Scritto da © miresol - Sab, 07/05/2011 - 17:11
Imprigionata in un braccialetto d’argento, Lucy si agitava al ritmo del mio polso in compagnia di Snoopy. Erano loro a farmi compagnia in quella fine luglio del ‘77, mentre rannicchiata accanto al finestrino osservavo le panchine della stazione. Poi l’autista mise in moto e il vecchio pullman dal respiro asmatico superò il ponte. Davanti ai miei occhi sfilavano come comparse le piante del parco, ma io guardavo la recinzione, quel muro che mi aveva sempre accompagnato verso casa come una lavagna su cui scrivere i miei pensieri.
Erano le tredici e il pullman era semivuoto; oltre a me, andata a recuperare dei documenti presso la segreteria della scuola, c’erano solo alcune anziane signore. Gli esami di maturità erano ormai alle spalle e con loro Kant, Rousseau, Hegel, Nietzsche sui quali la mia mente aveva arrancato per mesi sperando di decifrarli, cercando la frase, l’idea, una chiave che mi schiudessero il mondo. Perché non era solo la paura degli esami a farmi studiare, c’erano la voglia ingenua di capire, l’orgoglio e la presunzione di poter afferrare e rivoltare le parole fino a respirarne il senso, a farne mani in grado di cambiare ogni cosa. Questo mi piaceva credere anche se una parte di me, per quanto non fossi disposta ad ammetterlo, si sentiva più vicina ai Peanuts e al simpatico Snoopy coi suoi miraggi di gloria e le sue notti buie e tempestose. Giravo infatti sempre con un quadernetto nello zaino, la mia cuccia era il pullman, mi rintanavo su un sedile e scrivevo, brevi appunti, frasi isolate, ritornelli di canzoni in attesa di musica. Se amavo il povero bracchetto, non riuscivo invece a sopportare Lucy la spocchiosa, la saccente, quella che nessuno voleva, ma quel ciondolo mi era stato regalato a quattordici anni dall’amica del cuore, l’unica dell’adolescenza, con inconsapevole crudeltà. Da allora Lucy si era insediata nel mio braccialetto d’argento accanto a Snoopy e non avevo mai trovato il coraggio di farla sloggiare da lì. Quel giorno il suo ticchettare contro il braccio mi sembrava però troppo invadente, disturbava i miei pensieri, sottolineava la mia inquietudine. In realtà, nonostante fossi timida e poco socievole, mi mancavano i miei compagni di viaggio con il loro vociare. Il pullman lungo un percorso di una quindicina di chilometri raccattava ragazzi dei paesi limitrofi per portarli in quella cittadina di provincia: studenti del liceo, delle magistrali, degli istituti tecnici si trovavano per un breve tratto gomito a gomito. Nello stesso pullman convivevano la minigonna della Gisella, aspirante segretaria d’azienda, le gonne a pieghe delle ragazze che andavano a scuola dalle Canossiane, il vestito a fiori della femminista Daniela e i miei jeans sdruciti d’incerta identità. Così come potevano occupare spazi contigui, senza infastidirsi, Roberto e Andrea con il loro eskimo e i progetti di autogestione, il brufoloso Clerasil che vantava conquiste femminili dietro la protezione scura dei rayban, il romantico Paolo, perso dietro gli occhi della sua Ginevra.
Non ci amavamo alla follia, non eravamo per forza amici, ma la pancia calda del pullman sapeva accogliere in egual modo tutti i nostri sogni di cuccioli grintosi, per quanto diversi potessero essere.
Così lungo il tragitto quotidiano, silenziosa veniva decretata una tregua e il sanbabilino Clerasil poteva scambiare una barzelletta col rivoluzionario Andrea.
Su quei sedili avevo trovato un posto anch’io, e soprattutto un tempo; quell’intervallo tra casa e scuola era solo mio, sottratto ai doveri e al controllo degli adulti, alle loro aspettative. Lì avevo deciso che dopo la maturità, benché non mi dispiacesse studiare, sarei andata a lavorare, interrompendo la dipendenza dai miei, proprio quel giorno avrei dovuto dirglielo, ne immaginavo la sorpresa, la delusione. Così non sapevo se la tensione che avvertivo dentro era per quanto mi aspettava a casa o per la consapevolezza che su quel pullman non ci sarei più tornata.
La mia fermata si avvicinava, d’un tratto lo feci: sganciai dal bracciale il ciondolo di Lucy, facendolo scivolare sotto il sedile in un angolo, poi accarezzai Snoopy e glielo misi vicino a farle compagnia. Nel frattempo la portiera si era aperta, allora scesi velocemente e guardai il pullman allontanarsi.
- Ciao Lucy, ciao Snoopy – mi sorpresi a mormorare, sospesa tra dolcezza e malinconia.
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