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Diritto alla follia

Ciò che segue è solo un estratto di pensiero della mia mente, (il quale può essere anche immaginario) e non ha la presunzione di essere niente se non che una sorta di racconto riflessione.
 
Una nota doverosa per riportare alla mente il grande impegno di Franco Basaglia per la lotta e per i sacrifici fatti nel rivoluzionare l'idea morale collettiva sul malato di mente, riportando pazienti e medici, allo stato normale di essere persone. 
Anche se ad oggi il suo pensiero è superato e le teorie risultano un po' obsolete, è stato un gran passo avanti per i diritti umani. 
Diritti, che ad oggi, in certe situazioni, vengono ancora disconosciuti.
 
“La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla" (Franco Basaglia)
 
Vi esorto anche a non entrate negli edifici abbandonati, cadenti e sopratutto chiusi. 
E' pericoloso sia fisicamente che moralmente.
 
*****
È passato già qualche giorno da quando sono andata all'ex manicomio di Volterra e nonostante tutta questa pioggia nella mente, non ho ancora sporcato nessun foglio. 
Ci sono cose che non si possono scrivere immediatamente. Troppe percezioni insieme vengono accumulate nella curva sinistra del cuore, e poi, come tanti sacchi pieni di sensazioni in vesti, hanno bisogno di essere smistati. Suddivisi. Vanno ordinati riponendoli per categoria, per saperli riconoscere all'interno dell'armadio corpo che tutto ci contiene. E poi c'è bisogno di tempo. E' un mondo dove immergersi completamente fin sotto l'ultimo capello, finché non ti affonda, ed è difficile descriverne le sensazioni senza uscirne.
La specialità delle persone risiede sopratutto nella loro identità e nel loro diritto al sentire la vita. 
Quando la vita è considerata indegna, o le persone diverse, o come meglio dire matte, ma anche scomodamente sane, si cerca di annullarle, esiliandole, delineandole in confini e strutture costruite a tal fine. Si assegna loro un numero, divise uguali, si annulla la loro vita sociale, si elimina l'identità, le relazioni con l'esterno, si cerca di annullare persino il sentimento. E il manicomio di Volterra ne è un esempio.
La struttura è fatiscente, tetra, angosciante già dalla valle che sale al paese. 
Salendo in auto, in mezzo alle tipiche curve toscane, si vede in alto, sul poggio, un edificio cupo, grigio, una struttura enorme che cola e piange dolore.
Arrivati al cancello, naturalmente chiuso a lucchetto dato che è tutto pericolante, uno degli edifici abbandonati dell'ospedale psichiatrico spunta dalle chiome degli alberi del grande parco tutto intorno, e la sensazione è la stessa, di angoscia, solo che la senti più vicina.
Il parco è immenso, impossibile per morfologia e grandezza delimitare con lo sguardo i confini. 
Anche se abbandonato da anni, la natura non ha ancora invaso totalmente lo spazio, ma pur essendo molto suggestivo, con panchine a semicerchio in pietra, e sparse qua e la come fiori morti, un vecchio gazebo arrugginito sfondato dal tempo, e vecchi viali, passa in secondo piano. Infatti davanti agli occhi impatta il primo edificio e la stessa angoscia che si impossessa delle tempie entrando violentemente.
 
Una scritta sul porticato cattura l'occhio: Charcot.
Mi fermo davanti l'entrata, chiusa da una rete di ferro, faccio tutto il perimetro, velocemente. Si potrebbe scavalcare, ma non era questa la destinazione finale e so che la mia mente non mi darà molto tempo per restare.
Attraverso un cancello, stranamente aperto e delle scale in pietra storte ma quasi intatte, sono salita verso la struttura più significativa. Molto più grande della precedente. Una struttura che col suo fare ti fa già sentire piccola e insignificante. Un cortile chiuso da questo padiglione a forma di gancio, quasi come un abbraccio soffocante e opprimente, con tavoli e panchine in pietra disposti linearmente, già a imporre per primi l'ordine. Molti murales, alcuni molto belli, altri meno, frasi che imbrattano. Nel cortile interno tirava già un'aria asfissiante. Le grate e le colonne delle finestre paralizzate gridavano contro gli aghi di pino che si liberavano nel vento, leggerissimo, anche lui sedato.
Quel fruscio in mezzo a quel silenzio rimbombava e il rumore si faceva più forte nelle orecchie. Diventava quasi denso. A pensare che accompagnava i lamenti, le urla, i singhiozzi, le parole incomprensibili, accompagnava la deglutizione di un semplice bicchier d'acqua, accompagnava un morire lento e graduale, a pensarci, sembra anch'esso un lamento. L'unico rimasto. Quasi a memoria. Un monumento naturale a testimonianza di ciò che lì dentro è accaduto. Come le cortecce degli alberi, le mattonelle, l'intonaco screpolato e il cemento. Tutto quel cemento che non smette di piangere.
Mi avvicino al tavolino posto all'angolo. Tocco la superficie sgretolata e un cartello caduto mi incuriosisce. Lo giro. Lavori di strappo. - Strappo - Sul muro un velo bianco incollato che sembra un lenzuolo. Mi accorgo che tutto intorno a questa parte dell' edificio ci sono delle tettoie a protezione del muro.
Eccolo. È questo il posto!
 
