Scritto da © Antonio Cristof... - Ven, 03/01/2014 - 17:08
Dal mio libro AD OCCHI AAPERTI racconti di fanrasmi, streghe ed altre apparizioni - ED- IL FILO
LO STRANO CASO DI UN MEDICO CONDOTTO
Verso la metà dell’Ottocento, in gran parte dell’Italia meridionale, la povertà aveva dato origine al fenomeno del brigantaggio. Molti giovani, per amore o per forza, si dedicarono ad attività illecite come: bracconaggio, estorsioni, rapine e ricatti d’ogni genere. In realtà alcuni di questi non furono altri che squallidi banditelli di provincia che campavano alla giornata senza arricchirsi, e, spesso, per futili motivi, si ammazzavano tra loro. Ma, altri, più furbi, erano riusciti a costruirsi sulla pelle del loro prossimo un vero patrimonio, divenendo capi che, in paesi e campagne, facevano il bello ed il cattivo tempo, potendo anche servirsi d’uomini di pochi scrupoli che, ben retribuiti, eseguivano per loro conto delitti e malefatte d’ogni genere. Un capo era certamente diventato a Rionero, in Basilicata, don Vincenzo, un uomo che aveva fatto della prepotenza il proprio verbo e del delitto il proprio credo. Era costui, in realtà, di costituzione piuttosto esile e mingherlina, ma svelto e risoluto, con un coraggio che gli avrebbe permesso di affrontare da solo un branco di leoni. In duello aveva ucciso don Salvatore, altro capo zona e ne aveva ereditato il mito, rimanendo padrone incontrastato di tutto l’agro basilisco.
Nel 1915 don Vincenzo aveva ormai settant’anni e dimorava in un grande caseggiato con tanto di rocca poco fuori del paese che, in quel tempo, era un piccolo centro agricolo abitato ormai da poche anime, perché la stragrande maggioranza dei giovani era emigrata negli Stati Uniti, o in Argentina, o in Venezuela, cosicché il paesino era popolato in prevalenza da anziani, da donne e bambini sui quali egli con i suoi scagnozzi esercitava incontrastato il suo potere. A quell’epoca era medico condotto l’anziano don Nicolò Alfano, uomo dalle larghe vedute, bassino, con una barbetta brizzolata, sapiente ed intelligente oltre che serio professionista che svolgeva il suo mestiere con applicazione, meticolosità e grande perizia, tanto da essere tenuto in grande considerazione non solo in paese, ma anche nei centri vicini come: Venosa, Atella o la più importante Melfi. Consapevole delle misere condizioni della maggioranza dei suoi pazienti, il buon dottore, spesso, non chiedeva alcuna parcella per le sue prestazioni ed, in certi casi particolari, accettava qualche volta pagamenti in natura, così che per la steccatura di una gamba riceveva due salami; per la cura di una bronchite: un prosciutto; uova e galline per sindromi influenzali; caciocavalli per insufficienza renale. Don Nicolò viveva da solo in una casa di tre stanze al margine della contrada. Una stanza era stata adibita a studio medico e posto di pronto soccorso; un’altra era destinata a biblioteca, e nella terza ci dormiva. Per desinare, era solito recarsi in una vicina osteria dove era benvoluto e trattato come una persona di famiglia. Ma per raccontare dello strano caso di questo medico condotto dobbiamo fare un salto indietro nel tempo di cinque anni, e precisamente nel 1910, quando il Barone Giuseppe d’Onofrio d’Altona rese l’anima a Dio e lasciò in eredità ai suoi due giovani figli, Nicola ed Eugenio, tutti i beni del casato consistenti in denaro liquido (circa settantacinquemila lire), terre tutto intorno a Rionero, casolari, bestiame ed attrezzi per un valore complessivo di oltre otto milioni di lire.
