Il fischio era quello dell’uomo vestito di bianco: il lattaio, col suo triciclo tintinnante per le bottiglie di vetro a bocca larga dalle quali travasava il misero quarto, o al massimo il mezzo litro, di latte che potevamo allora permetterci. Era un omone grande e grosso che compariva sul suo mezzo a pedali all’angolo del vicolo e fischiava a lungo per richiamare donne e bambini che correvano ad acquistare il prezioso liquido con bicchieri, bottiglie o scodelle.
L’ombra
In una di queste taverne, poco fuori del paese, Nicola si era recato a bere il suo buon bicchiere di vino bianco. Era costui un giovane di bell’aspetto e non era, quindi, difficile credere che potesse avere un certo successo con le donne della zona. Per questo suscitava l’invidia degli altri uomini ed in particolar modo di un tale don Eugenio, un ricco individuo sulla quarantina, l’unico a possedere un’automobile: una fiammante Balilla nella quale si pavoneggiava su e giù per il paese. Una sera, durante un banale litigio, Eugenio apostrofò Nicola con l’appellativo di “femminello”. La reazione del giovane fu immediata e violenta. Egli, forte com’era, sferrò un cazzotto a don Eugenio che andò giù a gambe levate. Da allora quest’ultimo non fece altro che attendere il momento propizio per vendicarsi dell’affronto subito.
- Ti denuncerò per gli imbrogli sul peso che fai nel tuo mulino! – gli disse un giorno. Ma di lì a poco, proprio mentre tornava sul suo calesse dall’essere andato a fare provviste, fu freddato da una schioppettata sparatagli da una mano misteriosa. L’assassino non fu mai scoperto, ed il delitto fu archiviato come avvenuto ad opera d’ignoti. In seguito a questa morte infame ed assurda l’intera famiglia dell’uomo cadde nello sconforto e nella miseria più nera. Ma per Rosa il destino aveva riservato un altro gran dolore. La masseria di don Eugenio sorgeva su una piccola collina a lato di una strada lungo la quale c’era anche la casa di Nicola. Per tornare alla sua abitazione il giovane doveva, quindi, passare a lato del portico del ricco uomo. Ebbene, una notte il giovanotto stava percorrendo stancamente quella via. Aveva da poco lasciato Rosetta e, cammin facendo, il suo pensiero era ancora rivolto all’ultimo bacio scambiato con la ragazza. Don Eugenio si era appostato, armato di coltello, proprio dietro un portico, e, quando il giovane passò, gli fu alle spalle e gli urlò: - Ohè, Nicolino! Ti ricordi dei cazzotti che mi hai dato? Ora va a malora tu e tutte le tue cose! – e senza dargli neanche il tempo di replicare gli piantò la lama nel petto, quindi si caricò in spalla il corpo, lo portò in un boschetto lì vicino, e lo sotterrò. Cosicché di Nicolino non se ne seppe più nulla. Lo stesso don Eugenio sparse la voce che se n’era scappato al nord con una donna maritata di un paese vicino. Così la povera Rosa, già distrutta per la morte del padre e le tristi condizioni della sua famiglia, dovette incassare anche quest’ultimo duro colpo. Il suo carattere s’indebolì, e fu così che cedette alle lusinghe e alle proposte di matrimonio del bieco don Eugenio che, di lì a poco, divenne il padrone di quasi tutto il paese. Si circondò anche d’uomini senza scrupoli, per mezzo dei quali esercitava un incontrastato potere sulla gente del luogo. Erano scagnozzi di malaffare, pronti ad usare le mani, e finanche le armi, per imporre la propria volontà sui più deboli. Erano una vera e propria guardia del corpo di don Eugenio contro possibili ritorsioni e vendette di chi aveva subito prepotenze e soprusi. A farne le spese fu la povera Rosetta che, trovandosi a passare per una viuzza poco fuori il paese, fu assalita, picchiata e violentata da tre individui che, lasciandola esanime e mezza nuda in terra, le dissero: - Questo è per far pagare il conto a quel bastardo di tuo marito!-
Una notte di agosto Rosetta non poteva dormire per il caldo che le toglieva il respiro, così pensò bene di alzarsi ed uscire fuori sul balcone padronale per respirare un po’ d’aria fresca. La nottata era fantastica, la scarsissima illuminazione permetteva una perfetta visione della volta stellata dove, tra il luccichio degli astri, balenava qualche stella cadente. In basso, al centro del cortile, c’era un solo lampione a petrolio che rimaneva acceso tutta la notte. Rosetta sentiva i passi dello sgherro che era a guardia davanti al portico: essi si allontanavano e si avvicinavano, poi udì lo schiocco di un fiammifero (e appena ne intravide il bagliore) col quale l’uomo si accese una sigaretta. Ad un tratto vide un’ombra di un altro uomo allungarsi davanti al portico; questa, senza esser veduta, entrò nel cortile e scomparve in un buio anfratto. La donna, allarmata, si chiese: - Chi mai potrà essere? – e grande fu la sua meraviglia quando vide che l’ombra, riuscendo dall’angolo buio, era solo una sagoma scura, senza nessuno che la proiettasse! Essa attraversò il cortile e si fermò sotto il lampione, vi girò intorno per qualche secondo, poi, improvvisamente spiccò un volo impazzito, molto simile a quello di un pipistrello; volteggiò in aria per altri pochi secondi, dopodiché si diresse proprio verso Rosa, le sfiorò il viso e scomparve nella sua camera da letto dove dormiva anche don Eugenio.
