Il corridoio è lungo non più di sei o sette metri, lo percorro tutto in otto passi con falcate distese e veloci, poi lo rifaccio al contrario, e ancora di nuovo, avanti e indietro, senza stancarmi. All’inizio sento le suole delle pantofole che ritmano sul pavimento, i miei abiti bianchi di cotone che frusciano, ma non faccio caso a questi particolari, e vado avanti impegnandomi a fondo e rasentando il muro alla mia destra, poi arrivo alla fine del corridoio e mi volto di scatto, tornando subito indietro e conservando la stessa distanza dal muro, quello di fronte, ma sempre alla mia destra, senza fermarmi né perdere quella cadenza.
I muscoli delle mie gambe risultano ben impegnati, e all’inizio devo far forza sulla mia volontà per continuare così senza fermarmi, ma dopo un bel po’, quando perdo perfino la cognizione di quell’attività in cui sono impegnato, ecco che inizio a volare. La mia camminata si trasforma in una semplice piuma sollevata da un soffio di vento, e la mia mente esce da quell’istituto e se ne va in giro, visitando i luoghi migliori che riesce a pensare.
Gli infermieri quasi sempre mi lasciano fare: dopo le prime volte che mi comportavo in questa maniera hanno smesso di venir lì a interrompermi e a chiedermi sempre qualcosa, spesso solo per ridere di me e del mio impegno. Hanno capito, penso, la mia camminata è la cosa più importante di tutte, io non li vedo, sono distante, li lascio tutti là dentro, nell’istituto, e vago nei luoghi dove ho sempre desiderato recarmi. Quando ritorno mi sento contento e sfinito: mi siedo, raccolgo le forze, un infermiere mi porta dell’acqua, mi sento accaldato, sono pronto per tornarmene a letto.
Ieri ho bevuto un piccolo sorso di acqua da un bicchiere di plastica, come ogni mattina, ho guardato per un attimo l’infermiere che me lo stava porgendo e che più di tutti mi rimane maggiormente simpatico, e gli ho detto che mi dispiaceva; è vero, ho pensato anche dopo, mi dispiace per lui, ma anche per gli altri, che non possono venire con me a visitare nessuno dei luoghi dove mi reco ogni giorno; e così a grandi linee ho descritto a quell’infermiere i miei giri, i miei voli di piuma, la mia capacità di andarmene dove io voglio. In fondo la mia attività è come un dono, riesco ad essere libero dentro a queste mura per tutti noi consuete, gli ho detto, e lui sorridendo ha annuito, come fosse davvero in accordo con me.
Oggi è tornato, quell’infermiere, mi ha fatto qualche domanda, mi ha sorriso mentre io lo guardavo. Poi ha tirato fuori una siringa già pronta, ha detto che avevo bisogno di molto riposo, il mio aspetto non era troppo rassicurante. Mi ha fatto l’iniezione senza darmi dolore, poi ha riposto i suoi oggetti e senza guardarmi ha detto che il direttore non vuole che io prosegua a camminare nel corridoio. Me lo aspettavo, ho risposto, ma non importa, va bene lo stesso: ormai è cominciata la trasformazione dentro di me, mi sento sempre più come una piuma che vola, basta solo un soffio di vento, una porta che si apre, il respiro di qualcuno vicino, ed io vado via, come se niente riuscisse più a trattenermi.
Bruno Magnolfi
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