Scritto da © giuseppe pittà - Dom, 29/04/2012 - 11:25
È soltanto venerdì, domani sarà il giorno più sereno, che come Leopardi quello che più mi pesa è la domenica. Neanche la Roma mi risolleverà, ne sono sicuro, ci sta il Varese e mi sa che finirà senza il più piccolo gol, quest’anno va così, bisogna aver pazienza. Intanto la sveglia è di prima mattina. Venerdì 25 aprile 1969. Giorno di tenue sole, di buona luce e di splendidi pensieri. Roma è magnifica. Il giusto fresco del mattino e la giusta prospettiva di tante ore dedicate a me stesso ed alla voglia di farmela a piedi, senza fretta, perché voglio gustarmela tutta, questa città nel giorno della festa. Già, che oggi è festa e mica una di quelle da niente, è la Festa della Liberazione. Ieri sera Paolo, che è esperto di cose di storia, ci ha raccontato quelle robe dure della Resistenza, che arrivano a Torino e Milano e mandano finalmente alla sconfitta i tedeschi ed i fascisti. Venticinque aprile del ’45, una data che per uno come me ha ancora un significato molto forte. Eh si, perché vengo da terre dove neanche riescono a capire cosa vuol dire resistere, con questo osceno impero della DC, che tutto può e a cui tutto si deve. Oh, mio Molise così morto, così finito. Nel mio paese, che si chiama Oratino, ancora si fanno la croce quando passa un comunista. Se ci penso è una cosa crudele e assai brutta. Se solo penso che i comunisti, tanti, troppi, hanno dato il sangue per la libertà di questo popolo italiano, e naturalmente anche molisano, mi vengono le crisi, mi vengono. Mah, così va il tutto, che sembra davvero difficile riuscire a far camminare un buon futuro tra la vera libertà di tutti. Alle Fosse no, magari ci vado domenica, che ho meno cose da fare e posso starci più tempo. Intanto già ieri, con i compagni di Roma, abbiamo pensato di fare alcune buone azioni, oggi. Così si va, verso le 11, a San Lorenzo, a casa di Paolo, che ci ha promesso di portare un certo Signor Augusto, che è stato partigiano ed ha un fratello che se l’è scampata per un pelo dalla rappresaglia tedesca in seguito all’attentato di via Rasella. Alle 11, ha detto Paolo, “Siate puntuali”. Ci sarò, però prima ci voglio andare a via Rasella, voglio fare una passeggiata, come una specie di processione laica e personale. Da via Urbana neanche è tanto lontano, mi farà pure bene camminare, che ieri a San Giovanni, ancora si festeggiava il Natale di Roma e ci abbiamo dato dentro con la birra. Mi vesto, soliti jeans invecchiati dall’usura e dall’abitudine di sdraiarmi, per studiare, sui prati dei Fori. Metto la maglietta verde marcio da guerrigliero e sopra finalmente ci posso piazzare la giubba militare che Diego di via Sannio, solo ieri, mi ha recuperato, dice lui, dalla roba dei vietcong. Sarà, intanto ci stanno due buchi. Diego dice sono da calibro 5,56. Mah, forse che il sarto invece di rattoppare, faceva buchi con un M14. Sarà. Faccio finta di crederci, mi sta bene comunque, mi fa una bella figura. Beh, è ora, si va. Prendo le Gauloises e mi avvio verso via Nazionale. Voglio passare davanti gli Interni, così vedo pure se è aperta la libreria dei Remainders, che ho dei libri, ormai fuori catalogo, da controllare. Uè, quanti poliziotti! Il Viminale è guardato dal triplo delle divise dei giorni normali, è evidente che temono disordini. Quest’anno sono più i casini che le cose decenti. Eccomi, ci quasi sono. Libreria chiusissima, via Nazionale con pochi passanti. Quattro Fontane vuotissima. Ci sono quasi. Piazza Barberini, Via Rasella, il Traforo. Olè. Mi siedo sui gradini del palazzo dei Raselli, l’antica famiglia che dà il nome alla strada e, come un Guru della Suburra, leggo a me stesso, sottovoce, in un mantra senza apparente senso, ma per me vivo e nobile, nei sensi della mia personale nuvola d’ideale, una