Nicola vendette tutta la sua parte e se ne andò in Venezuela dove mise su una fattoria, mentre Eugenio si diede ad una vita dissoluta, dissipando in breve tempo l’intero patrimonio tra bella vita e viaggi, ma distruggendolo soprattutto con la complicità del demone del gioco che di lui si era irrimediabilmente impossessato. In meno di cinque anni, fatta eccezione delle sole mura paterne, perse a carte denaro ed ogni altra proprietà, indebitandosi a tal punto da fare continue richieste di soldi al fratello che, puntualmente gliene mandava. Nel 1915, una sera perse a carte proprio con don Vincenzo una somma tanto ingente da non potervi far fronte.
- Vi concedo quindici giorni per pagare. Vendete la casa. Ad ogni modo o mi date il denaro che mi dovete o mi piglio la vostra vita!- disse il vecchio prima di ordinare ai suoi uomini di riempirlo di botte.
Venuto a sapere di quest’ultimo avvenimento, il fratello Nicola lasciò frettolosamente il Venezuela per tornare in Italia e rendersi personalmente conto della grave situazione. Trovò Eugenio in una condizione economica tale da non potervi porre rimedio così su due piedi: - Ho già chiesto un’ipoteca su una parte delle mie proprietà in Sud America…- disse:- ma fra il dire ed il fare ci vogliono almeno due mesi. Dovremo domandare al vecchio una proroga…- Non terminò neanche di parlare che, essendo di già cagionevole salute per struttura fisica, probabilmente anche a causa dello stress al quale si era sottoposto, fu colto da infarto e fu portato dal fratello in casa del dottor Alfano.
Don Nicolò prodigò all’ammalato tutte le cure specifiche del caso, ma questi peggiorava giorno dopo giorno. Una notte il medico si sentì chiamare. In tutta fretta, si alzò dal letto ed accorse:- Ditemi, don Nicola, che volete?-
Il paziente lo guardò con occhi rossi e gonfi, poi disse:- Non ho potuto aiutare mio fratello…tra il dire ed il fare mi occorrono almeno due mesi. Vedete, don Nicolò, Eugenio è un dissoluto che ha sperperato tutti i suoi beni, ma, fondamentalmente è un bravo ragazzo, ed, inoltre, è mio fratello ed io gli voglio bene. E’ per questo che son venuto. E’ per questo che sono…ancora…qui. Voi solo potete aiutarmi: dovete agire in mia vece. Vi dirò io cosa fare.-
-Beh…- disse il medico:- Spero vivamente che tra non molto potrete muovervi ed agire per vostro conto, anche se con la dovuta cautela.-
-Non potrò…perché, vedete…io…sono morto! – disse Nicola.
Il medico rimase perplesso per qualche attimo, poi si portò la mano al mento, ed accarezzandosi la barba, esclamò:
- Ecco! Avete anche voglia di scherzare!-
Ma Nicola non rispondeva. Lo guardava con occhi vitrei, dai quali, lentamente, sgorgarono due lacrime che andarono ad irrigargli il volto. Don Nicolò, preoccupato, accese una lampada a petrolio per meglio vedere; pose una mano all’altezza dell’aorta del giovane, poi ne auscultò il cuore e ne controllò il respiro: era effettivamente morto!
- Ma…non capisco. Voi siete morto davvero!- disse.
- Infatti non respiro, il cuore non batte, il sangue non circola più.- rispose Nicola.
- Corpo d’un’appendicite!- esclamò allarmato, il medico:- Ma voi…voi siete un morto che parla e si muove! Com’è possibile questo? Che cosa volete da me?-
- Eugenio s’è indebitato con don Vincenzo e non ha di che saldare il dovuto. Ci occorrono due mesi di tempo. Abbiamo, quindi, bisogno di una proroga. Sarete voi a chiederla al vecchio…-
- Per Esculapio! – borbottò l’anziano dottore:- Don Vincenzo? Io…dovrei…Ma quello non ne vorrà sapere. Vi rendete conto con che razza di delinquente abbiamo a che fare?-
Il “morto” sorrise:- Adesso andate a dormire. Domattina di buon’ ora gli farete visita…- disse, ed infilò la testa sotto le coperte.
