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Lo strano caso del dottor Strangelove, della zip incastrata e una zuppa di cipolle

Strangelove guardò il monitor. Le tracce dei missili intercontinentali puntavano sugli obiettivi designati. Contemporaneamente le tracce dei missili nemici puntavano sui loro obiettivi. Un disegno quasi carino, persino artistico.
 
«Santo dio!» disse, premendo, inutilmente, il bottone rosso. Quando vide la prima esplosione nucleare in territorio cinese, maledì mentalmente la zuppa di cipolle preparata la sera prima da sua madre. E iniziò a ridere, a ridere forte. Anche perché se ne stava in mutande in un bunker di massima sicurezza del dipartimento di sicurezza nucleare del Pentagono.
 
Era un uomo tondo, il dottor Strangelove. Veramente, non era questo il suo nome, ma gli avevano affibbiato il soprannome, preso dal famoso film, proprio per il mestiere che faceva: era il controllore, l’ultimo controllore preposto al consenso per il lancio dei missili balistici intercontinentali. Una volta che il presidente degli Stati Uniti avesse dato il codice di lancio dalla sua valigetta nera, lui aveva dieci secondi (si, avete letto bene, dieci secondi) per, eventualmente, annullarlo. Una responsabilità, la sua, che lo aveva invecchiato precocemente. A nemmeno quarant’anni, era calvo, obeso. Sembrava una specie di palla da golf su due stuzzicadenti, le sue gambe erano incredibilmente magre.
 
Passava la sua giornata in un bunker di massima sicurezza, dove aveva il controllo di tutto l’apparato tattico nucleare della più grande potenza militare del pianeta. Vi entrava alle sei del mattino, ne usciva alle sette di sera. Non doveva fare quasi nulla. Soltanto, in caso di conferma di lancio, verificare, nei dieci secondi disponibili, che l’ordine fosse reale. In caso contrario, doveva premere un bottone rosso, al centro della console di controllo, per annullare tutto.
 
C’era sempre la possibilità, peraltro remota, d’un falso ordine di lancio. Un hacker burlone e incosciente, un caso di terrorismo informatico, un colpo di stato o chissà quale altra diavoleria.
 
La sera prima, come tutte le sere, del resto, Strangelove era andato a cena da sua madre. Una villetta in un quartiere residenziale di Washington, con il pregio di essere a pochi minuti di distanza dal suo bunker. Era sempre in contatto con il suo posto di lavoro. Aveva un cercapersone perennemente collegato, non poteva allontanarsi mai. Del resto, lo pagavano profumatamente per questo. E lui, scapolo si era adattato perfettamente al suo ruolo.
«Sei stanco, figliolo» gli aveva detto la madre.
«Per forza! Non hai letto i giornali, non li senti i notiziari?» le rispose bruscamente.
«Lo sai che non li guardo. Mi innervosiscono!» disse sua madre, affaccendata ai fornelli. Strangelove disse nulla. Inutile preoccuparla. Le voleva bene, da quando era morto suo padre erano rimasti soli. Ma da una settimana la tensione tra la Cina e gli Stati Uniti era arrivata all’orlo della guerra.
Si misurò la pressione. Soffriva d’ipertensione, praticamente da sempre. I valori erano alti.
«Per forza» si disse, «siamo sull’orlo dell’apocalisse… e io sarei l’unico a poterla fermare…». Inghiottì la pillola per contrastare il rialzo della pressione. Anzi, ne prese due.
 
L’attacco della quinta sinfonia di Beethoven, a tutto volume, lo fece sobbalzare.
«Mamma, abbassa quel coso!» urlò. Sua madre era sorda, e amava la musica classica. Lui ci sentiva benissimo, e detestava il musicista tedesco. Imprecando, si alzò dalla poltrona, per andare ad abbassare la musica. E si perse la dichiarazione, alla televisione, del Presidente, che allentava la tensione internazionale, concedendo alla Cina un’insperato spazio di trattativa.
Sua madre aveva preparato la sua famosa zuppa di cipolle, un piatto che lui amava. Agrodolce, croccante, speziato al punto giusto. Ne era particolarmente ghiotto, e si servì due volte. Innaffiando il tutto con un pregiato vino della California, bianco, fresco al punto giusto.
«Vado a dormire. Domani devo essere al lavoro un’ora prima», disse a sua madre, alla fine della cena. Non aveva voglia di ascoltare ancora un notiziario. Sapeva quello che doveva sapere, ed in cuor suo Strangelove era un pessimista. Non credeva ai miracoli, ed i fatti dicevano una cosa sola: guerra. E lui era, in un certo senso, in prima linea.
 
