Scritto da © ferdigiordano - Mar, 28/02/2012 - 10:52
L’universo è cieco,
non muto. Quasi mai racconta tutto il percorso,
solo tracce nebulose. Dovremmo invitarlo a parlare,
dovremmo riconoscerne la voce. Sarebbe utile chiarire
perché fanno rumore le sue pietre miliari. Hubble
aveva un cuore che non gli bastò, spostandolo dal rosso.
Si espande ovunque, sale sui treni, cambia città come abiti,
esplode continuamente o si contrae
nei buchi col suo fischer gravitazionale, quindi è in grado
di raccogliersi nell’infinitesimale, nel minuto.
Ha tutto il tempo che vuole. Tra la prima poppata
e l’ultima cena. Poi anch’io sarò altrove.
Dovrei uscirne,
determinare una nuova orbita; appena fuori
la porta, detestare la casa. Diventare più grande
della stanza, più esterno al letto (è facile, se non leggo).
Mi tenta buttare questa chiave appresa
nel primo secondo di pioggia. Ma non piove
e non serve l’omogeneità dei balconi. Non dovrebbe misurare l’uomo
l'altezza ad anni luce, piuttosto ad anni ombra; il tetto
frena il cosmo. Le sue isole in equilibrio come fari alogeni.
Eppure quotidianamente i lampioni si accendono
quasi fossero soli. Legati da fili sottili, fanno luce
dove ha sede il mistero delle direzioni: una panchina di marmo
è un vero sepolcro. Io mi siedo e aspetto lei, sorriso dell’universo, luna e l’altra.
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