi in un comportamento ragionato. Del resto, cosa volevo da quella sorta di speranza celata da quattro mura? Era evidente che l’unica cosa che cercassi non mi poteva pervenire da niente, neanche dal più savio degli umani. Poi cosa mai sarà un savio? Uno che ha pensato troppo forse? Se si, in quale direzione? Non potevo ne dovevo continuare ad illudermi! Rimuginando   tra me e me, mi tornò alla mente un grande del pensiero filosofico, un certo Socrate, il quale tentava, tra l’altro, di dimostrare che il sapere è dentro di noi. La sola cosa che  necessita fare è  tirarlo fuori. Per fare questo si può agire in due modi, il primo,
è stato detto, è pensare, il secondo è dialogare. Quest’ultimo metodo è probabile possa fornire risultati migliori. Ma a prescindere da questi, può nutrire con un piatto di “pari vedute”, il nostro appetito.
Ed eccomi qua; oramai non c’è più passato. Il presente è nell’attimo in cui registro il mio da farsi. Cosa faccio, vado via oppure, oppure cosa, desidero per caso andare lì a bussare a quella porta. Cosa andrò a dire; come mi accoglierebbe se lo facessi?
Ecco, è sorta la luna all’orizzonte. Sembra essere uscita da un bagno di sangue. Pare voglia rischiarare il cielo, le anime ribelli con la sua fioca luce. Le stelle ancora predominano su di essa. Immobili, in un coro ancestrale mi cantano l’inno di fede. Resto immobile; sento il fremito che mi pervade; mi sale lungo la schiena; scivola su e sembra che blocchi la mia ratio. Ecco, un uccello, è un gufo, saetta sicuro nelle tenebre; attraversa il piatto lunare. Sembra presagire qualcosa. Neanche i soliti grilli stasera mi fanno compagnia. Un silenzio irreale adorna l’attimo infinito, ed il tutto e il nulla s’amalgamano in un’identica realtà.
Mi avvicino piano, furtivo verso quella  finestrella fiocamente illuminata.
Di tanto in tanto la luce diviene ancora più fievole a causa di una sagoma che transita d’innanzi alla sorgente. Deve essere il mio amico che passeggia dentro la stanza. È come se fosse una bestia che contro la sua volontà viene rinchiusa in una gabbia, il quale andirivieni è scandito solo dalla sua rabbia interiore, dalla fame, dalla sete.
Ma forse all’animale rimane il sogno di andare oltre le sbarre. Può intuire cosa ci sia lì dove gli è precluso; a meno che non vi è nato dentro; proprio come noi, schiavi del pensiero, rei d’esistere. Confinati in un anfratto che non ci da scampo. Ci limita anche nel sognare.
Ecco, inciampo, per la miseria, devo essermi graffiato saranno dei rovi o delle rose. Ricordo che l’uscio è a destra della finestrella, ma non lo vedo ancora. Ah se potessi avere un bagliore. Se avesse messo un campanello sul cancello; un nome. Ci sono. Intravedo appena la scura sagoma dell’uscio. Che faccio, busso e manifesto la mia presenza, lascio trasparire l’inquietudine che ormai mi domina, o scappo via. Solo un esile ostacolo si frappone tra me e l’uomo artefice di speranza, di mistero, chissà, forse di rivelazioni. Cosa gli dirò? Chi sono, cosa penso. Potrò ridicolizzarmi a tal punto da svelare ad uno sconosciuto le mie paure, le intime incertezze. E se si rivelasse un burbero, incapace di un dialogo pacato. Se quelle cose che ho letto di lui le avesse scritte tanto tempo fa e magari adesso è un’altra persona. Se i tanti anni che avrà avessero infine inciso sulla mente. Se non fosse più in grado da vecchio di dominare il pesante fardello dei propri pensieri. Mi sento comico come un innamorato che in altri momenti avrebbe avuto certezza di essere ricambiato, perché si sogna che l’altra nutra parimenti emozioni. Ma si sa che poi non è così, almeno in parte. Al massimo una donna che non ricambia l’affetto di un uomo innamorato di lei, è intimamente lusingata. Si può sperare che possa allontanare   l’innamorato con fare gentile, cortese. Ma è così contro natura manifestare sentimenti inusuali verso un vecchio, solo perché si sente dentro che possa rivelare qualcosa di profondo per l’intima sete di conoscenza che mi pervade.
Si perché la sua età è congelata sugli ottanta anni. Anche se ne avesse di più non me ne accorgerei.
Cosa conosco di lui, della sua vita; perché sento che sappia qualcosa la quale conoscenza può rendermi contento? Si è vero, la mia sensazione ha un movente stravagante. Mi sembra che una persona che convive con un modo di essere, con qualcosa o qualcuno, col trascorrere degli anni, la propria espressione facciale tenda ad amalgamarsi con ciò che è stato compagno nel tempo.
Da bambino, per esempio, ogni mattino ed ogni sera transitava davanti alla mia casa un carretto trainato scocciatamene da una “mula”. Sul carro un certo Michele che in modo abitudinario completava la figura d’insieme.
Per me, in seguito ai tanti anni di passaggio dello stesso carro, l’identica mula, il medesimo vecchio, la stessa ora, non vi era più distinzione tra il volto dell’animale e quello dell’uomo. È come se il tempo avesse tolto qualcosa a qualcuno e l’avesse impresso all’altro.
Allo stesso modo ritengo che un appassionato di filosofia pura, non può avere uno sguardo arcigno, spezzante, da furbastro, per esempio. La stessa predisposizione mimica tenderà ad accentuarsi nel corso degli anni.
Folle vero? Eppure , anche se non so fornire una spiegazione logica, ne sono abbastanza convinto.
Oddio, cosa ho fatto, pensando alla mula mi sono distratto ed incautamente ho bussato alla porta. Avrà sentito, è il caso che vada via. No, non c’è più il tempo di riflettere, ormai è qua, sento che apre, mi si para di fronte.
Ha in mano una lucerna accesa, la solleva appena perché veda il mio viso e senza aggiungere altro mi invita ad entrare. È un vecchio come tanti, magro, gli occhi grandi ed incavati in una pelle raggrinzita e avida d’espressioni. I lunghi capelli bianchi e radi coprono gli orecchi e il longilineo collo. Addosso l’essenziale; una maglia a girocollo verdastra e sgualcita; un pantalone scuro forse di jeans con una piccola toppa grigia al ginocchio. La stanza d’ingresso è la stessa di quando entrai furtivamente, ma la  ricordavo più sobria, più disordinata. Le ragnatele sono rade; ne intravedo un paio agli angoli della vecchia libreria di castano scuro di fronte al camino acceso, nonostante il mite clima. Il soffitto di legno anch’esso, contribuisce ad oscurare l’ambiente, rischiarato solo dalla fiamma del camino. Mi fa segno d’ entrare e sedermi su una sobria panca di sbieco ad un tavolino di vimini giallo scuro con sopra un accenno di centrotavola brizzolato, su un vasetto di terracotta con una pianta grassa tonda. Non dico niente, raccolgo l’invito ringraziando. Egli si accomoda di fronte, dalla parte opposta del piccolo tavolo; neanche il tempo di poggiarci ed esclamo: <Mi deve scusare, ma sento che in lei vi è qualcosa che amerei conoscere. Non mi chieda di risponderle con una ragione logica, ne mi derida la prego.>
Il vecchio, pur volgendo lo sguardo verso la fiamma scoppiettante, pare fissarmi col pensiero. Sembra si aspettasse una tale presentazione. Con fare quieto si alza va verso lo sgangherato camino, prende l’unica bottiglia da una mensola, questa, piena di libri poggiati di piatto e confusi con  stropicciati quaderni, sorregge anche due soli bicchieri che, con reminiscente ospitalità, li poggia sul tavolo  riempiendoli fino all’orlo. Il nero liquido che travasa dalla strana bottiglia con collo contorto, sul quale è ricavato un orlo dal quale foro vi passa con facilità un grosso dito, odora di vino e lo è. Sembra quel denso primitivo che ho conosciuto da bambino, il quale, dondolandolo nel bicchiere, ne lasciava sulle pareti un concentrato rossore. 
Non ho il coraggio di rifiutare questa forzata offerta, ne di confessargli che raramente bevo alcolici e tanto meno in quelle occasioni, nel corso delle quali gradirei mantenere il massimo della lucidità.
Afferra il grosso calice trasparente lasciandone  scivolare il sottile piede di cristallo tra le  lunghe dita e il palmo della mano. Il garbo con cui ha compiuto tale gesto denota un’arcaica abitudine di raffinato galateo, da me conosciuto solo attraverso le scene di films girati in ambienti come la Reggia di Caserta.
Con un accennato sorriso, accompagnato dal gesto della mano con la quale  sorregge il bicchiere, mi invita a fare altrettanto; dopo di che se lo porta alle labbra  e ne travasa in se il contenuto.
Mi sembra di vivere una scena rituale dalla quale non posso ne voglio esimermi. Nonostante abbia bevuto in diverse occasione del vino, non sono mai riuscito ad abituarmi completamente al suo sapore, ne a controllarne l’effetto sui miei sgangherati neuroni. Così afferrato sgraziatamente il calice, ne bevo di botto il “nettare degli Dei” come se fosse stato quel liquido radio riflettente bianco, usato in radiologia per rendere visibili alcuni organi ai raggi x.
Sono ancora io a prendere la parola e, senza avere il coraggio di fare commenti dello straziante sapore del  vino,  gli chiedo senza preamboli: <Cosa ne pensa della vita, dell’esistenza, vi è una qualche speranza che la “consapevolezza di noi” possa sopravvivere in qualche forma alla nostra alienazione terrena?>
Con  voce stentata ma chiara e profonda, in un italiano perfetto esente da inflessioni dialettali, inizia a proferirmi delle varie visioni del mondo, della consapevolezza di se, che i vari grandi del pensiero filosofico hanno espresso nel corso dei secoli.
Dal  modo di esprimersi e dalla conoscenza dettagliata della storia della filosofia, deduco che possa conoscerne la letteratura, pertanto gli domando:
< Ma lei che lavoro ha espletato nella sua vita, è italiano?.>
Mi guarda, dividendo lo sguardo tra me e la bottiglia del vino ancora per metà piena e mi dice:
<No, non sono italiano. Sono circa venti anni che risiedo nel vostro Paese.
La mia Nazione di nascita è la Cecoslovacchia, ma sono vissuto sempre negli Stati Uniti, a Philadelphia dove insegnavo filosofia presso L’università>!
 Dicendo questo corruga ulteriormente la fronte, alza lo sguardo  a mo di riflettere, quasi voglia inventarsi un vissuto che gli è appartenuto tanti anni fa.
Rispetto l’attimo con doveroso silenzio, ed immagino quanto sia duro sopravvivere ai tanti ricordi che coronano un’esistenza. Quando tutto sembra inesorabilmente finito e la consapevolezza della propria età non ti consente di allietarti con promesse future.
Poggia con garbo il bicchiere sul tavolo e trattenendosi il capo con la mano sinistra, mi chiede cosa realmente voglia sapere da lui.
Ormai tranquillo, aiutato  dal rilassamento del vino che gia lascia emergere i suoi effetti, gli dico:
< Non mi ero sbagliato sul suo conto. Lei è stato un insegnante di filosofia e avendo scelto tale indirizzo per la sua carriera professionale, non può non averla amata. Eviti di raccontarmi le varie visioni filosofiche, mi dica soltanto, quale sia la sua convinzione. Ormai ha un’età sulla quale non può bleffare. Deve essersi fatta una ragione; è questo che vorrei che mi dicesse>
<E’ vero>! Esclama come se si svegliasse da una lunga abitudine fatta d’incontri sterili, di gente avvezza a bere nella solita fonte, o che al massimo si accontenta e riparte sempre dall’inizio della scala della conoscenza. Gli incontri più appaganti oramai risalivano ad oltre trenta anni prima di quando insegnava negli Stati Uniti. Gli americani hanno una visione più pragmatica della vita. Per loro esistono solo le cose che si possono spiegare, vedere, assaggiare.
Non è sempre così, ma l’eccezione conferma la regola.
<Avrei dovuto capirlo subito dal tuo sguardo che tipo di persona sei. A te posso confidare che tutti i miei studi, le mie riflessioni sono serviti veramente a poco perché possa fornirti un parere per te esauriente>.
Cosi dicendo, si alza e passa in rassegna con lo sguardo gli innumerevoli libri sparsi per la grande sala. Di tanto in tanto, avvicinandosi a qualcuno di essi, lo afferra e lo stringe con rabbia; qualcun altro con affetto. Uno di questi, del quale mi capita di carpirne anche il titolo, lo scaraventa con sdegno nel camino acceso. Era l’Anticristo di Nietzsche .
Come non comprendere la sua disperazione, dato che è anche la mia, accentuata dai tanti anni in più e carente di quella speranza biologica che porta a far sopravvivere ogni essere, facendolo sperare nel domani. Un domani che forse non verrà, ma del quale  ne siamo inconsapevoli.
Si riavvicina al piccolo tavolo di vimini, prende la bottiglia, mai persa veramente d’occhio, e ricolma il suo bicchiere, denotando un vistoso tremolio della mano.
Dimenticando il bicchiere sul tavolo e senza neanche assaggiarne il contenuto, si dirige con calma apparente verso l’abbondante poltrona a dondolo posta di fronte all’ampia bocca del caminetto. Si siede lì dandomi le spalle, quasi come se si vergognasse d’un fallimento che è di tutti, ma del quale egli come altri che perseguono l’intento di mantenerne le redini della gnosi, si reputa maggiormente responsabile.
<No, possiamo solo parlare di ogni cosa tu voglia senza ipocrisia, e tu lo sai cosa voglia dire, ma non credo poterti rivelare granché di particolare>.
<Ti ringrazio veramente di cuore della disponibilità che mi offri, te ne sarò sempre riconoscente, e ne approfitterò di certo> Aggiungo io ancora stordito dal pesante vino ingurgitato e da quella strana avventura che mi sta capitando.
<Una cosa te la posso dire> aggiunge quasi volesse confessarsi come un miscredente che ammetta d’improvviso di credere agli spiriti.
<Tanti anni fa ho subito un gravissimo incidente. Sono stato ricoverato in coma e di quella tragica esperienza ricordo delle cose strabilianti>
<Vuoi dire che hai dei ricordi di quando eri nelle condizioni di non poter pensare>?
<Così si crede normalmente, ma io pensavo e come>. <Mi sembrava che il tempo non esistesse più, come se le tante cose fatte nel corso della mia vita fossero racchiuse in un unico punto>. <Non so come spiegartelo esattamente, ma è come se avessi raggiunto il dono che normalmente si crede abbia Dio, ossia trovarsi in ogni luogo o in ogni circostanza contemporaneamente>.
 Se queste rivelazioni le avessi apprese da chicchessia, non vi avrei dato peso, ma chi le contrappone ad una vita fatta di studio e di riflessioni, le attribuisco valore eccome. Anzi, trovo eccezionale che ci possa essere una forma d’esistere latente in ogni cosa, in ogni luogo e spiegherò successivamente perché.
Finito di pensare ciò, gli dico:
<Non riesco a comprenderti; deve essere una sensazione che devi necessariamente vivere per renderti conto di cosa sia. Non riesco a confutarti. Scusami, per la fretta di conoscere i tuoi pensieri ho omesso di presentarmi. Mi chiamo Adamo e spero che potremmo darci del tu >.
<Dopo quello che ti ho appena detto, sarebbe un evidente controsenso se mantenessimo un distacco dandoci del Lei. Dammi pure del tu e chiamami Lew>.
I due strani personaggi erano finalmente insieme. L’uno  aveva cercato l’altro, ma questi è come se l’aspettasse, o perlomeno sperava d’incontrare qualcuno, alla soglia del trapasso, col quale potesse finalmente sfogarsi.
Diveniva, col trascorrere dei minuti, un evidente connubio tra i due.
In quell’occasione fu più Adamo a prendere l’iniziativa di trovare nuovi argomenti di conversazione. D’altronde ancora in lui vi era una certa enfasi giovanile che lo incitava, nonostante si era abbastanza tranquillizzato e la ricerca dell’Io aveva assunto una dimensione più pacata, ma non rassegnata.
Il giovane pensatore ebbe un’idea. Propose di rivedersi ogni momento possibile insieme e se avessero avuto voglia, avrebbero discusso di qualche argomento.
<Va bene, sono d’accordo, come potrei rifiutare un così allettante invito>
Esclamò Lew, visibilmente commosso.
Ecco quanto fu detto in quell’incontro:
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
I dialoghi
 