Don Nicolò avrebbe voluto chiedere dell’altro, ma non osò. Così, borbottando da solo, si avviò nella sua stanza:- Io? Chiedere a colui? Ma dico ci rendiamo conto con quale specie di canaglia vogliamo trattare?- Ruminando angosciosi pensieri se ne andò a letto e vi rimase inquieto fino a quando, suo malgrado, non fu vinto dal sonno.
La mattina dopo si svegliò di soprassalto, ed il primo pensiero fu di recarsi nella stanza accanto per verificare se avesse o no sognato quello che era accaduto la notte precedente. Non avendo trovato don Nicola a letto, tirò un sospiro di sollievo, subito dopo rimpiazzato da un pensiero angoscioso: - Ma se non è morto – disse fra sé – come ha fatto a guarire così presto?-. D’improvviso sentì un canto: era la voce del giovane che proveniva dal giardinetto annesso alla casa: “Dalla piana se vede la montagna, addò la zita mia giace sulagna, cu’ ‘na rosa dint’’a li capille, e l’uocchie che le menano faville”.
- Come…come state? – esclamò sorpreso il dottore, affacciandosi all’uscio.
- Freddo, cadaverico, ma sono pronto per andare a casa di don Vincenzo…- disse Nicola.
- Ma allora, non ho sognato?- replicò il medico pulendosi gli occhiali ed inforcandoli subito dopo per vedere meglio.
- No che non avete sognato. Son morto esattamente ieri sera.-
- Non…non capisco…-
- Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare!- concluse il “morto” parafrasando Dante.
I due si misero in cammino per raggiungere la vicina casa del vecchio bandito. Potete immaginare con quale riottosità don Nicola si recasse da costui, ben conoscendo il suo carattere iroso ed indolente anche se a quell’epoca si era ritirato dagli “affari” che, in sua vece, trattava il figlio Antoniuccio, che da lui aveva ereditato prepotenza e cattiveria. Era, quest’ultimo, un vero satanasso peggiore del padre, al quale, comunque, prestava sempre solenne obbedienza.
Era molto temuto per le sue continue angherie e per le “scappatelle” con le belle “zite” del paese, siano esse, sentimentalmente libere o fidanzate o vedove o sposate. Nel suo “darsi da fare” aveva anche avuto un’avventuretta con la ragazza di Eugenio che aveva prima ingravidata, poi abbandonata, così che lo sfortunato erede del barone d’Altona era stato, oltretutto, anche disonorato.
- Come farò a chiedere la proroga?- disse il medico, durante il cammino, al suo strano compagno.
- Non vi preoccupate punto per questo. Sarò io a suggerirvi le parole giuste al momento opportuno. Ora, sappiate che a voi solo medesimo è dato di vedermi ed ascoltarmi. Altri occhi non vedono, ed altre orecchie non sentono ciò che voi mirate ed intendete.-
Giunti che furono sulla soglia della grande casa di don Vincenzo, il medico, emozionato, si schiarì la voce prima di sbattere il batacchio su una grande faccia di leone che ornava il portone di ferro e legno massiccio, che, dopo qualche istante, cigolando, si aprì. Dietro di esso comparve Angela, una vecchia serva, tanto ricurva da suscitare meraviglia al solo pensare di come avesse potuto fare ad aprire una porta così pesante.
- Chi vulite? Chi site? – ella disse. Poi, aguzzando i due occhiuzzi quasi chiusi sotto il peso delle rughe:- Ah, siete voi don Nicolò? Che fate? Chi vi manda?-
- Don Vincenzo è in casa?-
- E come se ci sta! E ci sta pure don Antoniuccio co’ tutti li sgherri della malora! Ma, ditemi, siete aspettato?-
- No, non sono atteso, però vorrei parlare con don Vincenzo…-
-Ah, si? E che gli avete da dicere?-
- Ditegli che dovete parlargli della salute del figlio…- fece il “morto”
- Devo parlargli della salute del figlio…- ripeté don Nicolò.
