Scritto da © Carlo Gabbi - Sab, 08/08/2020 - 00:05
Parte 3
Esistevano in me poche necessità in quel semplice vivere. I miei desideri si erano affinati, adottando le frugalità di un eremita. Sicché era ben poco di cui abbisognavo, e il tutto era disseminato attorno a me. Era il dono che ricevevo riconoscente dalla natura provvidenziale che mi circondava. Pescavo, cacciavo, leggevo, ma ancor più avevo tempo di sognare. Mi sentivo più che mai libero ora… e avevo pure molto tempo per far quei sogni che da sempre avevo voluto sognare…
Questo fu il modo che aprì uno spiraglio sulla finestra del mio futuro. Questo era l’unico modo capace di permettermi di scaricare dal deserto della mia vita quell’enorme fardello di dolori, che ben sentivo, ed erano più grandi di me. Era l’unico modo che mi aiutò a rinsavire. Era il modo per dar sepoltura al passato.
All’orizzonte vedevo ora spuntare una tenue luce. Era l’inizio della speranza vitale che cercavo, che volevo. Era la fiducia nascente e incominciai a plasmare le basi del domani, con progetti semplici, ma che sapevo erano possibili e realizzabili.
Non so esattamente quanto vissi in quel luogo. Ero incurante del valore del tempo o di cosa succedesse nel mondo che era per me ora null’altro che un passato remoto.
Vivevo studiando la natura che mi circondava e aspettavo che essa m’indicasse la via della mia nuova vita. Ogni giorno imparai di più da lei, osservando, studiando quelle cose vicino a me, e giorno dopo giorno, imparai le leggi fondamentali di come sopravvivere.
~*~
Per ore stavo disteso sulla sabbia infuocata del deserto che mi circondava, e godevo nella quiete apparente che era all’intorno e che sentivo invitante. Silenziosamente osservavo la magnificenza di quel nulla selvaggio. Ne gioivo, sentendomi vivo e parte di quella vasta immensità che mi attorniava. Ero pure cosciente dei mille pericoli esistenti, ma poi? Sapevo pure il valore di vivere per me stesso, in quel luogo primitivo, che era il riflesso del paesaggio Australiano.
In quell’immobilità e silenzio troppe volte ebbi l’impressione di essere l’unico essere vivente in quel luogo, ma non lo ero. Coabitavo con quei pochi animali selvatici, e vedevo la loro costrizione a ridimensionare le loro vite pur di vedere sorgere un altro domani sopra quel terreno impervio, in quel clima torrido, e in quella quasi completa mancanza d’acqua. Fu allora che sentii in me il bisogno di credere in Dio Creatore. Incominciai a pregarlo chiedendo il coraggio, la forza di poter sopravvivere un altro giorno in quelle condizioni impossibili.
Imparai molto. Cose piccine e minute, che la paziente natura m’insegnava. Sentii Il tempo scorrere lentamente, ma pur sempre continuo nello scandir delle ore di un ipotetico orologio, che in quei luoghi aveva perso tutti i valori perché qui non esistevano più le impellenti necessità imposte dalla civiltà umana. Mi adattai al nuovo ritmo di vita, dimenticando l’urgente premura del vivere. Fu per me una rivelazione comprendendo quanto questo modo di vita fosse la più veritiera.
Avevo imparato che concentrandomi potevo rivedere e correggere gli sbagli nel mio passato. Questo fu pure il modo di comprendere i misteri di quell’esistenza primordiale, dove solamente chi è forte può vivere. Imparai questo dagli animali selvaggi che vivevano vicino a me, e con loro accettai le semplici regole di quel vivere dettate dalla natura che mi circondava. E imparai a credere nei segreti della natura, segreti che facevano parte della vita di avventurieri o di quelle semplici creature che osavano vivere nell’assoluta desolazione desertica.
Furono quelle semplici regole che mi aiutarono nel tempo a ricuperare la calma interiore dell’animo, e che presto divennero imperative sulla mia vita, nel considerare e studiare le possibilità che avrebbero aperto il mio prossimo futuro.
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