Scritto da © Antonio Cristof... - Mer, 07/08/2013 - 14:03
Brano tratto dal mio libro "Ad occhi aperti"
La nostra storia iniziò nel 1922, quando lo “Stato corporativo” affermava che lo “Stato liberale” era ormai spento e che il fascismo aveva compiuto il “miracolo” di inquadrare i lavoratori italiani nel sistema corporativo per dare il contributo delle loro esigenze all’accrescimento della potenza politica e spirituale dell’Italia.
Il primo aprile Mussolini gridava agli italiani: - A chi l’Italia? A noi! Se Patria non è soltanto un nome destinato ad indicare il territorio nel quale siamo nati; se Patria è un’entità viva alla quale ci legano bensì tradizioni, affetti, interessi, ma anzitutto doveri, soltanto nel fascismo oggi è la Patria!-.
Di lì a poco avvenne la completa demolizione dell’ordinamento di uno Stato retto a democrazia. Poiché si ritenne che la pluralità dei partiti in realtà non rappresentava la nazione ma una minoranza, ed impediva la formazione e l’azione di un governo forte, risultò evidente la necessità di sopprimere i partiti stessi e sostituirli con un partito solo: il partito del Regime. Fu l’inizio della dittatura, il cui massimo rappresentante, Mussolini, fu solennizzato col nome di Duce. Egli, nel settimo anno del suo governo, non fu quello che era stato fino allora: tali erano l’affetto geloso e la venerazione superstiziosa di cui gli italiani lo circondavano, che nessuno riusciva più ad immaginarlo come lo aveva visto in precedenza. C’era ancora troppa gente in giro che parlava del Duce chiamandolo semplicemente Benito. C’era ancora troppa gente che gli dava del tu e affermava di essere suo parente, o in intimità con lui. Ma Benito in quegli anni non esisteva più, egli era soltanto il Duce e non era in confidenza o in intimità con nessuno, perciò nessuno più aveva il diritto di dargli del tu.
In verità qualcuno c’era che avrebbe potuto farlo: si trattava di Umberto Palmesi. Costui abitava a Napoli in prossimità della zona collinosa detta “Arenella”, in una via intitolata al pittore Giacinto Gigante. Era egli stesso un pittore, ormai ultranovantenne.
Nel 1901 era maestro, ormai prossimo al pensionamento, a Gualtieri (Reggio Emilia), nella stessa scuola elementare dove per due anni (1901 – 1902) insegnò, allora diciottenne, Benito Mussolini. Fu proprio lui ad inculcargli in mente il seme del socialismo ed a metterlo in contatto, in Svizzera, con l’ambiente rivoluzionario europeo. Fu lui, infine, che lo presentò a Cesare Battisti direttore del “Popolo di Trento” che lo assunse nel giornale in qualità di capo redattore.
Ormai settantenne, Umberto, si ritirò con la moglie Ida nella sua vecchia casa al Vomero dove si dedicò esclusivamente alla pittura. Era un impressionista e come tale era attirato da una pittura naturalistica e antiaccademica. Dipingeva, dunque, dal vero cercando di riprodurre gli effetti della luce lunare sulle acque di Marechiaro o quelli della luce solare nelle folte campagne dell’entroterra napoletano.
Nel 1915, agli albori della prima guerra mondiale, la sua dolce Ida, ammalatasi di tisi, lo lasciò solo, tra lo sconforto più assoluto, nella grande casa, maleodorante di muffa per l’incuria nella quale versava, e piena di quadri appesi su ogni angolo di muro. Di tanto in tanto saliva su a dare una pulitina la moglie del portinaio, Giuseppa: una donnetta bassina e paffutella, che tra una ramazzata e l’altra, gli raccontava tutte le vicende della gente del palazzo.
Umberto aveva un solo parente, che, in verità, aveva visto poche volte: si trattava di un giovane benestante, di nome Adolfo, che aveva messo su un paio di alberghi tra Castellammare e Sorrento. Era, in realtà, un suo pronipote giovane e bello, superbo, scontroso ed ambizioso, che si era arricchito grazie ai beni lasciatigli in eredità da altri parenti.
Il 26 ottobre del 1922 Mussolini tenne a Napoli, in piazza del Plebiscito, alla vigilia della marcia su Roma di due giorni dopo, il suo primo comizio fascista. In quella occasione andò a sentirlo anche Adolfo, e fu allora che decise di far visita al prozio. S’incamminò lungo la salita della Cesarea che, allora, ancora odorante di rose e gelsomini, portava fin sopra Antignano, oasi di verde profumata “d’anepeta novella”[1] e sito di varie tavernelle “c’’o cane do’ trattore che abbaia e ‘a gallina che strilla ‘o pulicino”[2].