- Il figlio? Ah…e che è? Non sta bene? – il medico non rispose, ed allora la vecchia:
- Trasite…trasite e aspettate…-.
I due entrarono in un ampio salone barocco con un camino grande quanto uno stanzino. Poltrone e divani erano sparsi un po’ dovunque su tappeti persiani. Grandi tendaggi alle finestre e dipinti antichi appesi ai muri un po’ dappertutto. Sul lato sinistro partiva una grande rampa di scale con passamano di legno ed ottone, che, curvando a destra, raggiungeva un piano superiore sul quale si affacciavano diverse stanze. Candelabri erano ritti sui mobili un po’ dovunque benché la casa fosse dotata di energia elettrica. La vecchia aveva fatto le scale a fatica ed era scomparsa dietro una delle porte, per ricomparirvi, poi, dopo mezzo minuto. Dall’alto, senza parlare, fece cenno di salire agitando più volte la mano, e quando i due giunsero sopra, disse:- Don Vincenzo vi vole vede’. Ha da sapere che iate truvanno sulla salute del figlio. Iamme, trasite.- I due entrarono, e la vecchia rinchiuse la porta dietro la quale rimase ad origliare. La stanza era in penombra essendo le tende solo in parte alzate. Si respirava a malapena per un’intensa puzza di cenere di sigari che il vecchio doveva aver fumato la sera prima o durante la notte. Don Vincenzo era mezzo vestito, con una giacca scura su un pigiama a righe, e la camicia che scendeva penzoloni. Aveva le mani in tasca ed era curioso di sapere che cosa avesse da dirgli don Nicolò sulla salute del figlio.
-Allora? – disse:- che m’avete da dire sulla salute di mio figlio che schiatta di bene e prosperità?-.
- Ditegli che il figlio è gravemente ammalato.- fece il “morto”
E il medico:- …Don Vincè, vostro figlio don Antoniuccio… è gravemente ammalato.-
- Malato? E che tiene?-
Il medico interrogò con lo sguardo Nicola che disse: -Ditegli che tiene la leucemia.-
- …Tiene la leucemia.-
- Ah, si? – rispose con arroganza don Vincenzo:- E voi come lo sapete? Che niente, niente, lo avete analizzato col pensiero? Mago siete?-
- Ditegli che ne siete sicuro, e che sarà bene che si faccia gli accertamenti. Ditegli che avrà codesto riscontro.-
Il medico ripeté per filo e per segno le parole di Nicola, mentre Don Vincenzo lo ascoltava divenendo via via sempre più serio e pensieroso. Dopo qualche istante di silenzio, disse:- E va bene! Mi avete impressionato. Vorrà dire che farà gli accertamenti.
- Ditegli che voi potete salvarlo…-
-…Io posso salvarlo.-
Voi? E come?- fece il vecchio bandito.
- Ditegli che prima di tutto dovrà concedere una proroga di due mesi per il pagamento del debito di mio fratello.- disse subito Nicola.
- Va bene, però temo che…-
- Non temete…parlate! – incalzò il giovane “defunto”.
- Va bene, va bene…datemi il tempo…-disse don Nicolò al suo insolito compagno attirando l’attenzione del vecchio che, prima si guardò intorno, poi chiese:- Ma con chi state a parlare?-
- Con nessuno, parlavo fra me – rispose il dottore, e poi continuò:- Voi conoscete certamente molto bene don Eugenio d’Onofrio d’Altona…-
- Si, ma che ci campa?-
- Ci campa che il baronetto vi è debitore di un’ingente somma perduta al gioco…-
- Dodicimila lire parate a calabresella sulla parola, ma senza copertura…-
- E’ stato un azzardo da parte vostra. Sapevate bene che don Eugenio non ha più una lira…- disse il medico.