antica poesia di un Massiccio Signor Poeta, tal Vladimiro “Gran Bastardo” Majakovskj. “Da una via all’altra” – “La strada. I volti dei mastini degli anni sono più segnati. Attraverso i cavalli di ferro dalle finestre delle case in fuga sono saltati giù i primi cubi. Cigni dai colli dei campanili, curvatevi nei cappi dei fili ! In cielo un disegno giraffesco è pronto a screziare ciuffi rugginosi. Variopinto, come una trota, il figlio del campo arato senza ghirigori. Un giocoliere sta cavando fuori dalle fauci del tram binari, nascosto dietro i quadranti della torre. Ci hanno conquistato! I bagni. Le docce. Gli ascensori. Hanno slacciato il corsetto dell’anima. Le mani bruciano il corpo. hai un bel gridare: - Non voglio ! – aspra è la strettoia del tormento. Il vento pungente strappa al comignolo una ciocca di peli fumosi. Un lampione calvo lascivamente sfila alla strada una calza nera.”. Una specie di celebrazione, la mia, che vuole, prima di tutto, rasserenarmi ed entrare in sintonia con i morti di prima e quelli di dopo, che i morti, per me, hanno tutti uguale dignità, anche se da vivi sono stati i peggio assassini dell’umanità. Pochi minuti, il tempo di salutare i sampietrini e via verso la magia di San Lorenzo. Ci arrivo in tre quarti d’ora, ma mi fermo alla Termini per un caffé e per fare una telefonata importante. Sandra. La mia attuale vita. Mi risponde la madre, alla quale riesco fortemente antipatico. Sandra non c’è, uscita con un paio di amiche. Me lo dice come a farmi capire che le amiche potrebbero benissimo essere un amico. Praticamente me lo fa proprio capire, lo fa con la speranza che sparisca dalla circolazione, ma non ci casco, deve schiattare di rabbia l’impiegata del noto avvocato della Sacra Rota. Stronza. Le rispondo, gentile ed educato, precisando che passerò sotto casa sua, dopo pranzo verso le tre. Riattacca senza alcun saluto. Fanculo. Troppo squinternato per questa famiglia. Mah … compro delle Nazionali, le uniche sigarette che posso permettermi oggi. Di francesi nel pacchetto sono rimaste soltanto quattro. Meglio le Nazionali che niente. Domani dovrò riprendere il lavoro al Verano con il Signor Mario, il marmista che mi aiuta nelle occasioni difficili. Lo andrò a trovare domenica, con il Centerbe per sua moglie, la Signora Italia, abruzzese di Pescara. Con questi pensieri dentro, comunque, riprendo la strada. San Lorenzo. Eccomi qui. Sulle scale di casa di Paolo incontro due altri compagni. Un lieve saluto, uno viene da Latina, la più fascista delle città laziali. L’altro è pugliese, Barletta, ma vive a Roma da un decennio. Tipografo. Paolo ci accoglie sbuffando: “Solo voi mancate, dai, fate in fretta”. Augusto è un tipo roccioso, quasi calvo, fuma una pipa nera, lucida, con il bocchino ricurvo. Sembra un pirata, un personaggio dell’Isola del Tesoro. L’odore del tabacco è pungente, senza aggiunte aromatiche. Trinciato Forte. Tiro fuori la terzultima gauloise, l’accendo con i Minerva e della prima boccata mi tengo tutto il fumo nei polmoni. Ci farò una brutta fine con questo vizio, ne sono sicuro. Paolo ci presenta Augusto, che subito precisa di aver fatto parte della resistenza romana. Ci racconta dei luoghi, delle azioni e di questo attentato di via Rasella, 23 marzo ’44, ci chiede di non credere alle dicerie che tanta brutta gente sta facendo circolare, quella “buscìa” d’aver cercato la rappresaglia tedesca. Ma lui ci tiene a dire che dobbiamo stare sempre attenti, che siamo giovani e non sappiamo niente, che possiamo essere usati, strumenti ignoranti di chi vuole il caos, perché nel caos ci sguazza e ci fa affari. A me sembra sincero, anche se un bel po’ esagerato. Comunque lo stiamo ad ascoltare tutti con molta attenzione. Siamo una ventina, ne conosco almeno la metà. Proprio di fronte a me, appoggiata