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Recensione a "Frammenti di luce indivisa" di Felice Serino (Flymoon)

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Qualcosa illumina l’aria ed è un sentimento, la forma di un respiro accogliente che rigenera come un vento che è dentro la parola e si espande, perdendosi, in infiniti suoni a salire. S’io potessi cogliere la misura, la cifra di questo sentire che accarezza e pungola, farei senz’altro ammenda che la vita è mistero imperscrutabile, arte a proteggerci dai sogni tremolanti la notte, nel tempo di amore, appena plasmata la stanza nel corpo ritagliato da una luce di candela. Mi piace immaginarla così, tenuta da una piccola fiamma tra la mente e il cuore, la voce che in Felice Serino approda a questa comunione di sguardi fratelli, venuti a raccogliersi piano nel segno della luce calda e divina, nella sagoma d’un solo altissimo respiro:
 
prima del tempo
non c’era che amore
quello-che-muove
il-mondo
danza nel cielo
della Luce -pensiero
della notte
a scalzare le tenebre
 
“Frammenti di luce indivisa”: ha questo titolo davvero bello la silloge che il poeta mette in stampa affinché ci colga da subito pienezza e fragilità d’un canto da cui discendere, o salire appunto, nel medesimo barbaglio, in un solo grande abbraccio di luce a raccoglierci, a definirci:
 
filtra raggio verde
dalla porta
della conoscenza
vi accede l’anima
-assetata in estasi
Sanguinando amore
 
scintilla interminabile di occhi inconclusi eppure trattenuti nella stessa ferita, nella stessa livida vitalità. Poesia d’apici e di gemme, si direbbe, ricamata sul lembo dell’aurora appena senti che qualcosa diviene come un dolore che innalza, germinando, tutta la vocazione a esserci in perfetto amore: perché amore è già nell’occhio che sente, invoca, reclama l’urto d’ogni domanda; la misteriosa faccenda del cuore solo e multiplo, del Dio dei confini tra la vita e la morte:.
 
la vita ha in tasca la morte
-siamo noi
divino seme:
non è che un perpetuo
tramare
“cospirazioni” del nascere
miracolo d’amore
 
e poi ancora:
 
lanciarmi anima-e-corpo
contro fastelli di luce
specchiarmi
nella sua “follia”
e tu a dirmi: Lui
l’irrivelato
nasconde il suo azzurro – è
lamento amoroso
 
Ecco, questa dimensione spirituale, trafitta d’implacabili singulti onirici, che accompagna tutta l’opera e la tiene in bilico sull’argine tremolante di continui interrogativi; questo cercare ininterrottamente un segno, che svirgoli e sveli di qua e di là dal sogno l’intangibile immanenza del vero, immarcescibile segreto d’esser sangue nella lingua di Dio, unica strettoia possibile, nel tentativo di comprendersi d’infiniti frammenti; questo sorprendersi fieri d’ogni possibile destino, incolpevoli eppure miseri, mendici e mentitori per ricomporsi umani quanto basta:
 
dammi Signore
un collante di passione
-atto di fede
che snudi il giorno per
fissare nel blucielo
brandelli d’amore
pezzetti
di me
 
Tutto questo è rintracciabile e altro ancora, in un’opera piena di vertigini giacché densa e altissima, profondissima, surreale, dove l’irreprimibile albero  si rinnova, nominandoci:
 
cogliere una piccola morte
nello strappo di radice
dove altra ne nasce
dal suo grido
cogliere l’inesprimibile
di questo morire
che s’ingemma d’eterno
 
E’ questo rinnovarsi in uno strappo, tutto il dolore che il poeta asseconda, portandosi altrove, lievemente, arrovellandosi, dal buio staccando la parola, goccia a goccia, sterminata preghiera del cielo e del mare in un corpo che non vorrebbe peso:
 
non puoi spiegarlo
alla bimba dagli occhi di luna
se non l’ha mai visto prima
se non è rimasta rapita
dal ricrearsi sull’acqua
di riflessi dorati
-ed è poesia…
lei può solo sognarlo – il mare –
come una carezza di vento
salato e spazi
aperti e voli…
vederlo nel proprio cielo
alla stregua in cui s’immagina
un altrove chiamato paradiso
 
e ancora..
 
si vive
per approssimazione
si sta come
d’autunno…
di ungarettiana memoria o
dall’origine
scollàti dal cielo
a vestire la morte
… fino
al fiume di luce che
ci prenderà e saremo
un’altra cosa…
congetture
… ma lasciatemi sognare
un sogno che non pesa
 
Ecco: vorrei poter concepire una lettura che ne rievochi il battito; la sublimata cadenza dei versi a punteggiare un cielo nel cuore; vorrei restituire il movimento, nudo, degli occhi, a spalancare ogni possibile umore del sangue; vorrei poter dire con Serino che anch’io “da fenditure di un sogno/ spio il mondo; e forse anch’io vorrei “preesistere” all’amore, “gabbiano nel fondo degli occhi”,  “veleggiato impastato di luce”, sparire come “chi in sogno segua una successione di stanze” e uccelli vede uscire dalla testa e “nel becco i versi d’una vita”. Ma poco rende il mio occhio, lo so; poco la mia parola che invoca le viscere e anche il mio sangue coltiva il fiore che non so dire. Così attendo alla capacità dei singoli d’innamorarsi d’un fiore di poesia; al sentimento di chi gli accosti l’orecchio, perdendosi quanto basti ad ascoltarne il battito perché ne ricavi unguento e bussola, donde un filo di luce tremebonda gli dia la formula che il poeta aveva tra i versi nascosta, mentre  saliva sanguinando in bellezza la poesia.
 
Giovanni Perri

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