Il dialogo tra i due avvenne  d’istinto, come è giusto che sia tra menti non succubi di pregiudizi, risentimenti, rancori. Scambi schietti, non finalizzati ad altro che non sia il senso della comprensione, della ricerca interiore. Quasi come una meditazione ad alta voce. C’era l’intesa giusta e così fu.
 
A.     (Adamo).
B.     (Lew)
 
I.                   A. Noi comunque siamo persi per sempre; lontani dall’oblio delle flebili infatuazioni; distanti dal mondo delle favole astrologiche, religiose. Altro non possiamo tentare che continuare su questa strada senza meta nel deserto che ci sovrasta, a volte opprime, ma che sempre suscita alimento della nostra essenza.
 
II.                B. E’ proprio questo il punto, la nostra essenza! Cosa credi che sia? E’ il nostro tormento.  ossia, che ognuno deve terminare, finire la propria esperienza e poi non esserci più.
III.             A. Ci siamo straziati all’inverosimile, ma siamo sempre rimasi legati ad un unico filo d’acciaio che ci ha sorretto, e, mi auguro ci sorregga ancora.
 
IV.            B. il filo l’ho unto di grasso, poi di fiele, infine lo vedo secco, nel deserto in cui barcolliamo, al momento non dispongo neanche più delle lacrime per inzupparlo.
 
V.               A. A cosa credi sia dovuto? Forse al fatto che vedi intorno a noi che lo sfrondio diviene sempre più marcato, senza tregua. Ormai i pochi rami senti che ci cadono addosso, ci sovrastano, offuscano, non ci danno respiro. Che paradosso, non volere più che l’aria ci penetri dentro, finire a momenti questo tragico tormento e nel contempo annaspare per una soluzione lungimirante, magari eterna, certamente differente dall’ipocrita vita terrena.
 
VI.            B. Hai un’idea del perché di tutto ciò? Qualcosa o qualcuno può fornirci uno spunto di riflessione ulteriore; magari differente dalle solite inappagate considerazioni percepibili dal nostro contesto circondario?
 
 
VII.         A. Certo! Forse è il caso che ricordiamo a noi stessi qualcuna di queste tappe. In questo modo si potrà scartare qualcosa che non ha più senso di esserci.
 
VIII.      B. cosa ci potrà rimanere? Lo sai bene che anche quel qualcosa che vorresti salvare non ti alimenta più di tanto. Forse serve più agli altri per tentare di confortarli meglio nel dolore, nella vecchiaia, piuttosto che a te stesso.
 
 
IX.            A. però non puoi affermare inesorabilmente che la vita sia tutto qui. E’  riduttivo. Abbiamo vari fronti ancora dove sperare. Tieni presente che noi ci affacciamo appena nel campo del sapere. Anche in quell’ambito che all’uomo della strada sembri fornire più tristezza che altro, il mondo scientifico.
 
X.               B. renditi conto chi sei e con quali mezzi provi a comprendere qualcosa di importante. Abbiamo, probabilmente, scarse capacità mnemoniche, intellettive. L’aiuto dall’esterno è stato alquanto scarno. Pochi intellettuali nella nostra vita, scarsi consigli, rari dialoghi di quelli che ti lasciano un senso di pienezza, di vuoto sotto lo sterno, simile all’innamoramento.
XI.            A. perché dici simile, non è forse questo il vero innamoramento? Ossia, la nostra natura, tu ed io che elucubriamo  male modo, e, di tanto in tanto inconsciamente sogna di trovare la, in quegli occhi che sembrano lascino trasparire l’infinito, l’animo che tutto avrebbe e nel quale vorremmo attingere all’unisono?
 
XII.         B. Certo l’evidenza sembra dirci che ogni cosa è un’illusione. Tutto svanisce col tempo e con la morte. Di quello che è stato non rimane più nulla. Tutti gli uomini sono morti, deceduti miliardi di animali, piante insetti, specie antropomorfe. Tu vorresti trovare un senso a tutto questo?
 
 
XIII.      A. non c’è alternativa. Ogni attimo che avremo, varrà la pena viverlo se finalizzato al senso dell’esistenza e alla ricerca dell’eternità.
 
XIV.     B. Soffermiamoci un attimo su questa tanto agognata eternità. Vorresti veramente che la tua esistenza fosse infinita? Che ti fosse negata la facoltà di farla finita? In altri termini, credi possibile che il nostro modo di concepire l’esistenza possa ritenersi compatibile, non dico con l’eternità, ma con tempi molto lunghi nell’ordine delle centinaio o migliaia di anni?
XV.        A. Nel modo più assoluto no! Perché vivere  come noi intendiamo, significa mangiare, bere, soffrire, pensare senza molti appigli. Credo che anche duecento anni sarebbero un’eternità.
 
XVI.     B. Questo significa che non possiamo sperare che ci sia dopo la morte, una sorta di continuità nel modo in cui noi la intendiamo?
 
 
XVII.   A. Infatti, sull’ignoto, oltre che non rassegnarci mai nel cercare di comprendere più possibile, possiamo sperare che  gli eventi scorrano in un certo modo. Inoltre, dobbiamo immaginare in che cosa debba consistere la nostra presenza.
 
XVIII.                        
B. Vuoi dire che tutti coloro che hanno la cosiddetta fede che ci sia un prosieguo della loro esistenza dopo la morte,  in realtà non hanno meditato abbastanza?
Per quanto ne sappiamo, nella religione cristiana vi è la speranza della risurrezione, forse anche in quella mussulmana si ha fede di qualcosa del genere . Sono forse loro poco accorti o lo siamo noi?
 
 
 
XIX
A.   Questo è un nodo difficile da sciogliere. Proverò ad esprimere un concetto. Tutto ciò che normalmente la gente fa, è finalizzato alla sopravvivenza fisiologica: la distrazione è l’arma vincente per sopravvivere. Distrarsi è indispensabile per far si che non insorga una epidemia depressiva collettiva.
 
 XX     B. E la preghiera, assumere tutti quei comportamenti accondiscendenti alle divinità cosa significano nella vita di un uomo?
 
XXI    A. Probabilmente è un modo comodo per mettere a tacere quella parte di noi, irrequieta, che continua ad insidiare la ragione.
 
XXII   B. Insidiare la ragione. Vuoi forse convincere che vi è conflittualità persino nell’ambito dello stesso individuo? Ma sai cosa significa tale insinuazione? Che non vi può essere spazio ad un livello significativo per un dialogo tra chicchessia individui!
 
XXIII A. proprio così. La mia impressione è che si voglia infilare alla cruna di un sottile ago  una fune di grosso diametro. Il passaggio della cruna simboleggia la conoscenza e non credo assolutamente che rappresenti un varco tradizionale, ma si assottiglia man mano che si penetra nell’interno.
 
XXIV B. La fune immagino sia il mezzo col quale vogliamo pervenire alla conoscenza. 
 
XXV  A. Esattamente, tale metafora vuole accomunare ogni mezzo si abbia per scandagliare. La prima cosa, come accennavamo prima, consiste nell’inadeguatezza del linguaggio. Subito dopo l’incapacità comune di contrapporsi  ai pregiudizi. La mente sembra come una spugna, s’inzuppa di tutto facilmente e poi risulta cosi difficile liberarsi delle tante, spesso stupide convinzioni.
 
XXVI B. Credi che noi in qualche modo abbiamo ottenuto dei risultati? Non mi sembra che siamo pervenuti a chissà quale traguardo. Dopotutto,  tante volte veramente sembriamo molto vulnerabili. Il dubbio è sempre dietro l’angolo. Esso consiste nel ritenere se è stata una buona scelta lasciare il soffice giaciglio di una prefabbricata verità, magari religiosa, per un sentiero stretto e tortuoso che proprio non si sa dove porti.
XXVII  A. lascia che non si sappia la meta. La rovina totale della ragione sarebbe proprio capire che non vi sia più niente da cercare.
 
XXVIII B. Hai compreso qualcosa a tale proposito, a cosa vogliono pervenire gli scienziati quando dicono di cercare un’unica equazione che spieghi ogni fenomeno che ci circonda?
 
XXIX A. Reminiscenze scolastiche mi portano col pensiero ad Einstein. Pur non avendo compreso bene perché, credo che sia stata per me la persona alla quale ho attribuito il massimo dell’ammirazione.
 
XXX B. Affinché tu dica questo,  ci deve essere una ragione  molto valida. Vuoi tentare di spiegarmela?
 
XXXI A. Vedi, come abbiamo detto, non ha senso per noi la vita se non è finalizzata per tentare di capire il più possibile. Ma se lo facciamo noi, come abbiamo tentato, non otteniamo grandi risultati. Quella figura di vecchio con i capelli perennemente spettinati, e con lo sguardo da genio mi ha particolarmente colpito, è il simbolo di ciò che cerco di dire con le tante, spesso inutili, parole.
XXXII B. E’ vero, ma c’è altro. Forse sarà un modo d’interpretare la relatività molto personale, ma pensare ai famosi gemelli, uno dei quali viaggia alla velocità prossima a quella della luce, poi torna dal fratello e nota che egli è ancora giovane e pimpante mentre l'altro è  vecchio decrepito, mi angustia e mi affascina.
 
XXXIII A. Questo fenomeno può essere un nuovo modo di concepire la realtà. Da piccolo, mi angustiavo quando, ad esempio, notavo che un oggetto lasciato libero cadeva sempre verso il basso. Altri eventi noti, e li a martoriarmi del perché evolvano sempre nello stesso modo! Mi chiedevo se vi fossero dei posti o delle circostanze nell’universo, concepiti in modo differenti dove un bicchiere lasciato libero cada in alto.
 
XXXIV B. Ed Einstein ti ha aiutato a fiutare tale circostanze? Non sarà che solo la nostra grande voglia di intuire mondi differenti possa inesorabilmente  portarci fuori rotta?
 
XXXV A. Forse per ulteriori riflessioni, ma  ha comunque fornito, insieme ad altri geni, un contributo enorme a far si che si intuiscano visioni differente dell’esistente. Pensando all’energia, tanti anni fa, stetti veramente male non riuscendo a formulare in me una visione convincente di cosa fosse.. Nella manifestazione forse più appariscente, si pensava al fatto che una calamita attiri qualcosa; oppure che un oggetto venga attratto dalla terra.
Cosa fosse quella cosa che si frapponeva tra i due oggetti e facesse in modo che si avvicinassero o respingessero.
 
XXXVI B. E’ vero, non abbiamo trovato una risposta, ma quella E-mc al quadrato aprì un varco, forse stretto, ma significativo. Da un altro punto di vista ha complicato di molto le cose. Pensare che la massa, quindi tutto quello che sta attorno a noi, dunque anche noi stessi, sono una differente manifestazione dell’energia, fa impattare la ragione comune con gravi danni, mi auguro superabili.
 
XXXVII A. Come hai pensato a superare questa ulteriore avversità al pensiero comune? Quest’ultimo sembra dire che un oggetto, un essere vivente esiste se concretamente si può toccare, vedere annusare. Allorché, per la formula anzidetta, tali corpi diventino energia pura, pare che si esprima la stessa idea del non esistere.
 
XXXVIII B. In effetti, questo concetto sembra dire che esistere o non esistere siano due manifestazioni della stessa cosa ed in qualche modo reversibili.
XXXIX A. Ma cosa stai dicendo, vuoi insinuare che l’idea del non esistere, tanto angustiata perché abbinata al pensiero della nostra alienazione, possa lasciar sognare, sperare alla nostra reversibilità?
 
XL B. Be, non ti allargare con l’affermare di quali siano le speranze profonde del mio pensiero. Sono variate col tempo, con l’esperienza, col ragionamento.
Al momento le idee sono alquanto confuse ma proviamo comunque a disegnare un quadro della situazione.
 
Un morto, per quanto ne sappiamo, degrada negli elementi di cui è composto. La vita, che per l’esperienza comune è quella capacità particolare della materia strutturata in modo da poter interagire con il mondo circondario, si spegne.
Non essendoci più, non dovrebbe sussistere nessuna possibilità di rammarico, d’angustia, di preoccupazione, di dolore o piacere. Per quanto si diceva prima, sarebbe la condizione più auspicata per il nostro trapasso.
 