a dei grossi cuscini indiani d’India, ci sta la Cris, che è la Pasionaria di Giurisprudenza, covo di neri, ma neri assai. Cris mi piace, perché non ha paura e li sfida tutti, ogni giorno, in quel covo di sorci. “Il fascismo” – sta sussurrando Augusto – “è pericoloso, perché nasce dalle cattive condizioni della gente. Più si sta male e più attecchisce il malcontento e sempre, ricordatelo, sempre ci sta il fascismo a farlo diventar casino. Noi rossi siamo più giusti, non usiamo le persone a nostra volontà. Se le cose vanno male cerchiamo i rimedi e, oggi come oggi, sempre rispettando la democrazia e la Costituzione, che l’abbiamo scritta pure noi, soprattutto noi. State attenti, sempre”. Gli viene sete, Paolo ha preso un paio di bottiglie di vino dei Castelli, che aveva messo in fresco nel lavandino del bagno. Facciamo un giro, ognuno beve dalla bottiglia. Siamo compagni, non ci schifiamo l’uno dell’altro. Ancora no. Passiamo un paio d’ore discutendo di Storia e dei fatti nostri, dell’università e del ruolo strano del PCI. Ormai è ora di pranzo, saluto tutti e mi avvio verso via dei Serpenti. Lì ci sta l’hosteria che accetta i buoni-pasto di ingegneria. Ne ho ancora un blocchetto, per fortuna, altrimenti restavo senza mangiare. Che strano, oggi Roma è quasi deserta. Ormai è l’una, in genere la domenica e nelle altre festività è piena di gente con i vassoi delle paste. Oggi boh, giornata vuota, davvero insolita, eppure il tempo è buono, mite, né freddo, né caldo. Mangio ad un tavolo da due, insieme ad uno studente del primo anno del triennio, elettronica. Mi sembra si chiami Pasquale, deve esser di Ceprano, me lo ha detto un paio di mesi fa. Al solito parliamo di robe di scuola, di esami fatti, quelli da fare. Che palle! Sono le due, Sandra arrivo. Ed arrivo davvero pelo pelo le tre. Una corsa a tagliare il Circo Massimo, la zona è quella della Piramide, sono sotto casa sua. Suono, al citofono mi dice: “Cinque minuti e scendo”. Mi sdraio appoggiandomi al muro. Scende dopo almeno venti abbondanti minuti. “Scusami Giù, ma mia madre rompe ogni volta. Dove si va? Ricordati che stasera alle otto siamo da Silvana, spaghetti e poesia”. Al solito mostro con un ghigno la mia felicità. Silvana è roba della buona società. Studia a rivoltosa, ma è piena di soldi e di salvezza. Vestiti buoni, puliti, sempre nuovi. Capelli di parrucchiere. Casa con mille cuscini, almeno sei stanze in piazza Mazzini. È solo per amore che ci vado, solo per quello. “Non ho portato mie poesie, se mi costringono me invento una sul colpo, va bene per te?”. Sandra mi guarda con una certa sopportazione, ma in fondo so che pure a lei la Silvana sta un po’ sulle scatole. “La scriverai al Giardino degli Aranci, ti va?”. Naturalmente si fa come vuole lei. Si va in autobus. Il cielo è ancora limpido. Arrivando dai cespugli si sente un suono di sax. Benissimo, penso, così pure la musica in questo giorno magnifico. Su una panchina, in piedi, un tipo con i capelli biondi, lunghissimi e lisci, si muove suonando un sax argenteo e lucidissimo, che rifrange i raggi del sole. È davvero bravo, un che di jazzistico, che non ci sta male, a spezzare il silenzio del Giardino. Con Sandra si va subito al sodo. Un paio di baci, una carezza e poi … si affronta il tema del giorno, anzi del mese. “Non possiamo andare avanti così” – ammonisce – “non combini niente, solo politica, politica e politica. Ti sei fatto menare, ti hanno controllato quante volte … cinque? Sei? “. “Otto” – rispondo incarognito, che oggi proprio di una discussione così ho bisogno – “otto volte e sono pure poche, ce ne saranno altre ed altre ancora, ne sono sicuro, perciò rasserenati”. Ed è la verità più vera, che solo ieri l’altro mi hanno fermato verso largo Argentina ed al Commissariato Trevi, al Collegio Romano, uno mi