La voce di Giustina Durigon, una veneta che - come lui - proveniva da Rovigo, lo inchiodò al marciapiede. Le parole arrivavano confuse. L’uomo tese le orecchie. Fu quando la donna mosse qualche passo che Santo riuscì di percepire quello che lei diceva.
- … per me è la figlia del gerarca… - sentenziò la Durigon.
- Ma dai! - le fece eco un’altra voce di donna.
- Di sicuro il padre è Tullio Dalla Rovere, quel gerarca membro della Consulta del Gruppo Rionale di Terracina. - proseguì la Durigon. - Betta è la sua copia sputata.
- Non ci posso credere! - esclamò la sua interlocutrice.
La Durigon si fece maliziosa,
- Il Dalla Rovere va trovare i Venturin tutti i sabati e sempre con le mani ingombre… perché lo farebbe se non fosse l’amante della Santuz?
- Eh, già… che scandalo! - concluse l’amica, avanzando verso il centro del negozio.
Il discorso delle donne si sciolse in brusio. Santo ebbe voglia di entrare nella bottega e prenderle a schiaffi entrambe: la Santuz di cui parlavano era sua moglie. Ma il sospetto lo mise a contatto di pensieri che erano figli del demonio.
Il Dalla Rovere era stato generoso con la famiglia Venturin, la sua. Troppo, a pensarci bene. Più volte il gerarca si era affannato a precisare che il podere era stato loro assegnato per due buoni motivi. Perché Bortolo, da ex combattente della Prima Guerra Mondiale, aveva acquisito meriti che andavano onorati e perché la casa colonica concessa in un primo momento, con solo due camere da letto, non poteva soddisfare le esigenze di una famiglia numerosa come la loro.
E questo era vero. In sei, infatti, erano scesi da Rovigo all’Agro Pontino per la bonifica: quattro fratelli, di cui lui era il minore, e due mogli, Filomena e Maria, sposa a Bortolo.
Ma il Dalla Rovere aveva anche detto di essere ricorso ad un inghippo per far avere loro quel podere. Perché?
‘Pensa il peggio e indovini’, recita il proverbio. E Santo lo fece.
Si convinse, e ringraziò la Durigon di avergli aperto gli occhi, che l’intraprendenza del gerarca celava un losco interesse: Filomena.
Filomena era la ragazza più bella non soltanto di San Donato, il borgo dove vivevano dal 1932, ma di Sabaudia intera.
Con il suo viso da dea del Botticelli, con i suoi capelli biondi raccolti in crocchia e divisi da una riga nel mezzo, con i suoi occhi scuri e grandi, con il suo aspetto dolce suscitava desiderio negli uomini. In tutti gli uomini.
E Santo, che di questo soffriva, era andato col tempo accumulando un sordo rancore nei confronti della moglie.
Al momento opportuno elevò il sospetto a verità.
Filomena divenne così una sgualdrina da quattro soldi, una di quelle che riempivano i bordelli della sua città natale, nei quali, più di qualche volta era entrato. E Betta la figlia del demonio.
Fece un rapido conto.
Dal 15 Aprile del 1934, giorno dell’inaugurazione di Sabaudia - occasione in cui conobbero il Dalla Rovere - al 20 gennaio 1935, quando la bimba nacque, intercorreva giusto il tempo di una gravidanza.
Era la figlia del gerarca. Se ne convinse. Anche perché non gli somigliava affatto.
Con questa certezza, riusciva, finalmente, a dare una spiegazione logica al fatto che il gerarca facesse visita al podere tutti i sabati. E con le mani ingombre, proprio come diceva la Durigon.
Sputò per terra dal disgusto.
Era giovedì. Fra un paio di giorni il gerarca avrebbe fatto la sua abituale comparsata al casale.
Santo strinse i pugni e giurò: avrebbe affrontato a muso duro quel mascalzone che si era approfittato della buona fede di un pover’uomo come lui per rubargli la moglie. E metterla incinta.
Della reazione del Dalla Rovere, poco gli importava. Aveva perso la famiglia e niente di più perciò poteva perdere, a parte l’onore.
E a quello teneva.
Quando arrivò davanti al casale era ormai un cane rabbioso, capace di fare qualsiasi cosa. Per questo fu tentato di andare oltre.
Esitò prima di spingere il cancello. Poi lo spinse.
Avanzò sul vialetto col passo felpato del predatore. Entrò in casa. Cercò Filomena al piano terra, quello della cucina. Non c’era. Salì al piano superiore e andò dritto in camera da letto. Spalancò la porta con forza, fino a farla sbattere contro il muro.