- Ho visto un’ ombra…- rispose la donna.
- Servo vostro, don Eugenio…- rispose lo sgherro comparendo sotto l’arco appena appena illuminato.
- State tranquillo. Nessuno passa di qua che io non veda. Felice notte, padrone!-
Rosa lo seguì con lo sguardo e notò per un attimo che l’ombra proiettata dal marito sul muro dietro il talamo nuziale, le appariva diversa, era un’altra sagoma che le ricordava vagamente qualcuno.
Don Eugenio dormiva ancora quando un timido raggio di sole s’infilò nella stanza attraverso un’imposta lasciata aperta. Svegliato dalla luce, l’uomo, prima sbadigliò, poi si sgranchì le braccia, infine si mise a sedere sul letto stropicciandosi gli occhi.
- Nicola! – urlò Rosa.
- Non è stata, dunque, un’altra donna a portarti via da me?-
Rosa, con la mano tremante accarezzò ancora il muro mentre le lacrime le scorrevano copiose sul viso disfatto, sul collo, fino a penetrare a rivoli nel seno appena ricoperto da una sottoveste di seta.
Quella mattina stessa Rosa si recò, armata di pala, nel boschetto presso la quercia spezzata e scavò nel terreno. Scavò, scavò, fino a scoprire il corpo del povero Nicola con le mani protese in alto, nell’atto estremo di spostare la terra che lo ricopriva. Fu allora che ebbe l’assoluta certezza di non essere diventata una pazza visionaria. Non avvisò la gendarmeria perché i lutti ed il dolore che le aveva arrecato quell’uomo, la vita infelice che le aveva dato, le umiliazioni che aveva dovuto subire la indussero a voler farsi giustizia con le sue stesse mani. Quando quella notte don Eugenio rincasò, ne udì la voce provenire dal cortile, era completamente ubriaco. Egli diede disposizione ai suoi uomini per la guardia notturna, poi si portò sotto il lampione al centro del cortile e cominciò a gridare: - Rosa!…Rosetta, sta arrivando il lupo cattivo…Ma bada che sono un po’ fiacco! E sai chi mi ha sfiacchito? E’ stata Virginia, la sartina. Quella si che ci sa fare! Ti prende certe misure! –
- Allora, mia cara? – sbraitò don Eugenio trangugiando ancora del vino da una fiaschetta che stringeva tra le mani. – Ho ancora voglia di donna, sai? Ma che fai dormi? Svegliati lurida zoccola… che ho ancora… voglia…di…- e, dicendo dicendo, cadde sul letto e si addormentò di colpo. Durante la notte Rosa, prima lo pugnalò al cuore, poi gli tagliò la testa!
Nonna Elisa era una vera miniera di racconti fantastici, uno scrigno di storie di fantasmi, streghe o altre apparizioni. Aveva un modo di raccontare incessante ed intenso, ricco di particolari con i quali riusciva a farti vivere la vicenda quasi da protagonista, a farti sentire parte di essa, a farti provare indicibili emozioni, riuscendo ad impressionarti anche con il racconto più banale. Imitava l’ululato del lupo mannaro, il fischio sinistro del vento nelle notti tempestose, lo sferragliare di un treno, la furia del mare, le voci di streghe, orchi, maghi e fate. E più ti vedeva interessato alla narrazione più si accaniva a coinvolgerti. Ti sembrava così di stare in un bosco incantato, o in un castello stregato, in un antro segreto, o in una casa infestata da spiriti malvagi. –Ucci, ucci, ucci, sento odor di cristianucci! – tuonava minacciosa, alzando le braccia come per ghermire noi bambini che andavamo a nasconderci sotto il letto.
Il lupo mannaro di Rionero, Si narra che alla fine dell’800 a Rionero, un paesino in provincia di Potenza, ci fosse il lupo mannaro. Molti lo avevano sentito urlare nelle notti di luna piena, alcuni giuravano addirittura di averlo visto nottetempo saltellare su quattro zampe nei campi di grano. Si raccontava che sbranasse interi greggi di pecore e che uccidesse chiunque lo incontrasse, ma in realtà non c’erano mai state stragi di ovini di quella portata, né particolari omicidi da potergli attribuire. Eppure la sua leggenda volò rapida per tutto il territorio, ed ancora oggi, nei bar del centro, parlano del lupo mannaro di Rionero.
