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i me ciama ciuri

I me ciama ciuri
ma il me nome è Giovanni
co l'ocio roversà daea fadiga
e el caveo bianco come dente de can
vao drio il me andare remenando la testa.
Me fermo coa punta del pie sul pacioro duro
e fisso il parcao del campo,
come mi ,sta a spetar il vassuro,
e tiro sul col naso che giosa
e me piase a spusa che butta a grassa.
Me manca na spiera de ciaro
che rompe a vecia brosa
e me resta come un veo fisso
sto caivo che dal cain se alsa,
e mi drio el careson continuo e vao pian pianeo
e man in scarsea calde de boio,
nosee de buganse sui dei,
e sue gaeosce i pie duri de fredo.
Me vien in mente quando me mare
me mettea a munega sotto a colsera de pena,
par mi ,me fradei ,me soree e qualche maregoeta.
Me ingroppo.
Che beo sto caldo,e fora se sentiva a bora che tirava,
e intanto che se seravan i oci,imaginavo e ciacoe
de chi jera ancora drio far fiò in staea,
me nona che faseva a calsa coi feri impirai sul corniol
e che tenjeva de ocio i morosi,
e i omeni che sogavano a bestia.
Mi puteo sognavo croste dea caliera de poenta
e a renga picada soea scaea del graner.
Ma el gal,a matina de bonora svejava le femene,
che se lavava con acqua freda da la broca al cain,
e poi stufa impisaa e ciacoe.
Me mama ciamava noatri tosati
per andare a scuoea e in cusina me nono,
tristo in viso perchè me pare se ga lontanà,
el se magnava na squea de poenta e late,
fasendose forsa par queo che se da far.
Tuto in un colpo,riva na bea nottoa,
me sfiora e me sveja e torno indrio,
e i segheri e sanguinee fan da riparo,
e na luce vedo distante.
So stufo,pien de dolori ai ossi,
sta sito el cuore in pena,
e sol el can me sbaia liga ae caena.
 
 
 
Mi chiamano ciuri
ma il mio nome è Giovanni,
con l'occhio stanco dalla fatica
e il capello bianco come un dente di cane
vado dietro me stesso scuotendo la testa.
Mi fermo con la punta del piede
sul pantano indurito
e fisso il limitar del campo
come me aspetta l'aratro,
e tiro su con il naso sgocciolante,
e mi piace l'odore del letame.
Mi manca un riverbero di sole,
che spezzi la vecchia brina
e mi resta un velo fisso
di questa nebbia che s'alza dal fossato,
ed io diretto nel sentier continuo piano piano
le mani in tasca calde bollenti,
con nocciole di geloni sulle dita,
e dentro le galosce i piedi duri di freddo.
Mi viene in mente quando mia madre,
metteva lo scaldino sotto la trapunta di piume,
per me,per i miei fratelli,per le mie sorelle,
e qualche topolino.
Mi commuovo.
Che bello quel caldo,
e fuori si sentiva il vento di bora che tirava,
intanto che si chiudevano gli occhi,immaginavo,
le chiacchere di ha ancora stava in stalla al caldo,
mia nonna che faceva la calza con gli aghi
dentro le prolunghe di legno
e contamporaneamente,controllava i fidanzati,
e gli uomini giocavano al gioco delle carte (bestia).
Io bambino, sognava le croste bionde
della polenta dentro la caldiera,
e l'aringa appesa sopra le scale del granaio.
Ma il gallo,la mattina di buon ora,svegliava le donne,
che si lavavano con l'acqua fredda
dalla brocca versata sul catino,
e poi si accendeva la stufa e le chiacchere.
Mia mamma chiamava
noi ragazzi per andare a scuola,
e in cucina mio nonno,
triste in viso perchè mio padre era partito,
si mangiava una scodella di polenta e latte,
facendosi forza per ciò che è necessario fare.
Improvvisamente, arriva una donnola,
mi sfiora e mi ridesta e ritorno indietro,
e i salici e i giunchi fan da schermo,
e una luce vedo lontana.
Sono stanco e pieno di dolore alle ossa
sta zitto il cuore in pena
e solo il cane abbaia legato alla catena."

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