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Dalla gobba è bella

 
 
La collina si addentra nel panorama senza fiato
con tutte le interrogazioni possibili
tranne: come dire che i passi sono orditi dagli occhi?
Non ha mai risposto. Se dovesse farlo,
partirebbe dai punti di fuga per chiarire
il vero disegno dell’orizzonte. Ma non tutto è a vista.
Il mare è davvero verticale, precipita
dalle nuvole che esaltano la sua profondità.
 
Verbena e tarassaco e coda di topo introducono
la solitudine della strada: cicatrice sulla gobba,
sotto specie di asfalto contaminato.
 
Fin qui le distanze svelano accenti locali,
poi d’improvviso la lingua lancia dal porto
una rete universale per quell’artificio dei gesti
che porta i conoscenti alle mani.
I nodi stringono le dita ai parapetti fino alle lacrime.
 
Sono questa rete, sono una sciabica:
se potessi muovere uno o l’altro braccio
per legare il tragitto a un nome soltanto,
non vorrei si togliesse l’abito.
 
La porto a letto, faccio l’amore con lei,
la trattengo nella pelle – è distesa, inane
prigioniera – ma non la spoglio
nemmeno dei serpentelli su questa strada.
Intrecciati come canapi,
senza arti, orditi dal sesso
come danzatori tribali.
 
Dritti
così che tutti i lampioni a vederli si abbattono.
 

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