Era, ormai, quasi sera quando bussò alla porta del vecchio. Attese qualche minuto, poi, finalmente, udì il rumore di un pesante chiavistello che girava nella serratura. La porta si aprì scoprendo lo sbalordimento del prozio davanti a quella visita inaspettata. L’anziano uomo, in un primo momento, neanche riconobbe il nipote, e gli chiese:
- Chi siete? Cosa volete?-
Quando questi si presentò, lo fece entrare in casa usandogli le dovute maniere cortesi e facendolo accomodare in salotto. Era, in realtà, una piccola stanza nella quale ogni cosa recava i segni del tempo: un divano e due poltroncine con la stoffa strappata qua e là; al centro un tavolinetto tondo con un centrino grigio di polvere, e su di esso un antico servizio di tazze da caffè con manici d’argento resi matti dall’incuria; una consolle malandata con sopra sparse suppellettili varie. Alle pareti erano appesi un gran numero di quadri di indubbio valore. Si trattava di dipinti di epoche diverse, di autori famosi quali: Chambers, Monet, Renoir, Robert Delaunay[3], e perfino un Picasso della serie dei “Saltimbanchi”.
Adolfo, pur non essendo un intenditore, stimò che in quella stanza dovesse trovarsi appesa alle pareti una vera fortuna: - Zio…- disse: - Hai alle pareti quadri di grande valore…-
- Altroché! Molti erano miei amici dai tempi di Losanna e Parigi. Ma non è tutto qui. Vieni, ti faccio vedere dell’altro. E che altro!-.
Lo condusse a visitare le altre stanze, in ognuna delle quali c’era sempre un gran numero di quadri alle pareti: dalla religiosità del Piazzetta del tardobarocco, al naturalismo dello Smargiassi, uno dei pittori della “Scuola Posillipina”. E poi ancora: Luca Giordano[4], Vincenzo Gemito[5] , ed un pastorello del Cuyp[6].
La casa del vecchio era situata al secondo piano dello stabile. Si trattava di un appartamento composto da tre stanze e cucina. Lo studio era situato in fondo al corridoio. Dalla finestra si poteva ammirare in tutta la sua grandiosità il Vesuvio.
- Questo è tutto il mio mondo, o ciò che mi rimane di esso…- disse Umberto, facendo accomodare il nipote in quella piccola luminosa stanza nella quale regnava uno straordinario disordine di tele, pennelli, stracci, tavolozze sulle quali erano miscelati decine di colori in molteplici gradazioni diverse. Quasi al centro, davanti ad una vecchia e tappezzata poltrona, c’era un treppiedi con sopra una tela interamente ricoperta da un panno.
- Questa è la mia ultima opera.- disse il pittore.
Ed il giovane: - Di cosa si tratta? –
- E’ un autoritratto. -
- Si può vedere? -
- Non adesso. Quando sarà finito.-
Prima di andare via, Adolfo lanciò un ultimo sguardo ai quadri, poi salutò convenevolmente il prozio ed uscì di casa.
Umberto aveva un unico amico: il piccolo Benito, dieci anni, figlio di alcuni contadini del posto. Il ragazzino si recava ogni sera a portargli la cena. Era affascinato da quel mondo colorato che sapeva d’antico. Si soffermava estasiato davanti ai quadri, dei quali, comunque, ne ammirava il tratto, la maestria, il genio e poco ascoltava le parole del vecchio, tanto era incantato.
Un giorno gli chiese:
- Ma come può un uomo compiere opere d’arte tanto magnifiche?-
- Perché nel momento in cui le dipinge, egli travasa in esse la sua anima! – rispose il pittore.
La cena era l’unico pasto giornaliero del vecchio, che ricompensava i genitori di Benito con cinque lire al giorno. Il frugale desinare consisteva quasi sempre in una minestra preparata con dadi “Maggi”[7], un uovo sodo o un affettato di capicollo e un pezzo di pane di segala. Qualche volta, egli stesso, si preparava un bicchiere di “Sub vins”, ossia un concentrato d’uva mediante il quale, con l’aggiunta dell’acqua, si otteneva una bibita che surrogava a perfezione il vino più prelibato. Allestiva l’improvvisata mensa nello studio stesso, sopra un tavolinetto unto dai colori ad olio, in tante gradazioni da sembrare un caleidoscopio, come quello che un giorno aveva trovato in un cassetto del suo comò e regalato al piccolo Benito. Dopo cena, soleva sedersi dietro la finestra; sentire i lontani rintocchi delle campane del vespro; seguire con lo sguardo il tramvai che sferragliava su per la salita dell’Arenella, tra la mite luce diffusa dai lampioni di strada che tremolavano maggiormente al passaggio del pesante mezzo; guardare altri vecchi, seduti anch’essi dietro altre vetrate a meditare. Ascoltava la sera che rimaneva prigioniera nella brulla campagna circostante. Il suo sguardo spaziava fin su San Martino, dove riusciva ad intravedere i giardini claustrali, senza tempo, per i lunghi secoli di vita che su di essi gravavano. Dai Camaldoli proveniva il canto dei frati eremiti, e lì, sulla collina, ancora si accendeva sfrenatamente, coi suoi estremi bagliori, un incendio color rosso fiamma: era l’ultimo sole che, nell’ansia di opporsi al trionfo della notte, dispariva lentamente.
