Scritto da © Stefania Stravato - Sab, 26/05/2012 - 10:08
Si diceva avesse molti segreti e che ogni notte almeno una stella le offrisse devota il proprio bagliore per arderne qualcuno in un falò di gigli che si levava da una fenditura della terra e distribuiva uno sciame di gocce in volo tra vedute di cielo.
Quelle tensioni di ali che odoravano di lontananze sconosciute e oro bianco, concedevano un orientamento diverso a ciascuna delle ombre crocifisse ai tendini del buio.
Così nell' attesa che la luce inondasse le larghezze degli spazi, si allungavano nervature lucide di verderame a favore di occhi, non meno della schiena che si slancia all'abbraccio d'amore.
E nuove geometrie pullulavano tra i sassi, incitate alla sommossa dalla sorprendente temerarietà dei colori, che confondevano con fervore la testimonianza delle oscurità.
Nel progetto dei venti risaltava l'intento del disturbo, una precisa volontà di sovvertire inesorabilmente le mappe, manomettendo le geografie dei corsi d'acqua e le cattedrali delle foglie; così la corda che teneva alto il profilo altero della rosa, espandeva un'ingegnosa teoria di punte disperatamente determinate a difendere il diritto a quell'esistenza, che pure aveva sempre celebrato con il calice elevato al sole, il sacramento della fedeltà alla grazia.
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Si diceva fosse una strega e che bevesse il sangue dei primogentiti maschi perchè scintillasse eterno un flusso di forza nelle sue vene.
Lei, in verità veniva da lontano e aveva attraversato cordigliere fiorite di orchidee selvagge: ne ricordava le minuterie sigillate sottopelle. Di quel viaggio, la sua memoria racchiudeva ogni paesaggio, l'infinità dei ghiacci, distesa come un urlo silenzioso a legarle le caviglie, le apparizioni improvvise di battelli sulla nudità dei fiumi, la sacralità delle tombe che svettavano nei silenzi.
Certi passaggi l'avevano condotta nella concentricità ancestrale di riti che esigevano il sacrifcio del cuore, in cambio di un canto promesso come inudito.
Quando giunse all'ultima parete della grotta, sulle piante dei suoi piedi restava il sigillo delle conchiglie fossili che aveva calpestato, cercando sempre di non disturbare la rarità del loro sonno infinito.
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Gli abitanti della piana, laggiù verso il mare, dove un tempo gli uomini si sceglievano le spose nei giardini d'aranci, avevano dimenticato la voce per cantare e come fu lunga l'eco del dolore dopo le lame dei saraceni.
Volevano strapparle le scaglie di sole dagli occhi e infilzare le farfalle che rinascevano a migliaia dentro il mistero addensato nei suoi capelli.
La leggenda veniva tramandata a voce, quantunque le notti ormai, avevano ammalato i nativi dell'oblio e si dovette ricorrere a misurare i racconti con altre metriche, che cesellarono con certosina finezza gotiche volute su quel lacerto di ombra.
Si diceva questo e molto altro di lei.
Anche se nessuno l'aveva vista mai da vicino, o almeno così da vicino da aver udito la sua voce, vicino abbastanza da vedere il biancore del suo petto: e quella punta di selce che ingioiellava di un esangue carminio la sottigliezza di una ferita, proprio al centro del cuore.
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