XLI A. Auspicata forse sotto il punto di vista razionale, ma inconciliabile con la grande voglia d’infinito che si ha dentro di se. E’ paradossale che un essere strutturato per un tempo insignificante, abbia ad auspicare una continuità senza fine. Se potessi esprimere un desiderio a tale proposito, che cosa auspicheresti?
XLII B. Pur considerando improbabile e non desiderabile una realtà come ci viene indicata dai testi sacri, vi sono comunque alcune  indicazioni degne di nota. Fin dalla scuola materna s’impara che Dio è ovunque,  in ogni luogo. Ma anche il bambino si chiede, senza potersi rispondere, di come   possa questo accadere.
A ben pensare, una fenomenologia di questo genere, deve poter fare a meno di diversi elementi dati per scontati nella nostra odissea. Primo elemento, lo spazio. Per essere ovunque non ha senso chiedersi se è qua o la perché tra qua e la vi sarebbe una distanza ed anche in tale tratta insisterebbe la divinità. Pur dividendo gli spazi intermedi in ulteriori piccoli tratti, necessiterebbe riformulare il concetto. E’ evidente dunque che se ciò fosse vero, non ci sarebbe lo spazio. Non essendoci lo spazio, stare qui o la è immediato. Il concetto d’immediatezza prescinde dal tempo.
Noi stessi, quindi, saremmo un tutto e un niente, Dio o uomini.
 
XLIII A. Ti stai impelagando in un cunicolo cieco. Sai bene che non si cava un ragno dal buco con queste speculazioni. Piuttosto cerca di essere concreto. Vi sono concetti della scienza del nostro tempo che ci possono aiutare ad immaginare qualcosa. Mi riferisco ai Quark, ed alle Superstringhe. I primi, a prescindere da ulteriori considerazioni, ci mostrano un mondo  con leggi apparentemente differenti da quelle a noi note. Ad esempio il modello di atomo accettato al momento, prevede, tra l’altro, per gli elettroni un salto orbitale qualora l’energia all’interno dell’atomo aumenti. Ma tale salto non percorre, tra un’orbita e l’altra, la via intermedia. E’ come se per andare da Roma a Milano non passassi dalle località interposte, ma mi trovassi direttamente a Milano.
 
XLIV B. E’ facile che ti stia perdendo dietro a visioni teoriche della fisica, dei quali fenomeni ne sappiamo realmente poco. D'altronde se vi fossero dei suggerimenti per una visione eterogenea della realtà, non credi che si tufferebbero a capofitto pur di annunciare una nuova faccia dell’universo?
 
XLV A. Ma è proprio quello che sta capitando. Hai letto quel libro che trattava della visione dell’infinito in ogni direzione; era stato scritto da uno scienziato di fisica teorica o qualcosa del genere. Affidabile per i presupposti conoscitivi. In una parte del libro trattava la possibile visione dell’universo in un moltitudine di dimensioni. Tale possibile interpretazione teorica veniva enunciata da uno scienziato e presentata, tra l’altro, in un seminario i quali partecipanti erano solo scienziati. Nonostante fossero tutti conoscitori delle tematiche in questione, non riuscivano a seguire il relatore oltre la quarta o la quinta dimensione.
 
XLVI B. si l’ho letto e immagino ti stia chiedendo quanto queste questioni siano difficili da comprendere ed interpretare!
Rimembrando su quel tomo mi sovviene la questione delle superstringhe, ossia quella sorta di “condensato energetico” candidata come la particella più semplice che comporrebbe tutte le strutture subatomiche. Credo che della sua forma, delle sue dimensioni e di collocazione nello spazio-tempo non vi sia possibilità per il profano di averne una visione, ma di lasciarlo sognare, ebbene si, vi è spazio.
Te la riesci ad immaginare un qualcosa che non abbia tre dimensioni ma due, ossia la larghezza e l’ampiezza. Sarebbe priva della profondità. E come se noi fossimo su un piano, tutto l’esistente sarebbe disseminato in lungo ed in largo, ma del sopra e del sotto non si potrebbe neanche concepirne l’esistenza.
 
XLVII A. Ecco ti stai avvicinando a ciò che voglio dire. Non concepire neanche le questioni potenzialmente concepibili. Tu ed io, come se fossimo un banale artifizio che fa dei dialoghi un diverso modo per scrutare la realtà. Ma comunque facciamo parte del complesso dell’universo a noi noto. Speriamo che qualche “erudito ci ascolti e ci aiuti nelle nostre meditazioni”.
 
 
 
XLVIII B. Supponi che ve ne possano essere molti di realmente eruditi attorno a noi? Cosa ti aspetteresti che costoro ti dicano?
 
 
 
XLIX A. O sono stato molto sfortunato, vissuto in contesti privi di opportunità d’incontrare tali “menti fluide”, o realmente ve ne siano ben poche. Affinché si possa affinare la capacità di lettura nell’ambito della conoscenza, come si accennava innanzi, vi è l’esigenza di resettare le nostre convinzioni, mantenendosi ancorati ad un sorta di sicurezza interiore che potrei definirla “ragione”!
 
L B. Vivi ancora di fantasie e di speranze. Hai trascorso una vita cercando, non di far conoscere le nostre convinzioni, ma il dialogo, l’opportunità di viaggiare insieme in queste tematiche e sperare di beneficiare dell’apporto o per lo meno della collaborazione di qualcuno. I risultati di tutti questi anni sono stati, a dir poco, scoraggianti. Non mi riferisco solo al cosiddetto uomo della strada, che magari è stato particolarmente soggiogato e offuscato dai principi latenti, ma a coloro che di virtù avrebbero dovuto essere permei; mi riferisco agli insegnanti di materie filosofiche, scientifiche letterarie. Caro Adamo anche tu sarai stato snobbato da costoro, senza aver mai potuto capire, ne sapere, del perché ci guardassero dall’alto in basso stando bene attenti a non cadere?
 
LI A. Condivido quanto mi racconti. A tale proposito posso ricordare l’incontro in un convegno, il quale relatore, tra l’altro, voleva mettere in evidenza la difficoltà d’indagine della realtà nel nostro tempo.
Essendo, per certi versi, venuti a mancare i presupposti ritenuti non solo indispensabili, ma forse insostituibili, per la ricerca scientifica. 
Per accettare la validità di una legge scientifica, si scivola in un groviglio fortemente indagato e necessitante di profonde e differenti divagazioni filosofiche, a stretto contatto con gli apporti, sempre più aleatori, della scienza.
 
LII B. Per quanto concerne lo sconforto immagino tu voglia alludere a quanto poco di ciò che si relazionasse fosse realmente compreso dalla platea.
 
 LIII A. L’ironia delle platee è spesso  lo scudo che si frappone tra se, le proprie convinzioni e il credo di una vita.
 
 
 
LIV B Caro amico, mio unico solo sconsolato condivisore dei miei turbamenti, a volte ho l’impressione di non essere ne carne ne pesce. Da un lato sono inappagato dell’esistenza frivola e crudele, in generale s’intende, dall’altro ed in certi momenti fortemente motivato e deciso a cercare qualche movente ai perché di tutto questo.
 
LV A. Sai come la chiamano i dottori della mente questa sintomatologia? Stress, depressione! O qualcosa del genere. Sappiamo benissimo che la battaglia più ardua è quella con se stessi. Non conosciamo gli esiti fino in fondo, ma palliativi come quelli propinati dagli psicologi ne possiamo trovare a bizzeffe; non credi?
 
LVI B. Ma che credi di conoscere tu della terapia psicologica? Gli “strizza menti” sono dei profondi conoscitori della dinamica mentale. Essi, forse dopo una sola seduta, saprebbero inquadrarti in una fattispecie. Non saprei proferirti quale sia la tua, la nostra, ma probabilmente penserebbe che tu non abbia avuto abbastanza amore materno o paterno, non so! Potrebbero anche abbinare a tale carenza, una insicurezza di fondo dovuta forse all’essere vissuto senza riferimenti.
 
LVII A. Divertiamoci pure con questi giochetti di analisi gratuita, ma la questione va inquadrata in tutt’altra maniera. La verità è che non conosciamo cosa realmente ci ha spinto ad esagerare nel forzare la nostra natura. Nel mio caso, saranno state le interminabili giornate trascorse nei campi di viti, col corpo a sudare e ad abbeverarsi dal trastullo degli elementi, mentre la mente volava come il colibrì da un dilemma all’altro.
 
LVIII B. Cosa credi di aver ottenuto con tale atteggiamento? Hai trascurato gli anni più belli della tua esistenza, la giovinezza, illudendoti che fosse eterna. In un batter d’occhio ti sei ritrovato over gli anta, i tuoi bollori, le fiere passioni sembrano esserti scivolate addosso. Non ti ricoprono più di quella coltre, refrattaria alle avversità del corpo e dello spirito. Ora sei vestito di una stola  che il vento vuole portarti via. Sarai in grado di trattenerla fino in fondo?
 
LIX A. La tua è una metafora che non mi si addice.
Se vivessi cento, mille volte, persevererei a vivere allo stesso modo. Ma di cosa mi gioverei se pure avessi trascorso molto più tempo, che so, in discoteche,  o allegorie simili? Sarebbero comunque passate e quando una cosa è alle spalle, è come se non ci fosse mai stata. La conoscenza, quella si è la sola cosa che ti lascia qualche strascico.
 
LX B. Qualche cicatrice vorrai dire. Non ti rendi conto che proprio il fiele del sapere ti ha roso dentro, ti ha privato delle papille capaci di gustare i sapori dell’abbandono, delle tenere, frivoli, mondane gioie?
 
LXI A. A volte ho l’impressione che noi due non ci capiamo come dovremmo; è come se parlassimo un altro linguaggio. Io o te,  predominiamo l’uno sull’altro. Sembra che l’uno voglia sopraffare l’altro con le sue manie esistenziali, o con il suo pragmatismo  esagerato.
 
LXII B. E’ frutto dell’individualismo. Nonostante gli ottimi propositi non ci scrolliamo di dosso tali attriti.
 
LXIII A. Ritieni che per esempio gli avari, i tirchi, tutti coloro che assumono un modo di essere come se fossero dei fissati, è perché non hanno in loro quella differenziazione sostanziale capace di ridimensionare ogni convincimento?
 
LXIV B. Si lasciano suggestionare facilmente. Comunque non è importante parlare degli esseri umani. In genere la maggior parte di loro mi ha deluso. Spesso sono stato inorridito dalle loro scelte, dai comportamenti crudeli ed assurdi; a volte insensati e privi di qualsiasi atteggiamento razionale.
 
LXV A. Su quanto dici, mi trovi abbastanza d’accordo, anche se avrei delle riserve in proposito.
Certo se volessimo riferirci, ad esempio, alla stupidità di ritenere un discendente di qualcuno che governa, legittimamente deputo a farlo sarebbe da ridere, se non fosse per la drammaticità della questione. Come si può ritenere un chicche sia, solo perché figlio di un re, un grosso industriale ecc. avere titolo a governare l’impero ereditato. Milioni di persone che sottostanno ad un potenziale incapace.
 
LXVI B. Eppure il mondo è sopravvissuto in questo modo per tanto tempo. Qui emerge un grande quesito al quale mai è stata data una risposta soddisfacente, ossia, l’uomo apprende e questo fa si che egli modifichi, migliori le cose nel suo contesto? Non sembra  verosimile che pensi solo all’immediato benessere o a quello che sembri tale?  In altri termini, nonostante la storia ci abbia insegnato quanto vani ed assurdi siano state determinate scelte, si continui a sbagliare  in modo atroce. Per quanto concerne l’ereditarietà dei titoli, sarebbe stata una pagina ormai alle spalle, se la visione eterogenea del nostro tempo avesse contribuito ad insegnare a tutti quanto ipocrite siano tali accondiscendimenti.
 
LXVII A. Visto che ti stai soffermando a questo aspetto delle cose nel nostro mondo, si deve aggiungere che non è giusta qualsiasi cosa materiale superflua ricevuta in eredità. Mi dici perché sarebbe legittimo, per esempio, che anche nella nostra bella, democratica Italia, i tanti ricchi abbiano tutte le strade spianate a livello di studio, di carriera, mentre molti altri debbono sgobbare perché non hanno un Santo in paradiso?
 
LXVIII B. Alla tua domando rispondo con un’ulteriore quesito. Se qualcuno, invece di essere nato e vissuto in un contesto di ignoranza, di precarietà economica, avesse respirato aria erudita; quanto sarebbe diverso tale individuo?
 
LXIX A. Caro amico, fatte le debite proporzioni, comunque anche noi rispetto a tanti altri possiamo ritenerci dei privilegiati, ma ciò nonostante, non mi sembra che disseminiamo benessere.
 
LXX B. E’ anche difficile che questo possa accadere, perché vi sono ulteriori aspetti di cui tenere conto, ossia, in che modo realmente potremmo ritenerci utile per l’umanità; inoltre, guardando la questione sotto altre angolature, emergono delle visioni agghiaccianti!
 
LXXI A. Non farmi paura, forse intuisco a cosa stai alludendo, ma queste cose, per la nostra cultura, forse non sarebbe il caso di raccontarle neanche a noi stessi.
 
LXXII B. Hai intuito bene e non deve esistere che tra noi  ci si debba astenere da qualsiasi, qualunque riflessione, per quanto apparentemente raccapricciante possa sembrare. Inoltre le nostre sono solo delle supposizioni, niente di categorico.
Primo quesito: è giusto o no che la scienza venga messa a disposizione, senza nessun criterio, dell’umanità, per un benessere di poche generazioni, a scapito dell’habitat, della stessa sopravvivenza del genere umano?
 
LXXIII A. Impostata cosi la domanda sarebbe logico rispondere, no non è giusto, la terra, pianeta meraviglioso ed emblematico, ha consentito che sulla sua coltre si generasse la sua anima, la propria consapevolezza, e proprio questa ha fatto in modo che la distruggesse.
 
LXXIV B. Ma il succo, l’anima della terra non è l’uomo? Seppure ciò accadesse, avrebbe comunque raggiunto lo scopo, non ti pare? E poi, perché si deve ritenere che col degrado dell’habitat debba svanire anche “l’essere pensante”? Proprio per la sua grande capacità, egli sarà in grado di fronteggiare ogni pericolo che incomberà sulla sua specie.
 
LXXV A. Questo è un grande atto di fede che si accomuna a quello metafisico. Infatti, ogni possibile ragionamento porta a far temere il peggio. Mi dici ad esempio, perché ogni allevatore che si rispetti debba scegliere i capi per la riproduzione in base a criteri indiscussi quali la morfologia, la robustezza, perché garanzia probabilistica di prole altrettanto sana, e ciò non debba essere valido anche per la specie umana?
 
LXXVI B. Sono subentrati dei fattori che prescindono dalle antiche attrattive. O meglio, ancora, per fortuna, l’attrazione fisica avviene anche in base a criteri morfologici, ma tali canoni stanno svanendo, forse anche per forza maggiore.
 
LXXVII A. Non ho compreso bene a cosa tu voglia insinuare con quel “per forza maggiore”, vuoi sostenere che si hanno sempre meno opportunità d’incontro con esemplari “belli”?
 