Nel buio, il vecchio girava per la casa soffermandosi davanti ad alcuni quadri, con i quali dialogava: - Oh, Claude, Claude! – bisbigliava davanti al dipinto di Monet: - Che bisogno avevi tu di imitare i pittori di Barbizon? -. Monet gli rispondeva: - Ero ancora attratto da Courbet, e la foresta di Fontainebleau era affascinante…-. E a Renoir chiedeva: - Augusto, tu che sei stato un poeta della vita quotidiana, fermata nei suoi eventi più umili e sublimata nel suo scorrere dal canto accordato del colore, tu, dimmi, che sapore ha oggi la mia esistenza, tanto solitaria da avere voi come miei unici interlocutori?-. E Renoir rispondeva: - Ogni momento della vita va vissuto con felice abbandono…-
In ultimo, si fermava davanti ad un quadro che egli stesso aveva dipinto e che ritraeva la sua adorata Ida, già inesorabilmente colpita dal tempo, ma ancora bella, esile, appena sfiorata, in un sorriso, dagli affanni della vita. Qui rimaneva per parecchio tempo, curvo, immobile, sorreggendosi al suo vecchio bastone, col capo chino e con lo sguardo alzato. Ricordava i giorni trascorsi insieme e gli venivano in mente quelle cose apparentemente futili e banali, come un gelato mangiato insieme in Villa Comunale a Napoli o una passeggiata sotto la pioggia sul lungo Senna a Parigi.
Una notte anche Ida gli parlò. Egli si era soffermato, come al solito, davanti al dipinto e notò che una luce inconsueta rischiarava il volto della moglie. In un primo momento credette che fosse il chiarore spettrale dei raggi della luna, ma essi non sarebbero potuti mai penetrare nel corridoio dove era appeso il quadro. Come per incanto, quegli occhi dipinti diventarono vivi; il sorriso sul volto della donna scomparve, tramutandosi in un’espressione di immensa tristezza; il suono di una voce tremula e sottile uscì dalla bocca, che parlava senza muovere le labbra.
- Umberto, mio adorato marito, guardati da quel tuo nipote. Egli è malvagio!-
Il giorno dopo bussarono alla porta, e quando il vecchio andò ad aprire, sulla soglia comparve proprio il nipote Adolfo, in compagnia del piccolo Benito.
- Abbiamo fatto conoscenza…- disse il giovane: - Siamo diventati grandi amici io e Benito! Sai, zio, ho disposto che la tua cena sia più lauta . Hai bisogno di mangiare un po’ di più, e meglio: meno insaccati, più latticini, formaggio e anche carne. Oh, mi è stato detto che ti piacciono tanto i dadi per il brodo, così ne ho fornito io stesso una buona quantità ai genitori del bambino. - . Dicendo, entrò in casa con grande spavalderia, lanciando occhiate a destra e a sinistra e posando lo sguardo principalmente su quei quadri di grande valore. Giunto che fu nello studio si sedette sulla poltrona menando una gamba a cavalcioni di uno dei braccioli:
- Allora? – disse: - Lo vediamo questo capolavoro? – ed indicò la tela coperta sul treppiedi.
- No. Non è ancora finito…-
- E quando lo sarà? -
- Quando il signor Umberto vi metterà dentro la sua anima. – interruppe Benito.
- Cosa dice il bambino? – sorrise Adolfo.
- Sciocchezze! Son cose che gli ho insegnato io. -
- Interessante! – fece Adolfo alzandosi dalla poltrona. Si avvicinò, poi, al ragazzino che era rimasto sulla porta della stanza, si accosciò per guardarlo in faccia e disse: - Sentiamo, cos’è questa storia dell’anima? -
- Il signor Umberto dice che tutti i quadri hanno un anima…-
- Davvero? – proruppe ridendo, Adolfo.
- Certo! – intervenne il vecchio: - …E non c’e alcunché da ridere! La pittura presuppone nei confronti della natura un atteggiamento particolare: si tratta di rispettarne la libertà e la spontaneità, ma nel tempo stesso di migliorarla eliminando o nascondendo ciò che offende l’occhio di chi guarda. Come la nostra anima, che è la parte migliore di noi. Essa è nascosta da qualche parte nel nostro corpo ed intercede nel momento in cui la nostra mente concepisce l’opera d’arte. - .
