Scritto da © Amina Narimi - Ven, 20/05/2016 - 19:20
Pasqua delle rose è venuta così,
a corpo nudo, sotto i resti della yurta,
l’odore di un bambino,
nella mia visione semplice,
dividendo la nostra stessa cura
intoccata e lieve.
Qualcosa si è volto di lui, si è aperto,
ha offerto il passaggio al morire del tempo
due giorni e ottanta mondi
il giro di distanza,
due forme di pane lievitato
con pochi decimi di efa
e un grano nuovo, sollevato,
al centro della stanza. - Col suo premio
eravamo tutti insieme antico suono
nello stesso luogo delle bestie
a cospargere il secco di rugiada,
con tutta la gioia sulle spalle
e i nostri bambini nelle bocche
che parlavano all’indietro
con una voce profonda, e perfetta
una tale bellezza attendeva il canto del grano
l’aratura dei campi la semina e noi-
fino alla benedizione dei granai-
quanto ridere, per i sentieri di giorni e giorni,
nella cavità prodigiosa degli sposi-
una ciotola appena e il primo anello
del vuoto posava l’orecchio
sul petto degli alberi- lo stesso sangue.
Con lo stesso sangue caldo
fa di me la tua mano-
spezzando i vasi rossi, il rito e l’occhio,
in modo indelebile al germe al cenno
al neuma- dell’ultimo raccolto,
la più debole voce che si leva
coprirà tutte le lingue. E tu,
visibile alla luce che solo il nulla descrive,
tu, con la stessa lingua,
respira,
a suo modo, canta.
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