Davanti alla toeletta, lei si stava spazzolando i capelli. Al suo apparire la donna trasalì.
Più volte in passato il marito aveva dato prova di violenza. Specialmente dopo aver alzato il gomito, il che accadeva spesso.
C’era da aver paura.
Un manrovescio la colpì facendola girare su se stessa. Cadde bocconi sul letto. Una grandinata di pugni e schiaffi poi la investì prima che lui la tirasse a sé per i capelli. Avvicinando la bocca all’orecchio della moglie terrorizzata, Santo sibilò un avvertimento.
- Farò vedere a te e al tuo gerarca di cosa sono capace.
Dall’anima di Filomena stillarono gocce di sangue. I sogni di una vita migliore annegavano in una pozza di vergogna. In quei momenti di passione la sua voglia di vivere si esaurì. Meglio sarebbe stato perciò che lui l’avesse ammazzata di botte.
Lui riprese a picchiarla. La donna chiuse la testa fra le mani e lasciò che il fiume di violenza in cui era caduta la travolgesse. Scivolò a terra. Pronunciò alcune parole. Molto, molto significative per Santo.
- Non avrei mai voluto…
La frase non trovò fine perché lei svenne.
Maria, spaventata dalle grida della cognata, dall’aia corse a casa. Salì a quattro a quattro le scale che portavano alla zona notte. Quando vide Filomena immobile sul pavimento temette il peggio.
Guardò Santo: era un nano senza forza. Seduto in un angolo, dondolava il corpo avanti indietro e piagnucolava, come un bambino in cerca di affetto.
S’avvicinò a Filomena. Respirava.
Nella bacinella d’acqua della toeletta inumidì un asciugamano. Lo passò sul viso della poveretta finché non riprese i sensi. Filomena, smarrita, volse lo sguardo intorno a sé. Pianse con il capo puntato al petto della cognata: aveva visto la morte in faccia.
Sabato, alle quattro del pomeriggio, il Dalla Rovere fermò la sua lucente auto, un’Alfa Romeo 1750, davanti al cancello del podere dei Venturin.
Il gerarca era un cinquantenne alto e di bell’aspetto. I capelli appena spruzzati di bianco e di brillantina, i baffi sottili e ben curati, il sorriso smagliante, la naturale eleganza dei gesti erano gli elementi più caratteristici del suo fascino.
Suonò la campanella d’ingresso.
Dietro gli scuri di una finestra, Santo stava in agitata attesa. Livido in volto, scese le scale e si preparò allo scontro.
Non aveva paura di quello che sarebbe successo.
Lui e i suoi fratelli erano grandi lavoratori. Gente su cui il Duce contava per risollevare le sorti dell’Italia.
Questa era la sua forza infinita.
Lo salutò a mezza bocca e a testa bassa prima di incamminarsi con lui sulla fettuccia di ghiaia che univa il cancello al casale. Dopo qualche passo s’arrestò. Puntò dritto al sodo.
- So della tresca fra voi e mia moglie. - disse tutto d’un fiato.
- Di cosa state parlando? – domandò il Dalla Rovere lisciandosi i baffi con un guanto.
- So tutto. – ribadì Santo, agitando un corto e tozzo indice davanti al viso del suo avversario. – Dovreste vergognarvi!
Il Dalla Rovere non rispose. Odiava mettersi a confronto con l’ignoranza.
A quel punto Santo lanciò una minaccia.
- Avete distrutto la mia esistenza… io distruggerò la vostra.
Il gerarca sorrise di scherno.
Il Venturin aveva il peso sociale di un moscerino. A chi poteva far paura?
Santo, con voce ferma, rese nota la sua intenzione.
- Andrò dal podestà di Terracina e gli dirò dell’irregolarità che avete commesso nell’assegnarci il podere… gli dirò anche della vostra sconcezza… e, qualora non trovassi soddisfazione, andrò dal Duce in persona…
L’intenzione dell’uomo indusse il gerarca alla riflessione.
Uno scandalo, prima che alle sue ambizioni, avrebbe posto fine alla sua onorabilità. Doveva giocare d’astuzia per arginare la determinazione di quell’uomo. E, soprattutto, prendere tempo.
Si fece conciliante.