Benito continuò ogni sera a portare il desinare al vecchio Umberto, e da allora le visite di Adolfo divennero sempre più frequenti. Egli aveva architettato un piano diabolico per eliminare lo zio ed impadronirsi dei quadri: ognuno dei dadi da brodo conteneva una piccola quantità di arsenico, cosicché, il vecchio, ingerendo il veleno a piccole dosi, si ammalò e in breve tempo morì, senza che la sua fine, data anche l’età, destasse alcun sospetto. Lo stesso suo medico personale (la moglie del portinaio trovò il vecchio già cadavere sulla poltrona, davanti alla tela ricoperta, nel suo studio) nel referto scrisse: “Deceduto per cause naturali”.
Subito dopo il funerale Adolfo prese possesso dell’appartamento del vecchio zio. Quando vi entrò sembrò che lo facesse per la prima volta. Chiusa la porta alle sue spalle, fu subito investito da un tanfo di muffa e da una nuvola di polvere che un improvviso vento aveva levato contro di lui. Tossì più volte e si stropicciò gli occhi con un fazzoletto. Poi cominciò ad ispezionare la casa guardando con compiacenza il Monet, il Renoir, il Chambers, il Delaunay che finalmente erano suoi. Si soffermò un po’ di più davanti al Picasso, ma mentre era intento ad osservare il surrealismo di quel dipinto, la sua attenzione fu attratta dall’immagine della prozia Ida impressionata dal sapiente tratto del marito proprio su una tela lì accanto.
Sembrava che la donna lo guardasse con orrore e disprezzo. Allora, egli, sempre fissando il quadro, si spostò lateralmente ed ebbe la netta sensazione che l’immagine lo seguisse con gli occhi.
- Vecchia strega! Perché mi guardi così? – inveì. E poi ancora: - Aveva più di novant’anni tuo marito…Volevi che campasse in eterno? Era ora che tirasse le cuoia! Io non ho fatto altro che anticipare di poco quel che sarebbe stato un evento naturale…-.
Fu allora che dal quadro del Picasso gli parve levarsi una voce: - Assassino! -. Un coro rispose all’unisono anche dagli altri quadri: - Assassino!!! -.
Adolfo, come impazzito, si turò le orecchie e prese a correre nel corridoio fino a giungere nello studio. Qui, rinchiuse violentemente la porta alle sue spalle e vi si appoggiò sopra esausto e terrorizzato. Poi si girò lentamente ed il suo sguardo cadde sul treppiedi con la tela ricoperta. Era ormai scesa la sera; si sentivano i lontani rintocchi della campana del vespro, il frastuono del tramvai che passava, il canto dei frati eremiti dei Camaldoli. Barcollando si avvicinò alla finestra e vide di fronte i vecchi, seduti dietro le vetrate, a meditare. Uno di questi, gli sembrò essere proprio lo zio Umberto che alzò un braccio per salutarlo. Così si ritrasse sconcertato ed indietreggiando, senza volere, andò a cader seduto sulla poltrona. Fu allora che decise di tirar via il panno dalla tela che gli stava di fronte sul treppiedi. Lo fece lentamente, paralizzato dal terrore. Da sotto il panno comparve un dipinto ad acquarello: era un autoritratto in cui il volto del vecchio Umberto era immortalato in un’espressione aggressiva, minacciosa, piena di odio. Gli occhi erano rossi di sangue e la bocca era spalancata, come se volesse afferrare qualcosa o qualcuno con dei denti lunghi ed affilati pari a zanne di belva feroce. L’immagine s’illuminò subito di una luce spettrale ed un suono, più simile al grugnito di una bestia che ad una voce umana, le uscì dalla bocca:
- L’anima è nascosta da qualche parte del nostro corpo ed intercede nel momento in cui la mente umana concepisce l’opera d’arte. Qui c’è già prigioniera la mia anima, ma ne occorre un’altra: la tua!!! – E così dicendo, spalancò delle enormi fauci e divorò in un sol boccone l’esterrefatto Adolfo.
Il giorno dopo la moglie del portiere trovò il giovane accasciato sulla poltrona, morto d’infarto davanti al quadro: uno splendido autoritratto del vecchio, il cui viso era sorridente ed illuminato di straordinaria serenità.
29 giugno 2003
[1] Foglioline di alloro
[2] Si tratta di un verso tratto da una poesia di S. Di Giacomo (1860 – 1934), sommo poeta napoletano.
[3] Chambers (1726 – 1796) pittore e architetto. Monet (1840 – 1926), Renoir (1841 – 1919), Delaunay (1885 – 1941) pittori impressionisti.
[4] Napoli 1634 - 1705
[5] Napoli 1852 - 1929
[6] Dordrecht 1620 – 1691. Pittore olandese appartenente alla famiglia dei più noti Albert e Jacob.
[7] Brodo di manzo e pastina o riso con verdure. I dadi Maggi esistevano già all’epoca.
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