Scritto da © Amina Narimi - Dom, 03/07/2016 - 20:51
Posso solo raccontarti di quel poco
intravisto per bagliori nei tuoi occhi
la santità del movimento -non il detto,
ma ciò che ho ascoltato, riponendo
le parole e i pensieri sotto l’aria
il soffio ed il respiro, abbandonata
alla dolce eucarestia
della mia fiorita solitudine-
Posso solo raccontarti di quel poco
intravisto per bagliori nei tuoi occhi
la santità del movimento -non il detto,
ma ciò che ho ascoltato, riponendo
le parole e i pensieri sotto l’aria
il soffio ed il respiro, abbandonata
alla dolce eucarestia
della mia fiorita solitudine-
così ritratta, nei penetrali dell’amore,
nel sonno infantile dell’altro tuo lato,
messa alle sorgenti di ogni croce,
rivivo il nostro antico inchino.
Ti chiamo mio fratello, e ancora padre
il mio profondo estremo,
piena di gioia e di capelli lunghi,
nella semplicità di una candela accesa
al chiaro dell’ignoto. Sono ora
tutti i nomi ed ogni forma ricordata,
dilatata nel mistero- in sinu Patris-
scintillante a meraviglia. Dentro il cuore
ho condotto, per te, ogni preghiera,
ogni gesto del presente, naturale,
mangiando alla tua bocca contagiosa,
è nato il mondo, da cui nessuno torna,
fedele al passo che matura il pane.
Sei tu la grande morte e il mio risveglio,
chi cerca e chi è cercato in te è scomparso
ed ogni giorno ricomincio dalla stessa
pozzanghera di pace trasparente
in cui il cielo si rispecchia ed il tramonto
indugia con la luce, nel miracolo
del mio laghetto azzurro come il mare
Per gradi di visione altro non c’è
che verità accese dallo squarcio,
rannicchiata nella terra, silenziosa,
con tutto il corpo, e le parole dietro,
strappando via all’ inferno un nuovo nome
come le più anziane levatrici. Con le mani
ho condotto alla luce la follia
fra tori e vacche e pioggia antecedente
alla ragione. E’ grazie a te,
se luccica di sacro questa fossa
sulla quale poggiare Il nostro arrivo,
l’ultimo punto di una contrazione
dove hai posto la sposa e il bambino
con la pelle luminosa del serpente.
Risalgo alle corone, alle promesse,
leccando ogni ferita delle bestie,
per mangiare la polvere divina,
per offrirti quattro figli con mia madre.
Con le anche spalancate e nuovi piedi,
coi reni pronti a uscire nella luce,
lungo la sola cicatrice conosciuta-
la più sottile che lega il mio cordone
al mondo del divino ombelicale-
scesa nel mattino a quattro zampe
rendo il nome ad uno ad uno agli animali
fino in fondo alla mia Gerusalemme-
risalgo folle su due piedi infine vivo
come un germe tutto intero che si affida
al tremore più solenne della terra
nel sonno infantile dell’altro tuo lato,
messa alle sorgenti di ogni croce,
rivivo il nostro antico inchino.
Ti chiamo mio fratello, e ancora padre
il mio profondo estremo,
piena di gioia e di capelli lunghi,
nella semplicità di una candela accesa
al chiaro dell’ignoto. Sono ora
tutti i nomi ed ogni forma ricordata,
dilatata nel mistero- in sinu Patris-
scintillante a meraviglia. Dentro il cuore
ho condotto, per te, ogni preghiera,
ogni gesto del presente, naturale,
mangiando alla tua bocca contagiosa,
è nato il mondo, da cui nessuno torna,
fedele al passo che matura il pane.
Sei tu la grande morte e il mio risveglio,
chi cerca e chi è cercato in te è scomparso
ed ogni giorno ricomincio dalla stessa
pozzanghera di pace trasparente
in cui il cielo si rispecchia ed il tramonto
indugia con la luce, nel miracolo
del mio laghetto azzurro come il mare
Per gradi di visione altro non c’è
che verità accese dallo squarcio,
rannicchiata nella terra, silenziosa,
con tutto il corpo, e le parole dietro,
strappando via all’ inferno un nuovo nome
come le più anziane levatrici. Con le mani
ho condotto alla luce la follia
fra tori e vacche e pioggia antecedente
alla ragione. E’ grazie a te,
se luccica di sacro questa fossa
sulla quale poggiare Il nostro arrivo,
l’ultimo punto di una contrazione
dove hai posto la sposa e il bambino
con la pelle luminosa del serpente.
Risalgo alle corone, alle promesse,
leccando ogni ferita delle bestie,
per mangiare la polvere divina,
per offrirti quattro figli con mia madre.
Con le anche spalancate e nuovi piedi,
coi reni pronti a uscire nella luce,
lungo la sola cicatrice conosciuta-
la più sottile che lega il mio cordone
al mondo del divino ombelicale-
scesa nel mattino a quattro zampe
rendo il nome ad uno ad uno agli animali
fino in fondo alla mia Gerusalemme-
risalgo folle su due piedi infine vivo
come un germe tutto intero che si affida
al tremore più solenne della terra
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