LXXVIII  B. Hai centrato. Questo problema ha diverse cause. In primo luogo, i belli stanno sempre più estinguendosi. D’altronde è logico che ciò accada, infatti, sopravvivendo quasi tutti i nati nei paesi occidentali, questi, spesso “malaticci”, invocheranno il diritto in ogni modo, di proliferare a loro volta, con la conseguenza che i nati saranno sempre più imperfetti, più brutti , più malaticci; ecco l’ho detto. L’apice di quanto accennato si individua nella clonazione. Guai a parlare di queste cose in giro, rischiamo come minimo di essere linciati.
L’inquisizione, in forma diversa, sussiste e aleggia anche nella nostra epoca.
 
LXXIX A. Questo accade perché “si tira a campare”, ogni individuo vede la sua esistenza come se fosse quell’inezia del tempo della sua vita. Egli, se non per slogan televisivi, se ne frega di cosa accadrà tra cento anni, tanto lui non ci sarà. Qualcuno, cercando di sensibilizzare, ricorda che la nostra eredità viene raccolta dai figli. Ma evidentemente anche di costoro ce ne freghiamo.
 
LXXX B. Forse più che fregarcene, crediamo di pensare al loro benessere con l’accumulo di beni materiali  o di  opportunità lasciate in eredità.
 
LXXXI A. caro mio, è ancora più tragica la verità. Nessuno se ne frega di nessuno, neanche dei propri figli, dei propri genitori. Ogni cosa si faccia è in definitiva per se stessi.
Cosa credi, che coloro che si dedicano in modo apparentemente altruistico, non abbiano, o sperano di avere in qualche modo un tornaconto? Prendi  coloro che fanno del bene ispirandosi ad una religione, non è forse per garantirsi un posto privilegiato in un’altra vita?
 
LXXXII B. Quanta carne sul fuoco stai mettendo, dove vuoi andare a parare con questi discorsi nichilisti? Almeno proponi qualcosa se ne sei capace.
 
LXXXIII A. Non saprei proprio, perché non sono i propositi, le idee che mancano, ma l’enorme difficoltà affinché queste possano attecchire nelle società. Vedi in che modo miserabile sono fallite le grandi ideologie nella storia. Il comunismo, ad esempio, erano gli ideali di Marx ad essere non auspicabili, oppure l’impossibilità che essi potessero attecchire in qualsivoglia società. A cosa giova che si auspichi che la scienza fornisca fonte di idilliaca ispirazione, non per il barbarico scempio del pianeta, ma della sopravvivenza della nostra idealità?
 
LXXXIV A.
Caro A., le elucubrazioni del momento si discosteranno dalle precedenti. Come l’uomo sazio parla della fame come qualcosa che non gli appartiene e non è veritiero ciò che dice, così colui che tratta del dolore altrui, lo fa formulando dei pensieri differenti da quelli di chi realmente soffre.
 
LXXXV B. Condivido.
 
LXXXVI A. E’ chiaro in queste circostanze predomini l’interrogativo di quale sia realmente il senso della vita.
Conosciamo in modo limitato la passione terrena. Tale limitazione è segnata nei nostri geni, nell’istinto di sopravvivenza. I sani non riescono a prescindere dalla necessaria superficialità con cui i dolori vengono affrontati.
 
LXXXVII B. E’ possibile che sia un atteggiamento cinico il nostro? Forse dovevamo lasciarci prendere la mano e affrancarci nel caldo refrigerio di un pianto liberatorio? Ma sia l’uno che l’altro atteggiamento rimangono sempre ragionati, premeditati. Questo modo di essere è distante da quello a noi consueto, non credi?
 
LXXXVIII A. E’ vero, il riflettere molto diviene un’arma che infierisce contro se stessi. Fa si che ci si allontani dagli appagamenti religiosi. La cultura aiuta a rappresentare una visione più reale dei problemi. Anche questo contribuisce ad allontanarci da una gradevole illusione.
 
LXXXIX B. A volte non gradevole; forse non illusione.
 
XC A. Queste pensieri devono riflettere il massimo a noi consentito, per quanto concerne una visione dell’ordine delle cose, del senso della vita, della realtà nella quale rientri anche una possibile visione metafisica.
 
XCI B. E’ giusto che sia così, altrimenti rappresenteremmo solo un effimero tratto della nostra debolezza che esiste, fa parte della nostra realtà
 
XCII A. Dove sono andate a finire le nostre potenzialità critiche? Nota, che scarna capacità abbiamo in noi di estrapolare argomenti importanti, confutarli. Eppure sappiamo entrambi d’esserne capaci; ne abbiamo esile ricordo.
XCIII B. forse tante pensieri, ma che in fondo hanno già una risposta, una connotazione aberrante, forviante  dell’esistenza. Rifletti un attimo, sapendo della carica di cui eravamo pregni negli anni di maggiore enfasi. Ora è come se le batterie si fossero scaricate. Quella poca energia rimasta vorremmo adoperarla al meglio, ma non ne abbiamo la voglia, la capacità. Quei tanti artisti, poeti, letterati che nel corso della loro esistenza hanno dato tanto del loro talento, forse andrebbero menzionati  con maggiore onore.
Cosa abbiamo fatto noi? Il solito passaggio del testimone da una generazione all’altra. Contribuendo anche significativamente all’alienazione della cosiddetta vita sulla terra.
 
XCIV A. Avremmo fatto meglio a rimanere a letto oggi. Il pessimismo che trapela da queste parole, lo si può tagliare col coltello. Pensa in positivo, come si suole dire.
 
XCV B. Ossia, metti una benda agli occhi ed alla mente e fai finta che non ci sia la caducità della vita. Che essa basi  il senso di se su astratte idee  di perfezioni, scordando il colabrodo da cui proviene?
 
XCVI A Vi fu un tizio tanto tempo fa, il quale, rendendosi conto che ogni movimento avesse fatto, avrebbe potuto uccidere un essere seppure microscopico, si fermò e si lasciò morire sul posto dove aveva meditato tale pensiero.
Se ricordo bene fu fatto santo, ma non so se per tali nobili, se pur discutibili concetti.
Il timore era quello di non continuare col suo operato ad inorridire la terra, i quali occupanti, a causa di un loro modo intrinseco di essere,  ammazzano, dilaniano altri corpi per la propria sopravvivenza o per la sola grande malvagità di cui sono spesso pregni.
Non so quanti riflettano su queste cose. Quanti sono, seppur vittime e artefici di tali misfatti, comunque consapevoli!
 
XCVII B La consapevolezza spesso fluttua, di giorno ingannata dai sensi, di notte sopraffatta dalla coscienza, se esiste. Voglio dire che rendersi conto di una qualche malvagità, non significa remarci automaticamente contro. O meglio, nel tumulto di se stessi, affiorano scrupoli messi a tacere dalle discutibili attenuanti. Nel corso della notte, quando, paradossalmente, è la realtà vera ad emergere, l’ignaro individuo, coercizzato da se stesso, colui che non vuol girare le spalle alla realtà, si vergogna della propria natura. Non abbiamo colpa della nostra natura?
 
XCIX B Si è  raggiunto forse il cuore della torta, la parte più saporita o più emblematica, il pezzo oltre il quale vi è solo la fine del gusto, forse anche della capacità di assaporare, l’alienazione o il principio di un’altra realtà.
100 A Ci siamo persi, vedi quando ti dicevo di appuntarti i concetti che ci venivano nelle occasioni più disparate!
 
Credo che tu voglia alludere al dilemma del senso della nostra esistenza, il nocciolo della questione, il centro della torta che dir si voglia.
 
101 B Proprio così, abbiamo già accennato alla questione, ma questa deve essere ampliata, graffiata, modellata..
 
104 A E’ vero, anche perché la parte certamente biologica che è in noi, quella che da giovani ci lascia esultare dei piaceri della vita; la stessa ci appare comunque così lunga e piena di potenzialità, nonostante i rigidi concetti statistici, sta esaurendosi. Ora, essendo stata consumata in gran parte e del sapore migliore,  intravede il bivio concettuale e non sa dove orientare il proprio intendimento.
 
105 B Non ci sono molte scelte. La vita biologica, ora è ancora più evidente, è una schifezza, una vera e grande fregatura. Altro che  dono! .Se fosse tale non doveva detenere la particolarità della durata. Un regalo è per sempre, ci si affeziona, si soffre al pensiero che si possa perderlo. L’illusione di noi stessi, così proiettati all’infinito, ghettizzata in un corpo succube di ogni pena. E’ questa la tragedia per antonomasia!
 
106 A Hai scoperto l’acqua calda. Cosa avrai fatto in tutti questi anni col tuo pensare. Avraii criticato tanto le masse perché si illudevano, dici, con le religioni o con le stupide credenze popolari, ed ora magari le invidi perché non sei pervenuto a nulla di diverso. Il bivio che tu dici dove può portare?
 
107 B Nella natura in cui mi trovo posso supporre che, se dovessimo sperare che il dramma in questione finisca con l’alienazione della coscienza, forse sarebbe la soluzione migliore. L’assurdo è che questa possibilità è la meno auspicata dal desiderio d’eternità.
 
108 A l’eternità come te la immagini, visto che ne parli cosi sovente?
 
109 B Come un abisso di possibilità. Ma più che immaginarmelo, in me ne ho quasi come un senso di certezza. Se vi fosse solo la realtà dell’immanente, comunque, come già accennato, sarebbe di per se già estremamente possibilista per ogni nostra immaginazione.
 
110 A Sicuramente è una grande ed inimmaginabile possibilità che il tutto provenga dal niente, o perlomeno da un qualcosa che nell’immaginario collettivo si assomiglia; il vuoto cosmico. Rifletti un attimo, trovi un senso nel fatto che l’energia contenuta in chissà quale forma nell'intrinseco,
la quale non credo si abbia modo di disgiungerla dal concetto di cosa inesistente, avrebbe architettato, non si capisce come e perché, per svilupparsi ed arrivare fino alla materia umana; creare la coscienza.
 
111 B Quanto dici è strano, o per lo meno non si concepisce il fatto che una sorta di energia, o comunque la si voglia chiamare, capace di concepire la nostra coscienza, abbia potuto dar luogo ad una possibilità affinché questa possa sorgere e svilupparsi, apparentemente in modo di gran lungo imperfetto rispetto “all’idea progettuale”.
 
112 A A questo punto dovremmo smetterla di confutare e magari provare a bussare alla porta dell’ipotetico ideatore al fine di fornirci qualche chiarimento.
L’idea mi sembra buona, ma cosa gli vorresti chiedere? E come vorresti chiamarlo?
 
113 B proviamo con Dio di Potenza e di Gloria, anche se non so raffigurarmi nel modo più assoluto una tale inaudita rappresentazione. Comunque, proviamoci.
 
 114 A Se esisti, quello che tu sei andrà di gran lunga oltre ogni umana immaginazione. Se tu sei tutto, immagino mi comprenda, sarei anch’io parte di te. Ma in questo vi è un assurdo, ossia, una parte di un infinito, è anche tale. Sarei anch’io infinito.
 
115 B Si noi siamo un infinito delimitato dalla nostra capacità di espressione, di intendimento, di cultura. Il nostro corpo è paradossalmente il nostro limite, è il filtro tra l’ignoto e la coscienza, tra Dio, se vuoi, e la nostra miseria.
 
116 A Non ti sembra che queste speculazioni siano simili a quelle che trapelano dai testi sacri?
 
117 B Alcune probabilmente si, ma altre potrebbero nascere, se solo ci convincessimo che ciò è possibile.
Immaginati il corpo come un imbuto, da un lato, dalla parte larga, vi è l’ignoto, dalla parte stretta è come  se fosse posta  tutta l’immaginazione di cui siamo capaci. Quel poco che trapela è la nostra consapevolezza. Ovviamente la parte stretta dell’imbuto ha una larghezza variabile. È la nostra soggettività. Credo anche che la volontà possa influire in parte ad allargare tale condotto. Se volessimo ampliare il concetto, lo stesso vale per ogni forma vivente, il loro condotto auricolare dell’infinito è semplicemente diverso, forse più angusto, forse non in grado di formare una coscienza importante, chissà.
 
118 A Ma parlami del paradosso dell’infinito finito, ossia dell’esigenza di esserlo!
 
119 B Come ti dicevo, se Dio fosse infinito e tale concetto assume l’idea di qualcosa che non ha principio ne fine, perde di ogni significato. Se una forma, una parte di esso prende coscienza di tale limite, viene assalito dall’esigenza di crearsi un mondo che potrà tendere all’infinito, ma deve iniziare da qualche parte.
 
120 A Questa parte è noi stessi. Con questo non si esclude certo l’inesistenza di qualunque ulteriore e differente parte, ma di noi abbiamo un certo controllo, una qualche capacità affinché possa acquisire concetti nuovi, diversi. Il Dio delle piccole cose Potremmo essere noi quando facciamo degli esperimenti al fine di capire chi siamo. Immagina se delegassimo ad una sorta di catena di S.Antonio la ricerca della "“Gnosi”, si amplificherebbero le possibilità. È un metodo ma non l’unico. Noi potremmo anche essere una maglia della catena di tale catena, di un’entità con un livello maggiore, o molto più elevato che, se si vuole, è il nostro Dio. Non può venire a dircelo, non lo capiremmo. Il paradosso è che egli avrebbe bisogno di noi come noi di lui.
 
121 B Nella vita soltanto?
 
122 A Ecco, ci risiamo, vuoi attaccarti a tutto pur di sperare che la tua “vita” non tramonti con la vita. Abbiamo prima accennato che l’auspicio migliore sarebbe proprio quello di svanire, perché non siamo in grado di concepire nessun’altra dimensione oltre al bieco vivere terreno.  Noi per “ritrovarci” abbiamo bisogno di sicurezza, certezza. Nell’universo dell’ignoto tutto questo svanisce, e se dovesse sopravvivere la paura, l’angoscia, il senso del tempo e dello spazio come ora, saremmo “fottuti”. Tale “senso di esserci”, ci farebbe veramente perdere nel senno, vagare nell’ignoto come in una sorta di moderno inferno dantesco.
 
123 B Be, non ci sarebbe neanche bisogno di scomodare l’ignoto per tribolare dalla paura e dal senso di panico. Basterebbe immaginare di viaggiare tra le cose delle quali un’idea veritiera ce la siamo fatto; lo spazio interstellare.
Miliardi di chilometri di vuoto, di buio e di grandi luci, di calore d’afa infernale e di freddo indescrivibile. E noi li a viaggiare per scoprire mondi di ogni genere, pianeti abitati e non. Forze gravitazionali assurde, pazzesche, milioni di volte quella terrestre, e altrettanto più basse. Solo l’idea di ciò fa rabbrividire se ad osservare tali fenomeni nuovi, esistenti per certo, andassimo con le nostre pantofole e nelle nostre cognizioni.
 