Certo, in quel tempo, a nessuno mai era venuto in mente di avvicinarlo ed accertarsi della vera natura del suo male. In realtà si trattava di Giuseppe, un fornaio affetto da asma bronchiale. La sua malattia si era talmente aggravata da pregiudicarne finanche lo stato psicologico. Era così che egli usciva di notte, credendo che l’aria fresca gli facesse bene ai polmoni; scorazzava per strade, valli e boschi in preda a tremenda frenesia dovuta proprio alla cattiva respirazione. Era così che, non riuscendo a respirare, emetteva gemiti e rantolii acuti e terribili, suscitando paura tra coloro che lo sentivano o lo avvistavano.
Certo fu che Giuseppe era divenuto ormai un pover’uomo, solo, abbandonato da tutti, senza conforto e senza speranza. Morì in una notte d’autunno, per strada, come un cane randagio. Il suo corpo fu ritrovato seminudo, ricoperto da foglie e fango. Ma la leggenda non ebbe fine qui. Una bella mattina il guardiano del cimitero si accorse che la sua fossa era vuota e che il suo cadavere era sparito. Alcuni giurarono di averlo sentito ansimare tra le reste del grano o ululare alla luna nel boschetto di castagni. La gente, dunque, continuava ad averne paura e per questo evitava di uscire al calar delle tenebre, specialmente nelle notti di luna piena. Ma proprio in una notte di luna piena, don Antonio il bottaio era di ritorno da Monticchio, una località molto distante da Rionero, dove era andato a prelevare certe botti da riparare. Era all’incirca l’una, quando il carretto sul quale viaggiava urtò con la ruota una grossa pietra. Per effetto del colpo la puleggia scostò via il quadrante di ferro ed uscì dall’asse, e solo per puro miracolo il carretto non si rovesciò interamente, ma rimase in bilico. Grande fu subito la disperazione e la paura del povero bottaio quando s’accorse dell’enormità dell’accidente: - San Francesco mio! – disse – E mò come faccio? Mi ci vorrebbe una trave per far leva, ma è troppo buio e non ho neanche una candela…Madonna mia Santissima, aiutami!-
- Chi sei tu? Uomo o demonio?-
- Mamma mia!!!-
- E come? Né io, né tu siamo forti abbastanza…-
- Ma sei tu vivo o morto?- chiese il bottaio senza avere risposta, e poi salì a cassetta e continuò: - La gente dice che tu ammazzi…La gente dice che spargi il terrore…-
- Come posso ringraziarti?-
Il bottaio salutò e si allontanò nella notte. Arrivato a casa sistemò la candela sul comodino accanto al letto e si addormentò. Il mattino dopo, quando si svegliò, grande fu la sua meraviglia quando si avvide che al posto del cero vi era un dito umano. Senza perder tempo si recò a Rifreddo presso la cappelletta della Madonnina, contò cinquanta passi a nord e cominciò a scavare. Scava e scava, trovò il corpo di Giuseppe: era orrendamente mutilato, il petto ed il ventre gli erano stati aperti ed erano stati portati via cuore e stomaco. Il cadavere del poveretto era stato smembrato da loschi individui, che avevano venduto i suoi organi a disonesti studenti di medicina di Potenza. Notò, inoltre, che ad una mano del pover’uomo mancava proprio un dito. Per interessamento del bottaio il corpo di Giuseppe fu ricomposto ed ebbe degna sepoltura nel cimitero di Rionero. Sul fosso, pietosamente, fu piantata una croce di legno ed una piccola lapide; “ QUI GIACE COLUI CHE FU BUON UOMO E NON LUPO MANNARO”.
- Signora Elisa, - disse- ne ho fatti un po’ di più per il bambino. Questo posso darvi e questo vi do…-
Notte Santa
“Dint’’a nuttata, la Madonna e San Giuseppe arrivarono a Betlemme…”
San Giuseppe disse: - Maria, sei stanca? – e la Madonna, preoccupandosi per l’anziano marito, rispose con un’altra domanda: - Giuseppe, lasso sei?-
- Chi siete? Che volete? – disse con voce roca.
- Potete pagare? -
- Non mi occorrono falegnami. Né cibo, né stanza!-
La seconda forchettata di capellini era piena di formaggio. Masticai ed ingoiai con appetito. Che buon sapore!
Quel piatto di pasta fumante stava trasferendo in me, forchettata dopo forchettata, un calore che andava ben oltre quello fisico. Era un calore umano, dovuto alla generosità della nostra vicina che aveva diviso con me quel poco di pasta ed un pezzetto di burro che aveva.
Avevo appena finito di mangiare, quando sulla porta comparve Gianni, un altro vicino di casa, padre di sette figli che, più di una volta, essendo anch’egli in precarie condizioni economiche, era stato aiutato dai miei nonni.
Anche quello fu un miracolo!
[1] Fasci
[2] Grembiule.
[3] Unto.
- Blog di Antonio Cristoforo Rendola
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