Alle quattro del mattino, l’alba non era ancora arrivata. Intravedeva le luci sul Potomac, accanto al Pentagono. Invidiò i funzionari che vi lavoravano, almeno avevano delle finestre per vedere la luce. Il suo bunker era a una trentina di metri nel sottosuolo. Solo luce artificiale, e il ronzio dei calcolatori. Vi arrivò in fretta. Le guardie esaminarono le sue credenziali. Lo conoscevano benissimo, ma quella era la procedura.
Seduto alla sua scrivania, controllò tutti i parametri. Doveva essere sicuro, assolutamente sicuro di essere pronto, in caso di emergenza.
Era una stanza piccola, quella dove lavorava. Si arrivava, con l’ascensore, davanti ad un corridoio, lungo una trentina di metri. Lo percorreva con il suo passo ballonzolante, superava il bagno a metà del corridoio e poi accedeva alla stanza, arredata con una semplice scrivania, sulla quale i monitor, una decina, gli fornivano i parametri del sistema di sicurezza e di attacco della difesa missilistica. Al centro, il pulsante rosso, con il quale poteva arrestare la procedura di lancio su tutto il territorio nazionale. Poteva comunicare all’esterno tramite la connessione satellitare. Il cellulare non funzionava, li sotto. Del resto, non ne aveva bisogno.
 
Era inquieto. Forse la zuppa di cipolle, forse il vino. Forse la dose doppia di diuretici per la pressione. E quella tensione dentro che non lo abbandonava.
«Vai piano!» gli aveva urlato sua madre, quando era partito di casa.
«Non dorme mai, quella donna…» aveva pensato, uscendo. Chissà se l’avrebbe ancora rivista. Chissà.
 
Alle ore 9.30, lo stato di allarme generale passò dal primo al secondo livello.
«Normale, routine» si disse. E il suo senso di inquietudine aumentò. Inghiottì una pillola per la pressione, doveva restare lucido. Attento.
Alle ore 9.45, il sistema lo informò che si era passati dal secondo al terzo livello. I monitor iniziarono a mostrare le luci dei bunker missilistici.
Alle ore 10.05, lo stato di allarme era al quarto livello. L’ultimo possibile. Al quinto livello il Presidente avrebbe digitato i codici di attacco. Le spie dei bunker missilistici erano tutte illuminate. Un messaggio lo informò che l’Air Force One era decollato, con il Presidente a bordo.
 
Strangelove era sempre più agitato. Inquieto. Aveva dormito poco e male, quella notte. E soprattutto aveva ecceduto con i diuretici, zuppa di cipolle compresa. Sentiva un disperato bisogno di orinare, ma non poteva assolutamente abbandonare il suo posto davanti alla console di controllo.
Iniziò a sudare, a sentire un dolore profondo che dalla vescica risaliva fino ai reni. Strinse le gambe e iniziò a muoverle, quasi ballasse il tip-tap da fermo.
Il sudore aumentava, come pure i crampi alla vescica. Il dolore ai reni si faceva sempre più insopportabile.
«Al diavolo!». Si alzò e corse in bagno. Sperava in cuor suo non succedesse niente. Non in quella manciata di secondi che gli occorreva.
 
In bagno, iniziò ad orinare, con un profondo respiro di sollievo. E suonò il segnale. Alle 10.25 il livello di allarme era passato al quinto livello. Il Presidente, dall’Air Force One aveva digitato il codice di attacco. E a Strangelove restavano dieci secondi, dieci miseri secondi per verificare ed eventualmente interrompere la procedura.
 
«Oddio, no, no, no!» urlò in bagno. Cercò di chiudere la cerniera, che si incastrò. «Maledizione, maledizione!» urlava mentre armeggiava con i pantaloni. Diede uno strappo energico, troppo forte, che strappò la cerniera, impedendogli di chiuderli.
Uscì fuori, correndo, reggendo i pantaloni con una mano, sulle sue gambe traballanti. Inciampò e cadde lungo e tirato sul corridoio, mentre osservava, terrorizzato il conto dei secondi, e soprattutto la scritta “FAILED” che lampeggiava sul monitor. Era un codice fasullo, non era partito dal Presidente. Doveva assolutamente premere il bottone.
Cercò di rialzarsi, a fatica. Non era agile, Strangelove. Era una pallina da golf disperata su due stecchini esili impediti nei movimenti da un paio di jeans all’altezza della caviglia.
 
Ricadde.
 
E in quel momento partirono i missili balistici intercontinentali, verso i loro obiettivi.
 
 
(ogni riferimento a fatti accaduti o a persone esistenti è puramente casuale)
(chiedo scusa per aver preso in prestito il nome Strangelove)

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