124 A Allora come ci andiamo. Se mi dici di fare un viaggio in montagna, mi preparo gli scarponi, l’equipaggiamento da sci, mi alleno un po’ e sono pronto, ma se mi dici di farmi un viaggio tra le stelle, quello di Giulio Verne farebbe sorridere!
 
125 B L’unico modo per prepararci è quello di immaginare con tutta la nostra potenzialità, con tranquillità, senza mai vacillare, impazzire. Certo sperare che il, o un nostro protettore possa darci una mano. Non guasterebbe, anzi, visto come siamo piccoli e neri, ben venga, ma che non sia un appiglio unico.
 
126 A Immagina quante persone hanno provato come noi a tentare di conservare la memoria affidandola alla scrittura, all’apporto cartaceo. Basta che ci guardiamo attorno e scopriamo milioni di libri semicontemporanei. I nostri sconosciuti avi, i più capaci o fortunati, hanno inciso di tutto, pietre, papiri. Qual è stato il risultato della loro speranza? Nel duemila diciamo, siamo nel XXI secolo, cose dette così o cosà non servono più a niente. O espressioni simili. Lo stesso avranno detto nel XX secolo e così via.
 
127 B E’ servito a far crescere la conoscenza, non trovi? Se non ci fossero stati tanti piccoli apporti e messi insieme, adesso non saremmo approdati sulla Luna, su Marte. Le tante informazioni collaborano per lasciare emergere un unico, grande quadro, la conoscenza.
 
128 A Al servizio di chi viene posta questa allettante torta? Se tutto va bene, il savio di turno prova a carpire qualche utile consiglio per far si che mediti più appropriatamente. Ma di massima non serve a niente. Anzi sarò ancora più drastico, tutto ciò è deleterio per l’ambiente in cui viviamo.
Se non si fosse a conoscenza di determinate cose, non avremmo costruito le macchine, prodotto l’inquinamento, sovra popolato il pianeta.
 
129 B Sembra quasi che tu voglia dar ragione a quei popoli che normalmente critichiamo per il loro sottosviluppo, per la loro apparentemente arcaica e conservatrice cultura.
Abbiamo infinite volte biasimato il loro comportamento le loro ideologie, ammesso ne abbiano una. Ora sembri ricrederti. Vivere come loro avrebbe significato qualcosa di diverso, di più importante per te?
 
130 A Non lo so! Faccio fatica a ritenere di essere il frutto di una cultura, di una sorta di modellamento che il contesto opera nei nostri riguardi. È vero che tutto lascia pensare che le cose stiano in questo modo. Se un negro, un cinese, fossero vissuti nella nostra provincia, avrebbero acquisito il nostro dialetto, le nostre abitudini. Sarebbero di massima simili a noi se non per l’aspetto fisico. Lo stesso ovviamente si potrebbe dire al contrario. Noi non avremmo mai avuto l’ardire, la capacità di scrivere queste righe se fossimo nati solo qualche decennio fa, o anche qualche chilometro più in là.
 
131 B Possibile che se  fossimo vissuti nell’america delle piantagioni di cotone, tu ed io avremmo ritenuto possibile pensare che i negri fossero una sorta di uomo, come dire, declassato a rango di bestia. Non solo, avremmo dovuto ritenere che la loro vita, il loro dolore valesse meno di niente, non dico di un animale, perché anche a costoro bisogna riconoscere tanto rispetto.
Per fare un altro esempio ancora più prossimo alle nostre coscienze, il razziamo nazista; come credi sia possibile che ci possa solo sfiorare l’idea di esserci comportati come loro, se solo fossimo vissuti nel loro territorio. È semplicemente ridicolo il concetto della razza ariana.
 
132 A Da queste ultime battute emergono sicuramente diversi quesiti:
Non vi è prova biologica che una razza umana sia più evoluta di un’altra; ma se così fosse stato, avrebbe dovuto significare che la cosiddetta più evoluta avrebbe dovuto mettere in ombra, soffocare, torturare, annientare tutte le altre?
 
Evoluti poi cosa significa, che una razza ha delle attitudini diversi per certi aspetti, ma non per altri. La meno evoluta sarebbe paradossalmente quella che si crede superiore.
 
133 B Questi discorsi non avremmo dovuto mai neanche iniziarli. Sai bene che ci sono sembrati sempre assurdi, ipocriti. Abbiamo appena lasciato alle spalle il concetto di “gnosi” per antonomasia. L’idea più accreditata è stata quella, non di possedere una macchina biologica migliore, ma di staccarci da essa e fluttuare “nell’idea” necessitanti di ben altri mezzi; purtroppo ancora non ben noti.
 
134 A Ma stiamo agli antipodi della concettualità. Anzi, non sono neanche degni di nota i giudizi relativi alla razza ariana, ai negri e cosi via. Il dramma sta nel fatto che siano esistiti e che esistano ancora.
 
135 B Esistono e come! Anche tra coloro che sembrano ripudiare tale ipotesi nel loro modo di essere, di fatto è spesso latente una sorta di atteggiamento che porta a considerare il prossimo con sufficienza. L’egocentrismo è probabilmente una sorta di intrinseco carattere ereditario difficile da sradicare, se non impossibile.
 
136 A Che ci vuoi fare, bisogna imparare a convivere con esso. D’altronde, questo mistero della vita, è pregno di atteggiamenti irrazionali per la ragione. Altro esempio è proprio la capacità di vivere o sopravvivere nonostante il dramma della consapevolezza del dolore, delle malattie, della stessa, inesorabile alienazione. Pensa quanti “alienati” si avrebbero se non ci fosse l’istinto alla sopravvivenza. È cosi marcato che sorregge anche i malati terminali, gli anziani. Chi ne è privo è depresso. Nel paradosso più eclatante, quest’ultimo, spesso, cerca nell’annientamento della sua esistenza, la forza per sorreggersi di fronte al baratro delle anzidette paure ancestrali.
 
137 B Le paure debbono essere bilanciate dalle grandi colpe si abbiano in quanto esseri pensanti, nei riguardi dei propri simili, degli animali, dell’ambiente.
 
138 A Torni sempre su queste idee cosi astruse, prive di apparente significato. Me le proponi come un bambino fa con la propria madre, si raccapriccia, piange, vuole, si dispera. Te l’ho cercato di spiegare! La nostra natura è fatta in questo modo. L’alimentazione umana è onnivora, si mangia di tutto, vegetali e ahimé animali. Se non lo fai la tua macchina biologica non funziona bene, smettila con questi rammarici.
 
139 B. So bene che tu in fondo ti rattristi quanto me di queste cose. So che non siamo particolarmente colpevoli della nostra natura, se non per alcuni rari aspetti ma significativi.
 
140 A. Quanto l’essere umano può veramente essere capace di comprendere il mondo che lo circonda? In altri termini, qualcuno è in grado di porre  un periscopio sopra lo scempio dell’essere circostante e lasciare che lo sguardo veda oltre la coltre di inaudita barbaria, di in frenabile orrore perpetrato dall’essere cosi detto intelligente?
 
142 A. caro Lew credo che dovremo accingerci ad analizzare un pensiero profondo e per certi versi affine, almeno per la natura biologica vicina. Si tratta di mio fratello.
Gli ho proposto il nostro dialogo e mi ha risposto con la seguente missiva: Analizziamola insieme e dopo, caso mai la commentiamo.
 
 
 
 
 
 
                          
 
 
 
 
 
 
                                      LETTERA APERTA AD UN FRATELLO LONTANO
 
 
 
                  Nei giorni passati ho avuto modo di leggere il tuo elaborato, nel quale, ti lasci andare, in modo indiretto,  ad una  analisi  della tua personalità, affrontando i quesiti che ancora  oggi  sono senza apparente risposta.
                  In questo tuo modo di procedere, ho letto fra le righe una forte sofferenza interiore, che ti porti avanti da tempo  e che, purtroppo, tenderà sempre di più, con il passare degli anni e l’arrivo della senilità, ad  essere più marcata.
                  Se da un lato è da elogiare questa tua  spiccata voglia di  interrogarsi e interrogare, dall’altra è condannabile  l’approccio in cui hai nell’affrontare i quesiti metafisici.
                      
                   Partire dal presupposto che non esiste un Essere  al di sopra della nostra gretta vita che, nel trascendentale, vigila  al di sopra di tutti è  opinabile sicuramente, ma per quanto mi riguarda limitativo. Una  persona che ha fede parte già dal presupposto che questo Essere esista e affronta ogni problematica in questo contesto.
 
                    L’essere umano, fin dai tempi dell’antichità ha avuto bisogno di un  Essere superiore a cui rivolgersi nei momenti di maggior bisogno. Questo bisogno di protezione da un’Entità superiore  fa capire, ancora oggi, che l’uomo  è poca, ma proprio poca cosa nel disegno  del creato.
                    Mettere l’uomo sempre e comunque in primo piano  in ogni vicenda terrena, esaltandosi al di sopra di tutti ha creato quell’egocentrismo , causa di tutti i mali  terreni.
                    Ricordo un passaggio di uno scritto, in cui si interrogava l’interlocutore  sui rischi di una escalation nucleare che avrebbe portato alla distruzione totale della razza umana.  Quest’ultimo ebbe a rispondere: “ SIAMO SICURI CHE LA TOTALE DISTRUZIONE DELLA RAZZA UMANA SIA UN COSI’ GRAVE DANNO PER IL PIANETA  TERRA?”.
                     Analizzando questa risposta, è facile intuire quanto  l’evoluzione umana  ha fatto del male al pianeta terra e quanto possa essere non necessaria la nostra presenza nel futuro. Basti pensare che l’uomo  è apparso sul pianeta terra l’altro ieri, quando già l’universo esisteva da miliardi di anni.
                      La malvagità umana finirà per soffocarci, se non riusciremo a capire che solo nella ricerca della purezza dello  spirito, con una condotta di vita che si avvicini il più possibile all’esempio lasciato dai  Santi di ogni tempo, può portare l’uomo alla salvezza, nella speranza che un segno Divino dia la forza finale per  la certezza di ogni cosa.  
                       Certo i dubbi permango, ma, a mio parere, non esistono altre vie, oltre a questa, per il raggiungimento di un equilibrio e pace interiore che  possa dare le risposte sperate. 
                       Si può obbiettare sul modo in cui un cattolico affronta  questa via,  ma questo non deve distogliere dal fine ultimo che è il  raggiungimento del sommo bene.
                       Non vi sono costrizioni di sorta esterne nel  determinarsi tra il bene o il male.         
 
                       Entrambi sono a portata di mano, basta coglierli. Le direttive sono tracciate, senza costrizioni nel seguirle. La vera difficoltà consiste nel voler seguire detta strada, ma non riuscire a perseguirla, per mancanza di una vera predisposizione d’animo che porti  a questo.
                       Seneca scriveva che vivere tormentato dalla doppia personalità di cui tu fai cenno; non riuscire a dare  uno sbocco concreto al  proprio modo di vivere, è ancora peggio che vivere ignaro di tutto, avendo come aggravante il fatto di vedere tracciata comunque la retta via, ma non avere il coraggio di seguirla per i troppi dubbi che ti assalgono.
                       Le azioni negative messe in campo  quotidianamente, che  contrastano con il pensiero   filosofico più retto di cui  ci pregiamo di conoscere, danno l’idea della nostra pochezza di virtù.
                        Il cattolico, riconoscendo questa Entità superiore, ha comunque  il privilegio di chiedere perdono dei suoi peccati; l’ateo no; ma attenzione questo non vuole dire abusare di  questo, vuole dire soltanto riconoscere in modo genuino  questo Essere supremo che noi chiamiamo Dio e prostrarsi a Lui.
                        Analizzare questa Sua esistenza, vuol dire  intanto presumere di avere un “ IO” talmente forte da potersi  porre questo quesito per innalzarsi al Suo pari. Inoltre vuol dire non avere abbastanza fede  nel concepire  la natura Divina e trascendentale  dell’Essere che noi  adoriamo.
                         Sono però sicuro  che anche l’ateo più convinto, durante la sua breve esistenza, in alcuni momenti, ha avuto bisogno di appellarsi a  questa Entità, senza poterlo manifestare apertamente, facendolo sentire ancora più solo e perso.
                           La nostra breve  vita è costellata  di continue illusioni, inseguendole continuamente, in un giro senza fine e,  quando ci fermiamo, ci accorgiamo di essere giunti al capolinea senza  aver goduto pienamente del tempo concessoci.
                            Per quanto mi riguarda il segreto  è tutto qui, non  costruisco castelli in aria, cerco di condurre una vita equilibrata il più possibile, senza eccessi, tenendo ben presente sempre  i riferimenti che dà la chiesa cattolica, anche se sono consapevole  che è molto difficile rispettarli, in un mondo pieno di malvagità ed egoismo diffuso.  
                             La  tua ricerca di eternità e voglia di infinito potrà essere esaudita solo con il riconoscere il Dio supremo, in quanto  intuisco che  questa ricerca perenne, al di fuori del cristianesimo, sarà sempre fonte di parecchia  frustrazione.  Pensare ad una trasformazione dell’essere umano, dopo la morte, in qualcosa di diverso, è comunque  gratificante  per un cattolico. Abbandonare un corpo materiale per vivere in un’altra dimensione  è così affascinante che comunque è già gratificante pensarlo; quando poi viene dato come  promessa di vita eterna in altra dimensione, non si può pensare che a  qualcosa di divino. D'altronde pensare al nulla dopo la morte è ancora più frustrante per ogni ateo.   Si lo so, puoi pensare che la stragrande maggioranza dei cattolici usi questo stratagemma,  mettendo la testa sotto la sabbia,  facendosi conforto di una tale soluzione. Ma anche se fosse così, questo non ti farebbe capire quanto piccola cosa  è l’essere umano  in generale in confronto al creato?  
                           