controlla la carta d’identità e mi fa: “Sei molisano? Io pure, di Duronia”, e mi lascia andare senza aver annotato niente, come se neanche ci fossi passato da lì, però prima di farmi il cenno giusto, mi vuole ammonire “Stai attento” – mi fa – “non sono tempi buoni, questi”. Intanto il blabla con Sandra va avanti per ore e niente sembra scuoterla dalla missione di redimermi. Ad un certo punto mi rompo, tiro fuori un foglio di carta di quaderno e butto giù qualche verso. Ma sono parole piene di risentimento, così straccio il foglio e lo butto, cercando di centrare un cestino dei rifiuti, posto ad un paio di metri. Naturalmente non ci riesco, così mi alzo e ne approfitto per silenziarla, che davvero oggi è micidiale, più di una mitragliatrice MG. Non ci vado stasera dalla Silvana, neanche se mi pagano, non è cosa. Naturalmente Sandra si arrabbia e, mandandomi a quel paese, se ne va. “Non chiamarmi” – mi ringhia – “neanche se muori”. Ed eccomi solo. Che pace. Però ho come un buco qui, proprio qui, sotto lo sterno. Un’ansia strana, una linea di angoscia. Cerco un telefono. Ho cinque gettoni, qualcosa faranno, è festa, scendono più lentamente. “Pronto, papà, tutto bene?, Si? Oh meno male, mi era venuta l’ansia .. boh, non lo so il perché, sai, quelle cose assurde. Stasera? Non lo so, forse un po’ di televisione o un film. Si, lo so, ma ancora non lo vedo, è dell’anno scorso, si, Kubrick, c’è un walzer stupendo con i pianeti. Bello, se mi capita ci vado, stasera o un’altra sera. Ok, passami mamma per i saluti. Ciao, stai attento”. Che roba, sono io a dire a mio padre di stare attento. Ho sempre paura. Non so che farei senza di lui. Beh … e adesso? … altro autobus, vado verso casa, è l’unica cosa giusta. Mi metterò a studiare finalmente Meccanica Razionale. Mannaggia a me. Mi fermo da Tonio, che ha il “baretto” sopra la fermata della metro, a via Cavour. Rita è già arrivata. Il solito saluto, poi esce per i clienti. Mi fa un cenno come a dire “a dopo”. Sono le otto, sta cominciando il telegiornale. Mi siedo su uno sgabello, Tonio mi porta il brandy serale ed un medaglione rovente, che sa non ho cenato. Ascolto. Una bomba a Milano, alla Fiera, nello stand della Fiat. Sei feriti, forse di più. Fortuna che è scoppiata alla chiusura, quando non c’era gente, sennò era una strage. Dicono che un’altra bomba è stata trovata, inesplosa, alla Stazione Centrale. Parlano di anarchici, ma non ci credo. Siamo di nuovo in guerra. Ne sono più che sicuro. Ci stanno fregando, lo so. Mi sa che un altro 25 aprile non sarebbe affatto cosa vecchia. Non ho più fame, mi si è bloccato lo stomaco. Per oggi è quasi tutto, domani sarà il solito casino. “Ehi Toni, quando vedi Rita salutala, la birra insieme la recuperiamo domani, Buona serata”. E così mi avvio verso un’altra sconfitta, in compagnia del potente Nero Wolfe, l’unico detective che stimo. M’aspettano un letto freddo e forse l’ultimo Diabolik, che è bandito più di me, ma sicuramente più felice e più in forma, che io sto da cani, in questo venerdì venticinque aprile millenovecentosessantanove, un giorno che ricorderò per tutto quello che non ho fatto e che avrei assolutamente dovuto fare. Intanto a chiudere la giornata politica mi si presenta un'altra del Gran Poeta, dal libro aperto sul tavolo. Lui la dedica ai marinai e urla loro: “Dispiegatevi in marcia! Non c’è posto per cavilli di parole. Oratori, silenzio! A voi la parola, mister mauser. Basta vivere secondo la legge di Abramo ed Eva! Sposseremo la rozza della storia. A sinistra! A sinistra! A sinistra”. E sia! M’avvio anche io a sinistra, che è l’unica direzione che riconosco. Strada difficile, piena di trappole e pericoli. Buonanotte. Speriamo bene …
Roma, 25 Aprile 1969, ore 23,50
Giuseppe Pittà
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