- Ci ha le mura del padre…- rispose il guappo: - E ad ogni modo sono faccende sue. Io gli ho anche dato il tempo necessario per rendere a me medesimo il caseggiato, ma lui non ha voluto. Disse che m’avrebbe pagato ugualmente, ma in altro modo. Ora io non aspetto più, ed entro domani mi ha da dare ciò ch’è mio!-
- Ecco! – fece il medico, sempre più in evidente imbarazzo: - E’ proprio di questo che sono venuto a parlarvi. Facciamola corta! Dovete concedere una proroga di due mesi a don Eugenio. Il fratello ha chiesto un’ ipoteca su parte della sua proprietà, ma ci vogliono i tempi tecnici affinché questo avvenga. -
- Il fratello? A quanto ho saputo sta tirando le cuoia in casa vostra…Ma, a voi che vi preme? – disse il vecchio.
- Lui dice che posso salvare vostro figlio se concedete la proroga.-
- Lui?- don Vincenzo sgranò gli occhi.
Nicola diede uno spintone al medico condotto che subito corresse:- Cioè, no! Io dico che posso salvare vostro figlio, ma dovete concedere la proroga!-
Don Vincenzo rimase in silenzio, poi si sedette ed accese uno di quei sigari puzzolenti. Tirò un po’ di boccate, e, mentre il fumo a dense nuvolette si levava verso l’alto, disse: - Né, dottò, ma voi a niente a niente mi siete venuto a pigliare per il culo stamattina? Prima vi presentate dicendo che mi volete parlare della salute di mio figlio, poi vi azzardate a diagnosticargli, il diavolo sa come, una leucemia, infine mi proponete un incredibile baratto: salvare Antoniuccio dietro la concessione di una proroga per il debito di gioco di quello sciagurato…- Rimase di nuovo per qualche istante in silenzio tirando altre boccate al sigaro e scrutando da capo a piedi la figura del medico condotto: - Chi mi assicura che mio figlio è veramente malato? Chi mi dice che, ammesso che lo fosse, voi siete in grado di sanarlo?-
- Ditegli che faccia fare gli accertamenti al figlio, dopodiché voi lo curerete, a patto che egli lasci in pace mio fratello per i prossimi due mesi…- disse Nicola, ed il medico ripeté tutto per filo e per segno.
Durante il viaggio di ritorno i due non parlarono. Don Nicolò lanciava occhiate significative a Nicola senza profferir parola, e questi rispondeva, facendo finta di niente e rivolgendo il suo sguardo al paesaggio circostante. Giunti sulla soglia di casa il “morto” sospirò e disse: - Adesso me ne devo proprio andare…-
- Un momento! – fece allarmato l’anziano medico: - Ma, don Antoniuccio…-
Nicola capì subito cosa stava per dire il dottore e lo interruppe: - Don Antoniuccio è affetto da leucemia…-
- Ma voi come fate a saperlo? -
- I morti sanno tutto -
- Bene, - disse il medico: - ammesso che egli sia ammalato, ditemi, come farò io a sanarlo da questo male inguaribile? -
- L’unico male veramente inguaribile, è la cupidigia umana! – sentenziò Nicola: - Gli somministrerete dei bicchieri colmi d’acqua, uno al giorno per sei giorni…-
- Bicchieri d’acqua? – fece il medico, sgranando gli occhi.
- Direte che vi è diluito un nuovo preparato di vostra invenzione. Nel settimo giorno darete al paziente un pane, direte impastato con grano speciale, e così farete per altri cinque giorni. Nel sesto giorno, dopo questi cinque giorni, gli darete ancora un bicchiere d’acqua al dì per altri cinque dì. Nell’ultimo giorno gli farete bere un buon bicchiere di vino per festeggiare la guarigione.
Così detto, entrò in casa, si mise a letto e morì tanto definitivamente che il giorno dopo se ne celebrarono i funerali con rito solenne, processione e canti funebri.