 
 
 
                        Vedi Antonio, la tua oscura ribellione, il continuare comunque a porsi domande senza trovare risposte,  in modo così esasperante, in ogni momento della tua esistenza, non  potrà  risparmiarti  dal rientrare in  un disegno Divino già scritto da tempo.  La soluzione, prendendo anche ad esempio i più grandi pensatori e scienziati di ogni tempo, è quella di  prostrasi a questo disegno Divino, accettando con gratitudine,  anche nel campo scientifico, quanto ci viene concesso di sapere dal Creatore del mondo, con serenità ed equilibrio interiore.  Raggiunto  questo equilibrio,  si può soltanto migliorare.                
                          Infine ti voglio dire di non crucciarti se nella  vita di ogni giorno non trovi persone che stimolino questa tua curiosità,  accettando  il confronto nel dialogo.  Purtroppo l’essere umano è così preso  dai  problemi materiali di tutti i giorni che non concede quasi nulla al pensiero metafisico.
                           Ma anche lui, nella sua vita, attraverso le esperienze negative o positive che riceve personalmente,  fa esperienza di vita che lo pongono di fronte a dei quesiti.
                           Penso alla tua ultima esperienza negativa  che purtroppo hai dovuto subire, in quanto padre.  Non so come  detta esperienza abbia influito nel tuo animo, anche se trapela. Ti posso dire che un cattolico, quale mi sento di essere, avrebbe ricevuto da tale esperienza una forza  ancora più forte per poter andare avanti nella sua vita spirituale,  prostrandosi ancora più umilmente al cospetto del  Signore. Certo di fronte ad una soluzione diversa  e ancora più negativa di tale dramma  si può solo uscire ancora più rafforzati o soccombere, a seconda della propria personalità spirituale.
                            Concludo affermando che   nella  nostra breve esistenza bisogna essere coerenti con il proprio modo di pensare,  per questo bisogna, giorno dopo giorno dimostrarlo, con azioni concrete. 
                              Saluti   e  fammi sapere come si evolve il tuo pensiero, ma non per telefono.
 
                                                                                                          tuo   fratello
 
 
 
 
 
 
 
 
Commenti alla lettera
 
143  B Allora cosa ne pensi?
144 A   Abbiamo capito dalla missiva diverse cose non credi?
 
146 B Senza alcun dubbio si. Per prima cosa mi voglio  congratulare per la forma chiara e dell’impeccabile italiano.
 
147 A Sicuramente si, non si spiegherebbe diversamente perché leggendo queste righe, gente anche con una notevole cultura non  capisce. È vero che non ce ne importa un gran che, ma se vogliamo sperare di allacciare un dialogo, dobbiamo pur tentare di essere più chiari.
 
148 B Certo è un brutto colpo scoprire che neanche il proprio fratello abbia compreso fino in fondo il senso del tuo dire.
 
149 A Perché pensi che mio fratello non ci abbia ben compreso? Ti prego, sii più chiaro.
 
150 B Ti sembra “condannabile il nostro approccio coi problemi metafisici?
 
151 A Al massimo può essere discutibile, ma guai a condannare chicchessia per queste questioni, ci ghettizzeremmo sempre di più nella nostra misera possibilità d’approccio a tali argomenti.
 
 
152 B Il metafisico è il cuore del nostro travaglio e guai a ritenere che un metodo sia, come dire, blasfemo, osteggiativo per il nostro misero senno. Sarebbe come un bimbo che si accinge a sollevare una montagna e qualcuno volesse ulteriormente ostacolarlo con una serie di impedimenti.
 
153 A Ma lui cercava di farci notare che la capacità umana è esigua per sostenere l’enorme peso delle nostre paure. È molto più facile poggiarsi sul gradevole guanciale di una religione e far si che questa ci culli fino alla fine della nostra avventura.
 
154 B Mi sembra che comunque l’abbiamo detto di quanto sia difficile contenere il nostro stato d’animo di fronte alla caducità dell’esistenza, ma al contempo, è osceno non provare al massimo della nostra potenzialità tentare di capire come stanno le cose.
 
155 A Ma quando hai capito di non aver capito niente di come stanno queste cose e nel frattempo la vita ti è passata d’avanti come d’incanto; quando scopri che un brutto male o semplicemente il conto degli anni ti mostra l’incerta porta del trapasso, dove andrai a poggiare il tuo capino? Sul guanciale irto di spine, frutto delle tue semine infruttuose, forse?
 
156 B Io mi ci ritrovo gia. Sono di sicuro degli anni e dei momenti difficili. Ma è probabile che lo siano per tutti, perché pur quando si è convinti di fare un viaggio verso la più allettante delle mete, nonostante ciò, nel momento della partenza si scopre di avere un forte magone che ti assale dal di dentro. Tutto ti sembra meno sicuro. Anche se ci tenevi tantissimo, rischi di strappare il biglietto e rimanere nel tuo misero paese fatto di niente, ma sicuro.
 
157 A  Aiutami a capire come si possa partire dal presupposto che Dio esista? Deve bastare la fede, necessiterà la ragione, o suggeriscimi perché si debba ritenere che debba esistere un creatore?
 
 
158 B Molto semplicemente perché pensiamo a delle cose enormi, ma di fatto non abbiamo molti mezzi per darci delle risposte. Vediamo subito che la vita è a dir poco effimera, l’unica alternativa sembra essere quella di immaginarci un protettore  che vada oltre ogni nostra concezione, che copra ogni paura.
 
159 A Ritieni che sia “ limitativa” una concezione dell’esistere senza trascendenza?
 
160 B La trascendenza per quanto riesca ad immaginare la riesco a concepire solo limitata e come dire, a stadi. Ogni forma d’esistenza, a qualunque livello si trovi, può essere trascendente a qualcun’altra e a sua volta trascesa.
 
161 A Non ti sembra che tale ipotesi sia una visione superficiale, oltre che banale dell’esistente?
 
162 B E’ probabile, ma devo fare i conti solo col mio senno e al momento don mi offre ulteriori visioni. D’altronde, circondato da una miriade di opinioni prive di senso, mi pare legittimo insinuare che le cose possano stare nel modo accennato sopra.
 
163 A Quindi, sarebbe tutto, per cosi dire, un divenire proveniente da una variazione dell’immanente?
 
164 B No, non dico questo, ma l’unica visione che collima con i nostri sensi è proprio questa, anche se si apre una strada infinita d’avanti e che potrà  rimettere ogni cosa in discussione, per fortuna.
 
165 A Spero che mio fratello , quando accennava alla visione dell’esistente da parte dell’ateo più convinto non si riferiva a noi, altrimenti veramente saremmo condannati all’incomprensione più totale.
 
166 B Ridiciamo subito allora che la nostra convinzione del momento è molto al di la di tanti, per così dire, credenti. Noi supponiamo verosimilmente che: in la, in qua, ma proprio in ogni luogo vi sia ogni cosa si immagini e non. È nella   nostra incapacità di concepirla la nostra limitazione.
 
167 A Di quanto da te asserito mi trova abbastanza convinto. Solo uno sprovveduto potrebbe limitare l’esistente nell’ambito del vivere quotidiano. La cosa che mi turba è : avrà opportunità il senso del nostro esistere, l’idea di  noi stessi,  di venirne a conoscenza?
 
168 B E’ un po’ come dire, vi può essere tutto il mondo possibile, ma se escludesse solo il senso del me, per noi sarebbe come se non esistesse.
 
169 A Proprio così. Sarebbe la cattiveria più grande che riesca ad immaginare.
 
170 A Potrebbe essere premeditata?
171 B Una premeditazione di tal genere presumerebbe l’idea di un ente ai nostri occhi malvagio. Ma se così fosse, sarebbe anche limitato, non ti pare?
 
172  A Siamo limitati noi, questo mi sembra più veritiero. L’idea di buono o cattivo, appena si distanzia dalle nostre esigenze, diviene tutta una speculazione filosofica. L’ente trascendente eventuale, avrà miliardi di modi per far girare le cose. Queste  ai nostri miseri occhi potranno sembrare giusti o sbagliati.
 
173 B Mi trovi d’accordo; ma dimmi, cosa ti fa credere che un divenire sia migliorativo rispetto al momento precedente? Se l’idea del buono o del cattivo è solo un’interpretazione del momento, allora anche il divenire non avrebbe senso, visto che non necessariamente potrebbe essere considerato migliore dell’attimo precedente. Addirittura il divenire potrebbe ritenersi più blando del momento prima.
 
174 A Tu immagini il divenire come una sorta di progresso cosmico. Noi intendiamo il progresso come un’insieme di conoscenze che portano nell’applicazione pratica ad un vita più agiata. Certo vi sono anche altri modi per definire il progresso; ma qualunque essi siano, non sono limitati ad una banale interpretazione opportunistica?
 
175 B Questa pare un’esagerazione. Lo studio, la scienza, hanno contribuito per gran parte all’innalzamento dell’uomo a rango di supervisore anche se del nostro “microcosmo”.
 
176 A Una supervisione molto pericolosa, visto che l’essere umano non è in grado di frenare il disastro che sta perpetrando ai danni del pianeta, mettendo in discussione anche la sua sopravvivenza.
 
177 B Scusa, ma la sopravvivenza di chi starebbe mettendo in pericolo? Non si è convenuto forse che al di la del nostro senso dell’Io può non importarci un fico secco?
Sarà questa l’opinione generale, quindi, via al vivere imminente nel migliore dei modi possibile. Ma poi, qual è questo modo così fantastico nel quale stiamo vivendo? Qualcuno forse, ma le masse, costrette nelle migliori ipotesi a sgobbare nelle fabbriche; uomini e donne incastonate nelle catene di montaggio che sottrae loro tutto il tempo, senza grandi momenti di umano vivere.
 
178 A Forse stai esagerando! Come puoi credere di farne a meno delle fabbriche con le loro efficienti catene di montaggio? Non tieni conto della competitività; gia andando avanti in questo modo ci vediamo soffiare gli affari dai cinesi,  africani e così via. Se escludiamo le catene di montaggio, stai sicuro che torneremo alla lotta della sopravvivenza arcaica, anche se mi dirai, sarebbe solo un altro modo di sollevarci “l’un contro l’altro armato”.
 
179 B Cosa vuoi che ti risponda, odio le catene di montaggio. Per me  l’essere umano dovrebbe impiegare l’esiguo tempo che gli è concesso all’arte, alla cultura a mansioni che lo soddisfino.
 
180 A Poi cosa mangerebbe, arte, cultura?
 
181 B Hai ragione, ma cosa vuoi che faccia. Non mi rassegnerei mai ad essere un anello in una catena di montaggio. Non mi rassegno neanche all’idea di essere un anello nella catena dell’evoluzione, guarda un poco?
 
182 A No, a questo devi proprio
rassegnarti. Prova a privare la tua mente di tutte le informazioni acquisite e vedrei come sarai in grado di portare avanti queste speculazioni filosofiche…………
 
 
 
 
 
                                                                         
 
 
 
 
 
