Scritto da © Bruno Magnolfi - Dom, 20/11/2011 - 18:47
Tutto quanto è mosso dall’angoscia. Tutti sono pronti a muovere i propri pensieri e le proprie capacità quando la paura li prende, il terrore senza spiegazione avanza. Osservo la punta della scarpa. Sollevando la parte della gamba oltre il ginocchio la porto all’altezza giusta, in maniera che si posizioni sulla retta che collega il mio occhio destro alla presa di corrente elettrica sul muro, proprio davanti a me.
Sono da solo in questa saletta, l’avvocato non è ancora arrivato, provo una vaga voglia di prendere ed andarmene, ignorare tutto quello che riguarda questa causa di divorzio che si frappone in maniera decisa tra me e il futuro, ma resisto, cerco di distrarmi, di perdere del tempo, di rimanere qui ma di non pensare a niente.
Non ho alcuna voglia di parlare ad un estraneo di mia moglie, del passato, del rapporto che ha legato le nostre vite per tutti questi anni; ma non ho scelta, so che quando uscirò da questo studio probabilmente mi sentirò diverso, avrò guardato con razionalità qualcosa che non avrei voluto mai mettere sotto al microscopio. Eppure le cose si corrompono con una facilità incredibile, e allora resto, cerco di sentirmi il più possibile disposto anche a questa operazione.
Un dolore sottile nello stomaco inizia lentamente a farsi strada, la punta della scarpa non riesce a stare più di tanto sulla retta, la mia posizione deve ritornare naturale, seduto su questa poltroncina, senza possibilità di assumere differenti posizioni. Cerco di pensare a ciò che devo dire all’avvocato, ma lo stomaco si stringe ulteriormente, non riesco neppure più a rendermi conto che cosa io stia veramente cercando di salvare.
Vorrei aprire la finestra, gridare aiuto nella strada, quasi un incendio nella stanza minacciasse la mia incolumità; poi penso che tra poche decine di anni saremo tutti morti, e questo mi fa sentire meglio, come se anche gli errori con il tempo divenissero una stupida cosa, fino quasi ad annullarsi. Credo per me sia una tortura rimanere ancora qui in attesa: sto male, è ormai evidente, ciò nonostante penso che devo andare avanti, affrontare ciò che è inevitabile, tirare su la testa, mostrarmi conscio di tutti i passaggi che dovrò sicuramente sostenere.
L’avvocato non arriva, ormai io sono in piedi, mi guardo attorno, ho bisogno di sentirmi via da lì, ma non riesco a decidermi ad andarmene. Poi un pensiero mi passa per la testa: qualcosa di tutto quanto ciò che andrà legalizzato non mi è chiaro, ho probabilmente rifiutato fino adesso di affrontarlo, ma c’è un piccolo peduncolo che ancora lega questo mio matrimonio, ed io non posso disconoscerlo, forse non è fondamentale, eppure va chiarito, va risolto, deve essere capito.
Torno a sedermi; non so neppure a che cosa stia pensando, dico tra me con voce bassa. Probabilmente ho un po’ di febbre, non è certo la giornata migliore per affrontare certe cose, ma non sono mai stato un pavido, ho sempre cercato di fare ciò che dovevo, dico a voce già più alta, sarà così anche stavolta.
Poi sento un rumore lungo il corridoio, ci siamo, penso tra me, non potrò più tirarmi indietro, non ci sarà più altra possibilità per mettere in discussione tutto quanto: le cose prenderanno presto a correre, non riuscirò più in nessun caso a ritornarne indietro. E’ il futuro che mi fa paura, penso all’improvviso: torno a tirare su la gamba, a guardare la punta del piede che si frappone davanti alla presa di corrente; poi decido: saluterò l’avvocato senza spiegargli niente, penso, e subito dopo me ne andrò da qui.
Bruno Magnolfi
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