Don Vincenzo fece fare gli accertamenti del caso ad Antoniuccio che risultò veramente affetto da una forma di leucemia che di lì a poco si sarebbe manifestata con tutta la sua virulenza. Allora il guappo fece chiamare don Nicolò e gli promise che avrebbe concesso la proroga del debito di don Eugenio se avesse effettivamente guarito il figlio.
Così come gli aveva detto il “morto”, il medico lo curò a pane ed acqua prelevati dalla credenza e dalla fontana della stessa casa dell’ammalato. Dopo diciotto giorni somministrò al giovane paziente un bicchiere di vino dicendogli di berlo alla salute certamente recuperata. Miracolosamente, Antoniuccio era guarito davvero, ed i nuovi accertamenti documentarono la totale sparizione della malattia. Angela, la vecchia serva di casa, aveva, però seguito di nascosto tutto l’operato del medico, e si era resa conto di come egli si servisse di semplice acqua e di tozze di pane raffermo per “curare” l’ammalato. Così un po’ per sua natura, un po’ per ingraziarsene i favori, spifferò tutto all’anziano e ricco guappo.
- Don Vincè…- disse:- che qua, certamente, v’anno pigliato, co’ rispetto parlando, per i fondelli. Antoniuccio bene sta, e pe’ grazia divina, sempre bene è stato. Don Nicolò, io l’aggio veduto, altro non fece che dargli da bere acqua di fontana e tozzole di pane raffermo e “annozzoso”. Io aggio veduto tutto: pigliava acqua pura e semplice pane di cucina, e diceva che era medicinale. Gli accertamenti? Sicuramente trappola è stata! Si vede che lo medico doveva essere in accordo co’ li altri capoccioni che hanno fatto le analisi, così che siete stato giocato malamente!-
Don Vincenzo non rispose e, convinto dal discorso della vecchia, mandò i suoi sgherri a casa di Eugenio.
Erano da poco calate le prime ombre della sera, era estate e i grilli trillavano in continuazione nella campagna circostante la casa paterna dello scapestrato discendente. Dall’interno, per la mancanza di energia elettrica, appena s’intravedeva, attraverso una sola delle tante finestre, fuoriuscire la fioca luce di un lume a petrolio. Il giovane stava consumando da solo una parca cena in una stanza quasi totalmente spoglia di mobili e suppellettili. Dalle pareti erano stati portati via tutti i quadri, dal pavimento tutti i tappeti. Ad un tratto i grilli smisero di cantare. I passi degli sgherri sul selciato che circondava tutta la casa erano pesanti e cadenzati. Uno di loro, fucile in spalla, bussò alla porta, mentre altri due si misero di lato; un quarto era rimasto poco lontano a scrutare sulla via maestra che nessuno sopraggiungesse. Quando Eugenio aprì i tre entrarono senza dir parola e si portarono al centro della stanza. Uno di loro disse:- Buonasera don Eugenio, stavate cenando? Disturbiamo? Ma non datevi pena, è roba da poco, ci spicciamo in un attimo. Ci ha mandati don Vincenzo per recuperare il denaro che gli dovete, avendolo perso al gioco…- Il baronetto, pallido in volto come un morto, non riusciva a profferir parola. – E che è? muto siete diventato? – disse lo sgherro. Estrasse dalla tasca un proiettile di pistola e lo piazzò dritto sul tavolo, poi aggiunse:- Mò, se voi non ci date oro, vi dovete pigliare piombo! Andiamo, siamo venuti ad esigere il dovuto…-
- Io…io…- balbettò appena Eugenio: - …come…potete vedere non mi è rimasto più niente, però assicurate don Vincenzo che…-
- Non pagate?- disse lo sgherro alzando la voce e puntando minacciosamente il fucile:- Allora morite!- e sparò due volte colpendo il malcapitato al torace e alla testa. Questi, per l’urto con la scarica di pallettoni, schizzò quasi in aria ed andò ad abbattersi di colpo ed esamine sul pavimento. Gli sgherri ne costatarono la morte, poi, silenziosi come erano entrati, se ne andarono senza neanche richiudere la porta alle loro spalle, mentre la luce della luna rendeva ancora più sinistre le loro ombre che sfilavano all’indiana e l’odore della polvere da sparo si spargeva per tutta la zona.