 
Da quel breve contatto umano che aveva preceduto il dialogo, Adamo capì dell’epilogo del dramma umano col quale Lew stava avendo a che fare. D’altronde quel gesto di scaraventare nel fuoco “l’Anticristo” non lasciava dubbi. Adamo conosceva molto bene il contenuto di quel libro e degli altri dello stesso autore. Nella sua mente si manifestò un paragone, ossia, la figura di Nietzsche il quale personaggio aveva fortemente creduto in gioventù alla necessità che l’uomo debba fare a meno delle religioni, anzi, che queste siano deleterie e coercitive verso la mente umana, e quella di Lew.
 Probabilmente però il primo non seppe gestire i gracili mezzi del “senno” e scivolò nella pazzia; il vecchio invece sembrava ancora lucido nonostante i suoi ottanta anni.
Ormai Adamo non nutriva più disagio in quella dimora che stranamente sentiva come se le appartenesse un poco. Si alzò dalla panca che oramai era divenuta troppo dura per il suo fondoschiena, e si diresse verso la libreria più grande e meglio illuminata dalla scoppiettante fiamma del focolare.
 La gran parte dei libri erano girati, messi a casaccio, come lo sono di solito negli studi dei veri studiosi che conoscono ogni tomo da un minimo particolare e che prelevano di tanto in tanto uno spunto, un momento di riflessione da ognuno di essi.
Adamo non conoscendone le versioni e tanti altri di autori che non aveva avuto modo, nella sua istintiva ricerca,  di conoscere, era costretto a prendersi la libertà di toccarli, voltarli, sfogliarne il contenuto.
Il vecchio, notando  ancora un piccolo imbarazzo, gli disse:
<Fai pure ciò che vuoi, non ho messo nessun segno, oramai non lo faccio da tempo. I libri attendono pazienti che vada ancora a cercarli come ho fatto per tanto tempo; ma loro hanno tempo, io sento che quel poco che mi rimane debba farne un uso diverso. Ma non so cosa>
 Neanche il tempo di terminare quella frase che si sente bussare alla porta in un modo codificato.
<Ecco, è la mia governante alla pari, si chiama Ilaria e di tanto in tanto viene a trovarmi>
Adamo per esorcizzare il piccolo imbarazzo che era scaturito da quella imprevista visita, si offrì di andare ad aprire la porta.
<No, non c’è ne bisogno, è aperta; non la chiudo mai>. Disse Lew con fare tranquillo.
<Lo sapevo gia>. Pensò Il giovane, vergognandosi un po’ del gesto di aver sottratto il foglio giorni prima, dopo averne carpito le abitudini del vecchio.
Infatti, l’ospite, senza indugi, entra nella stanza pronunciando un radioso “buonasera”.
Ma la disinvoltura della giovane donna fu smorzata allorquando notò la presenza di Adamo che la guardava incuriosito.
Il vecchio filosofo intuendo il disagio, si fece forza, si alzò dalla comoda poltrona e rivolgendosi ad Ilaria disse:
<Ti presento Adamo. È un appassionato di filosofia, ma credo che abbia, per fortuna, un suo personalissimo modo di effettuarne la ricerca>
Fingendo vistosamente compiacimento, la donna porge la mano a quella di Adamo gia tesa ed esclama: <Non pensavo che il Professore avesse amici in questa città. Sono sei anni che lo frequento ed è la prima volta che viene a trovarlo qualcuno che non sia io o il medico>
Ilaria era una donna di un’apparente età di trentenni. Indossava un aderente paio di jeans ed una maglietta scollata bianca con sul petto una scritta che non lasciava dubbi su qualcuno dei suoi principi, “Peace”.
I capelli biondi colorati tagliati a caschetto, sciupavano un poco i regolari lineamenti del suo viso, ma  accentuavano la sua modesta altezza. Non sembrava nutrisse alcun che di timore per l’apparenza; infatti indossava un paio di scarpe da tennis, ovviamente basse, e non si notava nessun ornamento sul suo corpo.
Osservando sottocchio l’insolito ospite del professore, Ilaria, con civetteria propria da femmina, ne cercava per primo qualche attributo che lo facesse pendere o tra i “boni”, o tra  i  “discreti” oppure tra coloro che a mo di Virgilio erano nati per non essere curati dalle donne, ma che a mala pena li guardano e passano.
Dalle labbra strette e leggermente abbozzate a sorriso, sembrava che l’uomo non le dispiacesse; a prescindere dall’eterno fidanzato di buona famiglia che chiedeva ostinatamente di sposarlo.
Di certo al vecchio questo non dispiaceva, non poteva certo essere geloso alla sua età, anche se in alcuni rari momenti Ilaria aveva risvegliato in lui antichi desideri.
<Ilaria è una brava donna. Appartiene ad una associazione di volontariato, e tra le varie cose che fanno, vi è quella di portare un po’ di conforto psicologico alle persone anziane. Ti sarai accorto che in particolare nel caso mio ce n’è veramente bisogno>  <Poi>  Aggiunse. <Mette un poco d’ordine e mi lava perfino la biancheria. Provo a ricompensarla, ma lei non accetta che dei regali simbolici>.
Fu un’eccellente presentazione quella del professore. Di sicuro, pensava, farà colpo su Adamo, il quale non perdeva più d’occhio l’insolita ospite.
Adamo, dentro di se compiaciuto per il fatto che non era indifferente ad Ilaria e riflessivo, perché era divertito di come si stesse mutando quella avventura, prese la parola con garbo e con misurate frasi dicendo:
<Stavamo discutendo di alcune questioni che a parer mio riguardano l’essenza dell’uomo, ossia il senso dell’Io, dell’esistenza. Ci siamo accordati con il gentilissimo Lew di rivederci e continuare il dialogo in altre occasioni>.
Ilaria, pragmatica e istintiva e con insolita spigliatezza disse:
<Non conosco molto di questi argomenti. A mala pena ho qualche reminiscenza scolastica di quando frequentavo il liceo. Ricordo un certo Abbagnano, un filosofo contemporaneo che scriveva storie di filosofia>.
<Ecco l’appiglio del discorso.> Pensò Adamo. Con   insolita calma, si appoggiò al piantone destro del camino e dominando con lo sguardo la stanza e gli interlocutori inizio a parlare, trattenendosi da non fare un’arringa.
<Ho letto abbastanza di lui, ma anche di Severino e di tanti altri, ma a dire il vero ritengo che un certo modo di pensare che li appartiene sia un po’ fuori dall’ottica del nostro tempo oramai>
Forse questi citati personaggi, il professore non li conosce neanche visto il suo iter, ma dal suo modo di porsi, sembrava molto interessato. Infatti, aveva poggiato il gomito sul braccetto in legno della poltrona a dondolo, e mantenendosi il mento con la mano, ascoltava attentamente il dibattito.
Ilaria non era certo una donna sprovveduta ne ignorante; aveva solo creduto che la filosofia fosse qualcosa che non portava a niente.
A ben pensare, dal suo punto di vista e in funzione della sua preparazione prevalentemente letteraria, aveva di sicuro ragione. Confessò di essere laureata in lettere, e non aveva solo sentito parlare di Abbagnano, come accennava, ma di aver sostenuto diversi esami di filosofia. Questo però non l’aveva aiutato molto a farle comprendere l’eventuale importanza di tale materia, anzi l’aveva ulteriormente allontanata.
Adamo aveva intuito che la donna aveva una notevole cultura; quando lei gli disse della laurea non lo colse alla sprovvista; anzi fu proprio questo che lo portò ad una serie di opinabili esternazioni.
<Mi spiega come può essere possibile che nella nostra epoca coloro che perseguono un iter filosofico, di norma, a parte il liceo, effettuino degli studi prevalentemente letterari, senza sapere niente o quasi di Matematica, fisica, biologia, astronomia ecc?>
E Adamo, con sicurezza di se aggiunge:
<Filosofare in un altro periodo storico voleva significare avere una cognizione dello spazio e del tempo prevalentemente Euclideo. L’apporto di Newton era imprescindibile ed inconfutabile prima di Einstein. Non Credi?>
La donna palesemente spiazzata, apre un tiretto da un mobiletto intarsiato di colore marrone e nero, tira fuori un panno ed uno spray, e pur di voltare le spalle agli  uomini della sala, inizia a spolverare.
Dopo qualche attimo di silenzio, fu lei che ruppe il ghiaccio, rassicurata anche dal fatto di sentirsi un po’ la padrona di casa.
<Ammetto di non sapere molto delle scienze che hai citato, ma credi veramente che la conoscenza specifica di tali materie ci possa portare più lontano nella speranza che ci sia una specie di Io che sopravviva alla nostra morte?>
<Non ammetto ne escludo niente del genere, dico soltanto che la mente dell’uomo moderno che vuole dedicarsi alla filosofia, debba e possa  partire da altre prospettive.> Disse Adamo Palesemente contrariato dal suo vecchio disappunto verso il metodo, secondo lui improprio,  arcaico di dedicarsi a questa arte.
Il vecchio Lew sembrava attento al dibattito, ma non osava per il momento intervenire. Di sicuro, ammesso che  avesse avuto argomenti appropriati da confutare, e li aveva di sicuro, dall’alto della sua veneranda età ed esperienza, rimaneva impassibile a godersi lo spettacolo.
Non era il solo che giocava come fa il gatto col topo; anche Adamo aveva intuito il suo atteggiamento e faceva finta di non accorgersene. Infatti, per dare più slancio alle sue esternazioni, si rivolgeva alla donna, ma in cuor suo sperava che fosse il vecchio a valutare attentamente i quesiti o le vari tesi, nella speranza che in seguito avesse potuto rispondere. 
<Ascolti signor Adamo, io non voglio contrariarla ne avere ragione ad ogni costo. Dico solo che avevo intrapreso gli studi letterari e filosofici, evidentemente perché ne ero appassionata. Ma in seguito, l’esperienza della mia vita mi ha portato ad avere una visione nichilista della vita. Purtroppo le religioni non mi interessano più come una volta. Faccio finta di crederci, ma è solo per tentare di prendermi in giro. Per quanto riguarda altre prospettive, per quanto abbia cercato ed udito, non sono venuto a capo di nulla. Tutto nasce, cresce e miseramente muore. Dopo di che vedo un buio pesto, il nulla, l’alienazione totale della mia ed altrui esistenze.>
Essendosi sfogata e visibilmente compiaciuta di avere finalmente gettato il grosso rospo che aveva in gola, la graziosa Ilaria lascia lo straccio impolverato e si  avvicina ai due uomini sicura di se e delle sue certezze. Pensava che di certo non sarebbe stato quello sprovveduto a  confutare una tesi così evidente, inattaccabile. Si avvicinò allo scanno di legno al fianco del camino e si sedette aspettando che qualcuno dei presenti parlasse.
Il viso gli era diventato senza espressione. Non si capiva più se fosse adirata o scocciata, interessata o cosa. Adamo che in un primo momento aveva voluto discutere con la donna per il solo piacere che questo può dare, adesso desiderava che il dibattito potesse continuare, per quella sorta di appagamento interiore che discussioni di questo genere possono offrire. 
<Ti prego dammi del tu> disse il giovane. <Non si può parlare di questi argomenti e distanziarsi ulteriormente con queste formalità. Poi se continui a darmi del Lei mi farai sentire a disagio>
Lew che era stato ad ascoltare, prese la parola, ma non per esprimere un suo punto di vista sugli argomenti trattati, ma per una proposta molto più effimera, a secondo i pareri naturalmente.
<signori sono le ventidue, che ne direste se preparassimo qualcosa per acquietare lo stomaco oltre che la mente?>  Dicendo ciò si alza e va verso il frigo per cercare qualcosa da mettere sotto i denti.
<Ci sono delle ottime costate, dei carboni accesi che non aspettano altro che fare il loro dovere, il pane non manca; su forza diamoci da fare a preparare>
Forse niente delle cose fatte o dette quella sera avevano maggiormente imbarazzato Adamo, quanto quella proposta. Comunque cercò di sembrare il più disinvolto possibile. Lo stesso non si poteva dire di Ilaria, la quale, senza farselo ripetere due volte, incominciò a preparare la tavola. Non è che fosse sfacciata, tutt’altro, ma capitava che si fermasse a pranzo da Lew, sapendo che ciò lo rasserenava.
Ilaria, notando il goffo atteggiamento di Adamo nel tentare di metterlo a suo agio, pensò che coinvolgendolo nel da farsi l’avrebbe aiutato.
<La graticola la trovi sotto al lavandino a destra; passala per qualche minuto sul fuoco prima di poggiarvi la carne. Ah, dimenticavo, visto che ti trovi lì prendi anche l’olio e il sale , c’è l’hai proprio di fronte.>
<Fate, fate pure voi giovani, io vado a prendere ciò che su una tavola che si rispetti non deve mai mancare.> Cosi dicendo e barcollando sulle gracili gambe logorate dal tempo, il colto personaggio svanì oltre una porticina e per un attimo  Adamo ebbe l’impressione che  non fosse mai esistito.
Gli unici rumori che si potevano udire nei cinque minuti che seguirono furono quelli dei piatti, dei bicchieri e del grasso della carne che scolando avvampava e friggeva. 
Ilaria aveva aspettato invano che Adamo dicesse qualcosa. Non aveva creduto che l’assenza del vecchio avesse potuto inibirlo in tale modo.
<Beh, se non lo fa lui lo farò io> pensò! Così dicendo proferì la prima cavolata della sera. <Spero che tu non sia vegetariano ?> Immerso com’era nei suoi pensieri, quasi non sentì quanto gli dicesse la donna. Infatti, pur avendo, nonostante tutto capito, per prendere tempo esclamò:
<Non ho capito, scusa, ero soprapensiero, puoi ripetere?>
<No, niente d’essenziale, piuttosto tu potresti dire a cosa stai pensando. Dalla fronte corrugate sembra qualcosa d’importante.>
  <Forse lo è per me, ma non so se a te farebbe piacere saperlo> Adamo come d’incanto sembrava essere tornato un adolescente che invaghito d’una ragazzina che sembra darle corda, non capisce più nulla. Qualche minuto prima pareva volesse trattare “I Massimi Sistemi” ed ora sembra sciogliersi dietro una femmina e neanche  eccezionale.
La cosa buffa e che era cosciente del suo modo d’apparire, ma sembrava quasi che mancasse un coordinamento qualificato tra il cervello ed il resto del corpo. Era come un libro stampato ed Ilaria sapeva leggere.
Lei nonostante non le sarebbe dispiaciuto un approccio con l’uomo, non volle alimentare la cosa. Come una bravo pompiere versò la classica acqua sul fuoco, che in questo caso si identificò in un atteggiamento meno accondiscendente.
<Ascolta Adamo, se ti dicessi che la carne che scotta andrebbe mangiata a piccoli bocconi cosa mi risponderesti?>
   <Ti direi che hai ragione, e ciò andrebbe fatto anche se si ha una fame boia, ahimè.>
<Visto che siamo d’accordo> Aggiunse la donna. <Non pensiamoci più>.
Così uno dei fuochi della stanza sembrò mancare d’alimentazione e si assopì.
Il piccolo tavolo di vimini aveva magicamente cambiato aspetto; da quello sterile, rinsecchito aveva assunto il classico, invitante d’osteria. La luce elettrica era proprio qualcosa che avrebbe stonato in quell’ambiente fatto non solo di mobili d’altri tempi, ma anche di uomini, di donne e di concetti  inusuali.
Mentre i giovani si compiacevano dei reciproci ammiccamenti, si udirono delle  strane voci, incomprensibili, venire dalla stanza accanto. Adamo non avendo capito di cosa si trattasse, d’istinto però, si portò verso la porticina che non gli riuscì di varcare. Infatti quasi si scontrò col vecchio professore che faceva ritorno con le mani occupate da un fiasco di vino e da una grossa candela accesa. Le strane voci provenivano da una radiolina che portava sotto al braccio.
< ah ce l’avete fatta finalmente a preparare> esclamò Lew, poggiando contento il fiasco sopra al tavolo. <Prendi la candela per favore Ilaria  attaccala nel solito bicchiere e mettila al centro del tavolo, così almeno ci guardiamo un po’ in faccia. Non sarà un bel vedere per il mio di viso, ma non ci sono solo io stasera qui dentro.>
Mentre Ilaria si accinge a fare quanto chiesto dal professore, questi si accomoda al tavolo per fare gli onori di casa, si porta la radiolina vicino all’orecchio e ascolta interessato.
<Non è certo italiano quanto viene trasmesso. Per quanto sgangherato quell’altoparlante, dovrei capirci qualcosa> Pensò Adamo, avvicinandosi il più possibile con l’orecchio destro.
Avendo capito il mio pensiero, Ilaria mi dice: <No non è italiano quello che senti. È cecoslovacco. Lui ama da sempre ascoltare quel che accade nel suo Paese nativo>
<Un sentimentalismo fuori luogo per un filosofo, la quale mentalità dovrebbe essere cosmopolita> Sussurrò Adamo con un filo di voce quasi confusa con il ridente scoppiettio della brace e dell’arrosto oramai sul punto di onorare i commensali.
<Hai ragione  a fare questa osservazione; è più che legittima, ma il fatto che sia rimasto ancora legato alla mia terra, ha avuto una ragione essenziale. L’hai accennato anche tu prima, quando ti riferivi al fatto che in Italia la preparazione universitaria di uno studente iscritto a filosofia, è prevalentemente storica e letteraria. La mia formazione di base invece ebbe un’altra impostazione. Bisognava sostenere esami di matematica, fisica, biologia. Non si può pensare senza possedere basi adeguate.>
Adamo visibilmente compiaciuto da quanto appena udito, già gustava di intraprendere un dibattito con costui il quale sicuramente avrebbe arricchito i concetti di solito sterili o campati in aria. Ilaria, pur avendo sostenuto abbastanza la parte della donna pragmatica, apparentemente distante da pensieri che a dire di molti “non  portano da nessuna parte”,
dimostrava un’attenzione insolita. Sembrava avesse innata l’arte della moderatrice; e come un esperto che si rispetti, smorzò volutamente il dibattito, esclamando: <Cosa direbbe la vostra filosofia se lasciassimo che le costate andassero in fumo? Forse sarebbe il caso di occuparci del nostro stomaco per primo, non vi pare?> Così dicendo si alzò e portò in tavola la carne semi abbrustolita, ma eccezionalmente odorante. Oramai il trio aveva superato ogni possibile inibizione. Sembrava che l’appetito avesse fatto da collante. Lew che doveva fare gli onori essendo il padrone di casa, ne sembrava quasi l’ospite. La contentezza di trovarsi in una così gradevole compagnia, quella sera era incontenibile e non faceva niente per celarla. Non pensava; sapeva che la cosa più importante per mantenere più a lungo un momento di felicità, era la capacità di non riflettere; scordarsi dei suoi anni, degli acciacchi, dell’infruttuosa esistenza costruita su una montagna di idee che a nulla servivano per mantenere elevata la sua intima concupiscenza.
Per qualche minuto nessuno osò fiatare. L’appetito buono o discreto che sia stato fu sufficiente a gustare la frugale cena. La donna quella sera rifletté in modo insolito. Era passato tanto tempo oramai da quando qualcuno aveva suscitato in lei del sentimento. Ricorda perfettamente, nonostante i cinque anni trascorsi, il travaglio di quei giorni che portarono alla rottura della  relazione con Giorgio. Eppure nessuno avrebbe mai pensato che  una travolgente storia d’amore come la loro che era durata ben quattro anni, potesse svanire in un niente, un ricordo sempre più sbiadito. La figura di Giorgio occupava nella sua mente solo quella parte dove si celano i rancori, le tristezze. Cosa ne era stata di quella passione che avrebbe ricoperto il mondo intero; puff, svanita come d’incanto, appena lei finalmente capì del vuoto e dell’ipocrisia che stava dietro quel fiero viso da atleta, quei modi seducenti e falsamente sicuri.  
Si aveva costruito di lui un’immagine che non gli apparteneva. Credeva, alla fine della storia, di aver compreso cosa fosse l’amore, l’innamoramento; ma si sbagliava. Non l’avrebbe saputo neanche Lew dalla vetta dei suoi anta.
Forse il grande vecchio era sostenuto proprio da un sentimento similare a quello che si prova quando si è invaghiti da un’altra persona. Era probabile che ad alimentare il suo vecchio animo, fosse un partner speciale, molto  particolare, potrebbe essere  il partner per antonomasia che non ha sembianze, al quale non è possibile attribuivi delle qualità e poi inesorabilmente col tempo si scopre che non esistono o sono di tutt’altro genere; è l’amore della contemplazione cosmologica, metafisica, ed è dentro di noi; anzi è noi stessi e nessuno potrà sottrarcelo, perché finché lui esiste esistiamo anche noi; se lui dovesse svanire in un nulla eterno, noi svaniremmo con esso.   
Il guaio di un uomo avveduto come Adamo è proprio questo, ossia, la capacità di intuire lo stato d’animo di chi è succube  della povertà, della malattia, ma, capacità ancora più ardua, dell’età, della vecchiaia.
La sua vita era stata segnata da sempre da questa particolarità, ossia, la visione dell’esistenza terrena non poteva ritenersi significativa se comunque vi fosse un limite.
Certo quando egli di anni ne aveva pochi, era sedato a sufficienza dall’inquietudine che scaturisce di quando si è consapevoli che tutto inesorabilmente   finisce. Ora di anni ce ne ha abbastanza per comprendere ancora di più e soffrirne, immedesimandosi vecchio, ed esistere in tali condizione.  Ma mettiamola in quest’altro modi; Adamo non volle il conforto di un fede classica, preformulata; riteneva che se avesse accettato
di placare la turbolenza della sua giovane esistenza col palliativo di una verità cosiddetta “rivelata”, avrebbe offuscato di molto la sua mente, limitandone la capacità d’indagine.
I tre commensali ascoltavano il silenzio, ma nelle loro menti i pensieri incalzavano come non mai. Difficilmente ci si ritrova in un contesto sapendo di doversi esporre senza essere banali, avendo convinzione di non esserlo, per giunta.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La rabbia di Lew
 
