Scritto da © ferdigiordano - Mer, 18/07/2012 - 20:08
Sfere incessanti di sapore acquadolce. Rossi
fino al sangue delle sementi cupe. E bianco
l’epitelio spugnoso, ma duro
che inscena una mimetica di chiazze verdi
un testo maculato da passaggi di alqàntara.
Fausto disse di sé che rideva
la tempia avida sui denti quadri
elettronici, giocando convenevoli
spartiti da distonie verbali. Motore folle
la concomitanza tra i due,
luogo di costati molto all’ombra. Disse pure
fino a dicembre non c’è scalo, ma una piazzola
aerata dai morti
- amari, per via della residenza addolorata
sempre muta, contagiata dal marmo,
ferrato in quei polsi nei dagherrotipi.
Io, però, non gli credo. La sua voce singolare
oportuna alla mirra, all’incenso,
al dolo e a quel si dice
può apparire costa il corpo come
già ad enea, palinuro.
Ora, è vero che gli avevo raccontato
che a cavallo dello scoglio nella prima isola
dall’isola madre un uomo esangue,
con baffi chiari e ciglia di allume, zolfo nei capelli,
aveva innestato mitili sull’avorio lunare,
suonato il tremore della terra e il fuoco liquido
che ne innerva le vene; ed è certo che questa fosse
solo una visione - io la diffondevo; un io abraso,
piuttosto corroso -. E se da un relitto di storia navigata
tracima la spuma, sommerge fino ad apparire
bocca e saliva, lui come poteva sapere
che era suo il nome fiondato dai denti
quasi un gesto di parto?
Così al telefono, un mercoledì notturno.
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