Antoniuccio, il figlio di don Vincenzo, sempre su mandato del padre, si era intanto recato a casa di don Nicolò. Quando giunse lo trovò che stava leggendo un libro. Il medico gli aveva aperta la porta tenendo ancora il volume nella mano destra con l’indice fra le pagine per non perdere il segno.
- Don Nicolò…Don Nicolò…- disse il giovane fermo sulla soglia con un tono sarcastico di biasimo:- Quello che avete fatto a me e a mio padre non si fa. E’ stata una cattiva azione, una cattiveria bella e buona sulla mia salute…-
- Ma che dite? – fece l’anziano medico: - Voi eravate veramente malato…-
- Ah, si? E come mi avete curato? Con l’acqua miracolosa e col pane prodigioso?- Senza dare il tempo al medico di spiegarsi, prese la pistola che aveva in tasca e fece fuoco più volte sul povero malcapitato che morì all’istante.
Allorché in paese si sparse la voce del duplice omicidio, molti sapevano, o avevano, comunque, visto o sentito, ma nessuno osò parlare. Quattro anni dopo, nel 1919, quando anche al sud erano giunti gli echi delle “squadre d’azione” di Mussolini contro gli scioperi e l’appoggio all’impresa dannunziana di Fiume, don Vincenzo ed il suo degno erede Antoniuccio la facevano ancora da incontrastati padroni, anzi si erano arricchiti ancora di più controllando la sottrazione di merci al pagamento dei diritti di confine e di dazio, così che, con una nuova, fiammante Fiat “modello 501” 4 cilindri, facevano la spola su e giù tra Rionero, il porto di Bari e quello di Brindisi dove spesso sbarcava materiale da contrabbandare.
Una notte, di ritorno dal capoluogo pugliese, Antoniuccio ed il padre, assonnati e stanchi fino al midollo, facevano di filato la strada asfaltata che da Venosa portava a Rionero.
Erano ormai quasi giunti in prossimità di casa, quando dal folto del bosco che costeggiava la strada sbucò una figura: era un uomo alto e magro, con in testa un cilindro, ammantato completamente di nero, così com’era d’uso cent’anni prima. Egli fece un cenno ed Antoniuccio gli si accostò con la vettura, forse anche per accertarsi dell’identità dello strano individuo nel timore che questi fosse venuto a svolgere losche e non autorizzate operazioni nella zona di loro predominio: - Chi siete, compare? E che fate costì vestito a quest’ora della notte in una contrada che non è certamente quella di casa vostra? – disse spavaldamente il giovane.
- Vi sbagliate – rispose l’uomo col volto interamente celato dall’ombra delle larghe falde del cilindro: - tutta le strade conducono alla mia dimora.-
- Comunque non siete di queste parti. Se volete un passaggio dovete prima darmi le vostre generalità.- disse il giovane.
- Non sono venuto per dare…- urlò l’uomo: - …ma per prendere! – e repentinamente, con il mantello che svolazzava per l’improvviso levarsi del vento, balzò in auto, e con il suo, trapassò d’incanto il corpo dei due uomini e scomparve misteriosamente.
- Ma, cos’era? Cosa è stato? – trasalì don Vincenzo.
- Non…non lo so…- disse Antoniuccio girandosi in ogni direzione per vedere dove fosse finito quell’uomo o quella cosa: - Forse abbiamo avuto un’allucinazione! – concluse dubbioso e rimise in marcia l’auto verso casa.
