Scritto da © ferdigiordano - Lun, 24/10/2016 - 19:32
Il giorno in cui i guitti presero corpo, i circhi
fiorirono come campanule. Gli anfiteatri nudi
persero sangue e i leoni abbandonarono gli archi.
Era l’acrobata che meraviglia il santo con capriole
esatte là dove il suo miracolo lo fa salire. Chiuso
alla pista, l’occhio si aggrappa a un filo innaturale.
Come i santi, gli acrobati hanno il viso tirato
da una parte, quella in cui il sole non abbaglia
e il trapezio figura da inventare come ti appoggi.
I guitti, invece, indossano facce unte dal fango,
secondo la prassi dei piccoli angeli. Di tre
o quattro che ne conobbi ho visto le smorfie
più amare delle melangole; nelle notti sfiancate
la tristezza al buio è quel colore del fondo che porta
agli occhi carezze solo proiettate. Come sale
la luce dà sapore all’unguento del riso; il guitto
scivola prima che piova e venendo dopo
ne fa arte: inciampa ruzzola scarta: unto,
avvia un modo antico di sollevarsi in seguito.
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