Scritto da © Antonio.T. - Lun, 21/10/2013 - 20:45
Stadi nel cammino della vita. Estetica, etica, religione. Si legge Kierkegaard come l'autore della teoria degli "stadi". E si legge questa teoria positivisticamente, L'ultimo è meglio del primo, l'uomo spiega la scimmia. La religione é più in alto della poesia. Anche Hegel, da questo punto di vista, non scherzava. Leopardi, contemporaneo di Kierkegaard, irrideva alle "magnifiche sorti e progressive". Kierkegaard: testimone o poeta? E "chi" è testimone e che cos'è "poesia" ? La produzione letteraria di Kierkegaard è sconfinata e solo poche delle "sue" opere sono da lui sottoscritte. Che rapporto esiste tra Autore ed Opera? `
La domanda è importante poiché, a mio avviso, il. nucleo fondamentale del pensiero di Kierkegaard non può essere determinato in funzione delle riflessioni, a posteriori ed estrinseche, dello stesso Kierkegaard, riflessioni nelle quali l’intento "sistematico" dell’ Autore tradisce la volontà di scelta del Soggetto. Ed è questo il punto. Gli "stadi" si confondono e si compenetrano di continuo, nella vita di ciascuno. E ciò che si pensava superato, concluso, ritorna. La vita, l'esistenza non è il pensiero. Gli stadi non devono essere interpretati come soggiacenti alla logica dell'essenza. Kierkegaard è Don Giovanni ed Abramo insieme. La chiave di volta di tutta la produzione letteraria di Kierkegaard è un "evento" extraletterario: la rinuncia a Regina cioè la rinuncia alla donna che amava.
Ciò che un uomo è, la sua verità, il luogo ove essenza ed esistenza convergono, è approssimativamente definito non tanto dalla somma delle sue possibilità, quanto piuttosto da ciò che quell’uomo sente ed avverte come propria impossibilità. Scrive Kierkegaard: "Che cos'e un poeta? Un uomo infelice che nasconde profonde sofferenze nel cuore, ma le cui labbra sono fatte in modo che se il respiro, se il grido sopra vi scorre, suonano come una bella musica ... e gli uomini si affollano attorno al poeta e gli dicono: "Presto, canta ancora!" il che vuol dire:"Che nuove sofferenze scuotano il tuo spirito! " ...Ora, s'intende, critico e poeta si somigliano come due gocce d'acqua, solo che il primo non ha la sofferenza nel cuore, non ha la musica sulle labbra. Ecco perchè preferirei fare il porcaro ad Amagerbro e venir inteso dai porci, piuttosto che esser poeta e venir frainteso dagli uomini". (1) Ma Kierkegaard non ha scelta: "Invano oppongo resistenza. ll mio piede scivola. La mia vita diventa proprio un'esistenza da poeta. Si può immaginare niente di più infelice? Vi sono predestinato, e la sorte ride di me quando bruscamente mi fa vedere che tutto quel che faccio per oppormi, diventa momento di un'esistenza del genere" (2). Kierkegaard sente la verità della propria esistenza come la forza che lo piega inesorabilmente verso ciò da cui egli vorrebbe fuggire. La poesia per Kierkegaard è questa forza. La vita di un poeta non é la vita di un gaudente, di un “esteta”. Kierkegaard sperimenta, nella "forma" della poesia, l'intima verità del Cristianesimo. L’esistenza del poeta e del cristianesimo trascendono la volontà del soggetto: sono un destino, una vocazione. Non sono un lavoro. La chiamata alla poesia e della stessa sostanza della chiamata di Dio. Nella chiamata l'uomo rinuncia a se stesso e alla propria volontà. Kierkegaard è un testimone perché Kierkegaard testimonia, nella sua esistenza dolorosa e sofferta, che esiste qualcosa che non può essere dimostrato. Che la ragione non è tutto. Qualcosa che è più forte dell'uomo, qualcosa che ha spinto Kierkegaard a rinunciare a Regina. La poesia è un atto di fede: nulla la fonda e la dimostra come necessaria. E nessuno può dimostrare che sotto i panni di un borghese vestito a festa si celi il cavaliere della fede. Poesia e fede sono lo stesso. Per questo non vedo differenza tra il testimone della fede e il poeta della fede. Se la poesia è destino, la fede é χάρις, grazia, dono. Stadio estetico, etico e stadio religioso si compenetrano indissolubilmente l'uno nell’altro. Kierkegaard sperimenta, nel dolore e nella gioia, l 'intima verità del dono. Dono,δώρο . Essere che si dà, che si concede. L'Io è χατα διναμιν non é nulla di reale, ma ciò che resta al di là del cambiamento e del divenire. Questo è il paradosso: non è già più "Io", Soggetto perché, nell'Opera, il Soggetto non si riconosce più. L'Opera non è più il frutto dell’"operare". L’Opera non appartiene alla realtà -Wirklickeit - poiché essa non é il risultato del Wirken e cioè dell'operare-produrre effetti. L'Opera non è il prodotto della volontà programmatrice del Soggetto. Il significato della polinomia é proprio questo: l'autore (il Soggetto) non riconosce più l’opera come il risultato del proprio "fare", ma come offerta, destino, grazia. Le indicazioni offerteci da Kierkegaard negli scritti da lui firmati non risolvono dunque nulla; non possono offrirci luce. La firma “Kierkegaard" è sullo stesso piano della firma "Climacus" e cosi via. La firma Kierkegaard è una delle infinite voci dell‘uomo Kierkegaard. In questo senso il proliferare dei nomi, l‘uso della polinomia è indicativo della dissoluzione e del decentramento del Soggetto. La follia è il limite dell'opera. Il significato autentico della poesia è il superamento del soggetto che progetta il mondo, cioè l'Opera. La polinomia è l'epifenomeno della disgregazione della soggettività che nell'arte e nella chiamata di Dio sperimenta la forza della trascendenza. L'arte e la grazia ritornano ad essere, in pensatori essenziali come Kierkegaard, quello che sono sempre state: dono. Non più Opus, ma εργον. Il dramma di Kierkegaard é di aver sentito come inconciliabili due assoluti: l'assoluto della poesia e l'assoluto della religione. Ma oggi c'è posto, ci deve essere posto, nella struttura dell‘αλήθεια, per la poesia e per gli Dei perché sia la fede che la poesia sono Dono, presente (Present). Kierkegaard é il testimone che attesta il ritorno degli dei, cioè il ritorno, più che del Dio cristiano, del Sacro.
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