Giunti che furono aprirono il portone con una grande chiave, entrarono e lo rinchiusero subito dopo dietro di loro. Si era sul finire del mese di aprile, ma faceva ancora freddo ed il grande camino nella stanza, nonostante l’ora tarda, era ancora acceso. La vecchia Angela era in giro per la casa, anzi aveva appena chiuso la porta che dava in cucina e si avviava a salire la grande scala per andare nella sua stanza, quando don Vincenzo la chiamò: - Angela, vecchia strega! Visto che sei ancora in piedi, portami un bicchiere di vino. Ma la donna sembrò non dargli ascolto e continuò a salire la scala. –Angela?!- urlò Antoniuccio, ma lei era ormai al piano superiore ed in breve si infilò nella sua stanza.
- S’è insordita!- disse, allora, ridacchiando, il giovane: - Adesso vado a dirgliene quattro…- Ma il padre lo fermò: - Bah, lascia perdere. In fondo non ho voglia di vino.- disse, ed andarono a dormire senza neanche toccare cibo.
Il giorno dopo, quando don Vincenzo si svegliò, il sole era già alto nel cielo e, nonostante le tende delle finestre fossero completamente rinserrate, un raggio filtrava nella stanza ed il suo fascio di luce, facendo brillare lungo tutto il suo rettilineo percorso migliaia di granelli di polvere che volteggiavano nell’aria, andava ad illuminare una sedia sulla quale il guappo aveva poggiato scarpe e vestiti.
Don Vincenzo guardò un vecchio orologio appeso al muro della sua stanza: segnava mezzogiorno ed un quarto. Stirò le braccia, sbadigliò e sentì subito un intenso profumo di fiori. Udì un sommesso vociare che proveniva dal basso e si meravigliò non poco che la vecchia Angela non fosse ancora venuta a svegliarlo per portargli la prima colazione. Si alzò dal letto, mise una giacca da camera ed aprì la porta della sua stanza quasi contemporaneamente a suo figlio Antoniuccio. Si guardarono in faccia e si affacciarono alla ringhiera. Dabbasso lo stanzone era colmo di fiori a fasci ed a corone. C’era tanta gente che entrava, firmava su un quaderno posto su di un tavolinetto, poi riusciva.
Scendendo le scale carichi di meraviglia, Antoniuccio gridò: - Cosa succede? Che ci fa qui tutta questa gente? – Ma nessuno gli prestò ascolto. Giunti che furono nel salone dabbasso, il giovane chiese a Mario, uno degli sgherri fermo accanto al tavolinetto: - Cos’è accaduto? – ma il cagnotto sembrava non udirlo nemmeno. Fu allora che padre e figlio, impietriti, notarono che, ritto davanti al camino, c’era don Nicolò che sembrava aspettarli.
- Voi…-balbettò Antoniuccio:- Voi siete…-
- Si, sono io, morto per vostra mano…-
- E cosa siete comparso a fare, anima maledetta? – disse con la solita spavalderia e per nulla intimorito don Vincenzo.
Il medico rise, poi si fece serio e sentenziò:- Non sono io che sono comparso…ma voi che siete scomparsi!-
I due si guardarono in faccia come se avessero intuito qualcosa. Antoniuccio, compresa finalmente l’indifferenza dei presenti, risalì di corsa la grande scala ed entrò nella sua stanza dove vide il proprio cadavere disteso immobile sul letto di morte. Riuscì stravolto dalla camera ed entrò in quella del padre: anche qui c’era il cadavere di don Vincenzo che giaceva sul letto, immerso in decine di fasci di fiori. Allora corse alla ringhiera in preda al panico e si affacciò. Dabbasso don Nicolò si era servito un bicchiere di vino che alzò in segno di brindisi, guardò i due con malcelata soddisfazione ed esclamò: - Alla vostra salute! –
La notte prima, l’auto, forse a causa di un colpo di sonno del guidatore, era sbandata ed era andata a schiantarsi su un albero al lato della carreggiata. Nell’incidente Antoniuccio ed il padre avevano perso la vita. Inspiegabilmente, all’interno della vettura, erano stati rinvenuti un cilindro ed un mantello che non apparteneva a nessuno dei due morti.
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