- Caro Venturin… più che acredine in casi come questi occorre buonsenso… il modo per sistemare le cose c’è… tranquillizzatevi…
Il fumoso discorso del Dalla Rovere non servì ad altro che a rafforzare la volontà di Santo: sarebbe andato dal podestà di Terracina, Leandro Pace, lunedì mattina.
Quel pensiero placò la sua rabbia. Almeno in parte.
Il Dalla Rovere approfittò del silenzio in cui l’uomo si era chiuso per fare una richiesta.
- Consentitemi di parlare a vostra moglie… un’ultima volta… da solo…
Sebbene contrariato, Santo accondiscese.
Il gerarca entrò in casa. Andò in cucina, dove sempre Filomena si faceva trovare quando lui arrivava.
La donna stava seduta in un angolo, a capo chino. Aveva il viso tumefatto e le mani livide.
Il Dalla Rovere sembrò ignorare il particolare.
Le prese una mano con delicatezza.
- Per uscire da questa situazione… un modo c’è… basta non essere precipitosi… - disse a voce bassa per essere maggiormente persuasivo.
Filomena lo guardò in viso mentre lui esponeva la sua idea.
La domenica sera i Venturin consumarono il pasto, discutendo del più e del meno. L’atmosfera era tranquilla. Almeno così sembrava.
Santo non partecipò alla conversazione. Aprì bocca soltanto per dire che i funghi mangiati - quelli che il Bacchetto, un emigrante di Gorizia, andava a raccogliere dalle parti di Sonnino - erano buoni.
La sensazione netta che Maria ebbe nel vederlo così taciturno fu che il peggio non fosse affatto passato.
Dopo cena, lui fu il primo a lasciare la tavola.
Come faceva dal giorno del litigio con la moglie, andò a dormire nella stalla. Prese sonno quasi subito, ma nel suo giaciglio fece il girarrosto.
Alle tre del mattino, una fitta allo stomaco lo risvegliò.
Un senso di nausea e un’emicrania spaccacervello lo portarono alle soglie dell’inferno.
Quando l’alba spuntò, dentro il suo stomaco c’era una pietra. Come se quello che aveva mangiato la sera prima fosse ancora lì. Vomitò a più riprese. E si sentì uno straccio.
Pensare di andare dal podestà in quelle condizioni era follia. Meglio sarebbe stato farlo il giorno dopo. In fin dei conti non c’era fretta.
Rimboccò la coperta e si riaddormentò.
Alle otto di mattina la sorella andò a svegliarlo. Era tempo di andare al lavoro. Santo aprì gli occhi e si trovò a navigare in un mare di confusione.
Il dolore allo stomaco era passato, il mal di testa no: un ago la stava trafiggendo. Come se non bastasse, fu colto da un accesso di diarrea.
Si vestì a forza per andare a vivere la sua giornata da incubo.
Il tradimento di Filomena era una ferita che bruciava e l’odio per lei e il Dalla Rovere un grattacielo che toccava il cielo.
Il suo pensiero scivolò, fatalmente, su Betta: era la prova del legame che univa la coppia maledetta. Bestemmiò.
Con la rabbia il mal di stomaco tornò. Prepotente. E si accompagnò ad una nausea sempre più forte.
Fino a sera lottò con la sofferenza: l’addome gli doleva e il fegato bruciava come un carbone incandescente.
Il suo ritorno a casa fu un calvario. Il cancello del podere pesava oltre l’immaginabile quando lui lo spinse.
Betta, che correva felice nell’aia dietro a una gallina, gli andò incontro. Lo salutò. Lui la prese per mano.
- Ti va un regalino? - le chiese con un sorriso sofferto.
- Sì. - rispose piena d’entusiasmo la bimbetta.
- Allora vieni con me.
Risalirono la Strada Migliara 47. Santo iniziò a sudare. Come di rado gli era accaduto.
Dopo un quarto d’ora, la sera aveva allungato le sue mani scure sui monti che resecavano l’orizzonte lontano.
Guardò Betta. Era bella come la madre. Forse anche di più, pensò, mentre dava un occhio intorno. Non c’era anima viva.
Scosse la testa. Ma quello che doveva fare andava fatto.
Indicò qualcosa dietro di sé.
- Guarda! – esclamò.
Betta sorrise: si aspettava la sorpresa. E si voltò. Santo da terra raccolse una pietra e la colpì alla nuca. Con forza.
Il suo sorriso di bambina finì nelle braccia dell’Eterno, il suo corpicino invece in una pozza poco lontana.
Dopo un istante di incertezza, un imbuto di acqua tremula ingoiò la bimba.
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