Lew, avendo intuito l’imbarazzo circostante, ritenne doveroso rompere il ghiaccio. Aveva appena finito di gustare la bistecca e  debitamente onorato la bottiglia del vino, per cui ciò che avrebbe  mosso la sua lingua non era del tutto premeditato. Si alzò in piedi e con insolito tono pacato ma fermo, iniziò a parlare come se argomentasse a se stesso. Sembrava quasi dimentico dei commensali; come se fosse la grande rabbia, sopita nei decenni, la quale improvvisamente aveva rotto la coltre del buon senso, che dominava il monologo che di lì a poco ne sarebbe scaturito.
< Quella maledetta mattina d’Agosto di tanti anni fa non avrei dovuto concentrarmi sul dogma di mia madre, la quale, incalzata dalla mia ingenua osservazione circa la morte di una vicina di casa, disse con rassegnata pacatezza: Figlio mio, tutti dobbiamo morire; si nasce e poi si muore>.
Lo sguardo dell’anziano signore sembrò estraniarsi. Era quasi come se non fosse più lui a parlare; i fumi dell’alcol e della rabbia interiore  avevano creato in lui una miscela esplosiva. Sapevamo che niente e nessuno avrebbe potuto impedirne lo sfogo, né lo volevamo. Continuò con lo sguardo perso nel vuoto:
<Che senso ci sarebbe per me continuare a credere nelle cose che facevo se inesorabilmente tutto un giorno dovesse svanire. Poco mi importava che quell’alba fosse arrivata tra venti cinquanta o cento anni; era il traguardo maledetto che non dovrebbe esistere. I miei sette anni erano stati insufficienti a digerire quella tragica verità.
Piansi come non feci più in tutta la mia vita, cercando un conforto, una ragione che le lacrime non seppero darmi>.
Sembrò quietarsi sconsolato. Si accasciò sulla poltrona di fronte al focolare, anch’esso alla fine del combustibile di vita. Gli ultimi tizzoni ardenti erano rassegnati all’infausto destino. Il vecchio smosse i carboni e un ventata d’ossigeno forni  un’apparente ripresa della fiamma; ma come tutte le apparenze sfumò dopo qualche minuto, trascinando con se le ultime speranze d’eternità.
La stanza crollò in un buio irreale. Di tanto in tanto un bagliore tratteggiava la figura del filosofo, che solo d’istinto ormai seguitò il suo proferire:
 
 
<La mia vita continuò perché non c’era scelta. Ogni attimo, anche il più insignificante, volli che entrasse in me con la propria testimonianza del suo esistere. Appresi tanto ma non capii mai nulla veramente a fondo. Ogni assunto, compresi, ha il proprio contraddittorio>.
Il tono divenne pacato come la fiamma degli ultimi tizzoni; le parole, a mo di mazze infuocate incalzavano sul senno dei testimoni dell’epilogo.
Adamo si riconosceva nel drammatico iter di vita; era stato soverchiato dall’identico destino, dall’incapacità di gioire del modo comune, e come Lew si era nutrito del magico sapore che l’intimo accondiscendere  può fornire.
Le mani di Lew avvinghiate al mento, lo sorreggevano e forse ne controllavano il suo dire.
Ilaria non manifestava dissensi dal suo viso. Rimase come impietrita da quell’atteggiamento improprio del vecchio che credeva di conoscere.
Dalla grande paura dalla quale molti scappano via creandosi uno scudo refrattario, quella volta non poté  evadere.
Si udì ancora quella voce ormai cupa, irreale come l’atmosfera dell’ampio locale quasi del tutto plasmata dalle tenebre.
<Io so che quanto penso esiste da qualche parte. Sono certo dell’esistenza di mondi inimmaginabili; di realtà eteree nelle quali il mio senno si perde nell’intrinseca miseria; ma questo so di essere e da ciò scaturisce il grande dubbio: sarò  in qualche modo testimone delle visioni delle mie certezze, oppure, oppure svanirò e tutto l’esistente non potrà più avere nessuna importanza per me>.
Nessuno lo poté alleviare da quel terribile tormento.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
L’epilogo
 
Qualche tempo dopo, non molto, o molto poco , chissà, l’epilogo.
 
La testa di Lew sembrava fosse divenuta più pesante, tanti erano i pensieri che si aggrovigliavano nella sua testa. Garbugli di sinapsi, i quali spunti efferenti comandavano a caso un essere  al vaglio dell’esperienza terrena.
Le gambe del vecchio, acciaccato e debilitato, vacillavano cercando di sorreggere un corpo pur scheletrito, fantasma d’un uomo del quale vissuto egli stesso aveva solo sprazzi mnemonici.
“Qual è il conscio della mia individualità, di questo momento  farcito di cultura, adorno di ricordi belli e brutti, di ideali metafisici sognati, fiutati solo, ma gustati nell’animo”. 
Il vento non favoriva l’immane tentativo di attraversare quel ponte infinito come era la sua speranza d’essere nell’universo. La folla  quella notte d’autunno, consisteva solo di  statue che ne dominavano le corsie e i marciapiedi. Di fronte Castel Sant’Angelo con la scura sagoma che lasciava pensare quasi ad un disco volante del passato. Pure i derelitti della società avevano lasciato il loro posto di lavoro, d’incontro, per un luogo  tranquillo, protetto dalle intemperie.
Il bottone che avrebbe messo a tacere l’inquietudine oramai abusata della sua vita, non l’aveva mai trovato, forse non aveva mai avuto veramente il coraggio di cercarlo. Quella sera sembrava più propizia, quasi ideale per scomparire negli elementi, sorretto dalla testimonianza di quei  personaggi,  vissuti nel passato, i quali sembrava lo confortassero sul destino del dopo.
Era riuscito miracolosamente ad arrivare al centro, nel punto dove l’antica Roma  mostra il suo lato migliore. Le cupole d’oriente, sagomate dai lampioni, dominavano sul destino dei poveri di spirito. Lui non lo era mai stato, ma a fatica quella notte ne sorreggeva il loro carisma. Guardandole, sembrava scivolare anch’egli nel bieco vissuto comune, dominato da principi vecchi e nuovi, papi e re padroni della labilità umana.
S’arrampicò per portarsi alla sommità del parapetto del ponte, nonostante l’altezza dell’alto uomo che fu, definita ancora dalle lunghe, fragili ossa.
Lasciandosi scivolare lentamente, come in un ultimo rito che avrebbe marcato il varco tra la gnosi beffarda della propria esistenza, e l’altra incerta, supposta, immaginata; antro d’un viaggio troppo pesante per chiunque l’affronti, senza l’ausilio d’un oppio della mente.
D’un tratto, l’esile parte ancora ancorata a questa terra, carpì qualcosa in bilico su una sporgenza del ponte che dava, senza ulteriori ostacoli al tetro buio, alla fetida acqua del fiume. D’incanto scordò il suo gesto e intuì che quella notte qualcuno l’aveva preceduto senza riuscirci.
S’aggrappo al senno e alle inaspettate forze che all’improvviso gli confluirono nei rinsecchiti muscoli. Le braccia tese afferrarono il supporto dell’asta della bandiera, trovò, per quanto possibile, una posizione sicura e valutò cosa stesse accadendo.
“ Una donna, si è una donna che tenta o ha tentato di buttarsi giù. Devo fare qualcosa, ma non so, che dirle, come afferrarla”. La statua del barbuto sopra la loro miseria sembrava sogghignare. Erano soli; il sovrano di pietra dominava la scena, poteva cambiarne l’epilogo.
“Fermati, ti supplico, non ha nessun senso che tu compia un così insano proposito”. Gridò lew con un rauco vocione. La donna che sembrava assente ad ogni stimolo provenisse da questo mondo, girò lo sguardo verso il vecchio ed espresse col linguaggio del viso scavato, con i grandi occhi accerchiati di nero:
 “Voglio una sola ragione, offrimela!”
Era il residuo d’un bello del passato. I lineamenti del viso connotavano un’intelligenza diversa, non comune, per questo pericolosa.
 La luce del vicino lampione si divertiva a dipingere una scena forse simile a tante altre delle quali ne era stata  testimone e complice.
Il vecchio arguì che a nulla sarebbe valsa la solita persuasione di chi cerca di dissuadere un candidato comune al suicidio. Questa volta era diverso, lo sapeva, l’essere a lui di fronte era pregno  di grandi tristezze, insidiate nel senno profondo, nell’illusione di noi stessi. Non si mostrava ne  disperata ne impaurita. Un rassegnato stizzo di sfida trapelò dagli sporgenti zigomi. Era la donna per antonomasia, l’anima suadente che ci pervade quando ci si innamora. Non v’è ragione, nessuna ratio che interessi il moralista della porta accanto. I due si guardarono a lungo e capirono di quanto fosse difficile barare. La donna in bianco non aveva compreso che Lew era vicino a lei perché aveva cercato di  commettere lo stesso suo gesto. Aveva creduto che fosse la per prenderla, salvarla, portarla via dall’orrore della tetra soglia, all’incertezza del varco.  D’incanto le sgretolate labbra si mossero, dapprima incerte, poi un flebile “perché l’hai fatto” giunse alle orecchie del vecchio.
“Non voglio che tu muoia” le proferì d’istinto.
“Tu, tu sei me stesso, sei la visione del mio inconscio che mi guarda, mi entra dentro, mi sorregge, alla quale vorrei aggrapparmi, per la quale darei ogni mio alito”.
“Ho vissuto troppo a lungo affinché continui a lusingarmi con tali parole. Ti credo certo, ma non vale niente. Lì  in fondo c’è la mia vera pace. Svanire, non esserci più è questo che desidero, ma non ho imparato come si faccia, ho paura, non ho certezza che sia così”
La drammatica situazione apparve evidente al povero professore. Le forze lo stavano abbandonando, niente e nessuno avrebbe potuto salvarli. Il vento ormai sempre più freddo contribuiva a limare le loro forze. Ora avrebbe desiderato altri momenti di un esistere criticato, dapprima sfrondato d’ogni piacere. Capì che non era loro più concesso.
Solo la sua lingua, un suo monologo ne poteva addolcire l’epilogo.
“Guardami, sogno della mia anima, sarò il tuo compagno nel viaggio del dubbio”.
Le mani di lei si allungarono, le aride dita dei due si cinsero, fu il loro unico contatto.
“Sono certo, il nostro volo non terminerà nel nulla; la nostra passione si amalgamerà al mistero della nostra esistenza. Ci deve molto, non potrà tradirci. Noi vedremo i mondi preclusi in questa presenza; le immani visioni svincolate da un limitato sensorio cognitivo, qual è stato il nostro bieco vissuto.”
Capì dallo sguardo rasserenato di lei che il momento era giunto. Vollero porgere una mano al fato; così si lasciarono portar via dall’ennesimo soffio di vento, ghignandosi  della luce del faro che inutilmente tentò di scorgerne il tonfo.
 
 
La verità
 
D’improvviso un boato frantumò il sogno dell’ ignaro dormiente. Si alzò di scatto, accese la luce, guardò, l’orologio, era mezzanotte. Annotò i tratti salienti del suo sogno e capì che egli poteva essere Adamo, il vecchio Lew o la giovane Ilaria:  tutti facenti parti della propria interiorità, del proprio io. La sua, la nostra esistenza è quanto da noi scaturisce; ognuno, ogni pensiero qualsiasi immaginazione che ci perviene sono noi stessi, sono solo visioni svincolati dallo spazio, dal tempo e da una veduta razionale dell’universo, che non collimerà mai con l’idea che noi abbiamo di verità.
 
 
Antonio Stasi  
 

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