Respiriamo mentre andiamo al limite.
O al limite andiamo, dismessa la cura
del battito. Il morto è un fulgido solo
al tramonto del respiro in uso. Ci resta
il vertice della sua geometria: l’incrocio
tra due linee che non ne possono più
di essere rette. Così si tira il fiato.
Lo freniamo in vista delle nuvole, là
l’accampamento non è affollato, né mi pare
si affaccino da esse le guardianie dei templi.
O i segugi del Primo Portento. Più antico
del tempo è il buio, involucro dello sputo
che ti fece nella bella notte a sua insaputa.
Ma tu, nel mercato degli occhi confusi,
muovi timori come giovani che sistemano
l’essere mobili tra gli arredi adunati sotto
il cielo. Lì non altro che acqua a vapore, o
imprecisioni di stagione; glasse luminose,
venti a stormi, rituali della goccia fertile.
Il traffico anche qui è saldato in aria.
Il tanfo del motore umano - soffocante,
congegnato per le basse quote, in odore
di frizioni bruciate, rimesso a norma
dal legislatore -, non abbatte che i pedoni
a passo d’uomo. Allora corri. Corri. Salta.
Salta di seguito in seguito, salta alle volte
dove indico le striature delle aviovie.
Ti indico dove i cursori del cielo
fanno razzie dei passeggeri. E se ti è sacro
il sangue col quale mi porti l’orizzonte
ad occhi nudi, ospitami ancora, figlio,
nel paradiso dei tuoi fuochi.
- Blog di ferdigiordano
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