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La domenica del lago

C’è già qualcosa che nasce a pelle del monte.
Furono altre zolle, e saranno di coscienza.
 
La confraternita delle piante si ravviva:
nessuna aveva ombre, e vanno folla al sole per la loro striminzita aurora;
ma il rumore del rotolamento era quello;
come quando rovescia il petto ampio una roccia
e coglie meraviglia di tenerezza ai lombrichi nuovi.
 
Erano il ventre della sassaia. La sua tenia angusta.
Non ce l’avrebbero fatta a sollevarla da sola,
la vita che si fa all’oscuro della chiara sorte trovata: animale e curva.
E nemmeno avremmo voluto fosse così.
 
C’è fretta ovunque e sottoterra i semi smagliano
la loro coperta. Sembra non manchi niente.
 
La neve scioglie il suo pensiero d’acqua e corre, inventa pozze di riposo:
non vedo muscoli perché qui non servono. I liquidi si liberano dalle trappole solide: lo fanno senza sforzo: perché non noi? Succederà una volta, una soltanto!, e non sapremo. Potesse essere qui, tra me e il mandorlo: il mandorlo gemma ancora. Avverrà così: 
il rombo delle braccia lungo gli argini del corpo,
la loro frattura in miriadi di puntute scaglie
infisse dal pensiero stesso alla schiera delle costole
senza doverci essere a principio un fondo di dolore.
 
I suoi rostri balordi, del ghiaccio - dico - ma non solo: scivoli, ma di che ti lamenti? Non sente l’erba con la gola umida.
Va alterna, va per gaudio agli alpeggi.
 
C’è un’unica via: un uomo muove un’ombra, e sono io
che introito vita
da spendere in città.

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