Lo osservo per bene e mi si apre davanti un baratro senza fondo, un universo spaziale mobile di astrazione, l'alienazione cosmica, la dimensione che non ha dimensione, in quanto libera, mi si apre davanti la visione di me stessa in rapporto a mondi sconosciuti. Scompare il muro, diventa un libro, un libro di pietra scritto a graffi. A graffi.
La visione è folle. Di quella follia che l'arte ne è pregna. 
Il sig.re Nof4 o Nanof, come lui si firmava, si definiva colonnello astrale e ingegnere minerario della mente telepatica, e secondo il mio punto di vista lo è stato realmente, vincendo una grande battaglia, creando un suo mondo e conquistandolo come il più abile condottiero.
È il mondo che gli hanno sempre negato, all'interno del quale poteva esistere. Mentre le guardie (così si facevano chiamare gli infermieri) cercavano di distruggerlo, il sig.re Nannetti Fernando ha continuato ad esistere e confermava la propria esistenza esponendola in questa realtà nell'ora d'aria giornaliera che gli veniva data a disposizione. Per 12 anni, con la fibbia sfilata dalla sua divisa bianca, ci lascia in una grande riflessione, un'opera che testimonia la grandezza dello spirito umano, gesti e pensieri di dignità e sana irragionevolezza.
Una verginità d'animo che è rimasta intatta anche durante tutte le violenze. NOF4, la O sta per Oreste, a lui piaceva così tanto quel nome che lo adottò come fosse un titolo di onorificenza, ha avuto una vita difficile, per quel che ne sappiamo, fin da piccolo. Di padre ignoto, e rinchiuso in istituto da bambino, nel '48 offese un carabiniere e fu giudicato come individuo soggetto a "vizio totale di mente". Venne rinchiuso nel manicomio di Roma, dove si diceva che tanto era logorroico che faceva ammattire i matti. Era innamorato della sua città, di questo parlava sempre, ma anni dopo, venne trasferito all'ospedale psichiatrico di Volterra, dove si rinchiuse in se stesso e in un silenzio assoluto. Nell'unico luogo dove la sua espressione restava libera.
Ma era un silenzio apparente, perché nel suo muro diario, nel suo libro di pietra Nof4 (il 4 ha un significato variabile, ogni volta che gli si chiedeva il motivo era un motivo diverso: il 4 era la sua matricola, era il 4° figlio dei suoi fratelli inesistenti, c'era il padiglione 4 dove era rinchiuso) apre una grande realtà interiore e riesce, in quella prigionia, a estrarla e proporla al futuro. Una forza che non si riesce a descrivere, considerando anche tutte le cure e i trattamenti a cui era sottoposto, e che resta solo da immaginare per tentare di provare a capire. E andare a vedere per rendersi conto.
 
Ogni giorno, sul muro, delimitava una pagina. Più cose aveva da dire, o meglio, più cose gli venivano comunicate da quella dimensione che solo lui riusciva a intercettare, più la pagina era grande e più il muro si riempiva di lui. 
Scriveva frasi profonde, di significato spesso sconosciuto, descrizioni di alieni, (spinacei, col naso ad y) denunce, una scrittura creativa piena di simboli e caratteri dei quali alcuni somigliano molto a quelli degli etruschi, e ancora vascelli, simboli alchemici, astronavi, corpi, volti.
C'è un disegno di una specie di macchina con delle gambe umane. Il riferimento agli alieni non ha potuto non riportarmi alla mente un uomo che ho conosciuto da giovane. Anche lui, per gli altri, era matto. Faceva discorsi da matto. Diceva di saper intercettare e comunicare con gli alieni, diceva che alcune persone avevano a comando un'entità astrale. Diceva che l'acqua sarebbe diventata la moneta del futuro. Una cosa preziosa che diverrà introvabile. Infatti aveva sempre una bottiglia con se, e cercava sempre un passaggio per andare alla fonte. E' stato un collegamento rapido, insieme a tanti altri, insieme al paleocontatto, insieme a tutte quelle teorie di civiltà antiche, ed altri "folli" che sostenevano, senza conoscersi, la stessa cosa.
Ho letto che Nof4 ha disegnato il razzo a propulsione ancor prima che l'uomo approdasse sulla luna.
Poi, mentre scorrevo quella parete, un disegno in particolare mi ha addolcito e commosso molto. Mentre lo guardavo e cercavo di intuire ho avuto come una visione degli stessi contorni che si alzavano dal muro, assumendo una dimensione spessa, ed è stato entusiasmante vederlo nella sua interezza.
C'era un uomo inginocchiato con un fiore in mano.
 
Nanetti non parlava con nessuno, tranne che con un infermiere, Aldo, che un po' si intendeva di arte e che riconobbe in quei graffiti una sorta di opera artistica. Cominciò a dialogare con lui,a rispondere alle sue domande ed è grazie a questo ex infermiere che oggi abbiamo possibilità di conoscere questa storia, vedere le sue opere (in fotocopia poiché dopo la morte, non avendo parenti, tutto venne bruciato), ricordarlo ed imparare che un uomo se vuole non muore mai, nemmeno quando viene condannato a una rieducazione che annienta e fa estinguere il suo essere. Non muore nemmeno quando viene condannato a morte. Ed imparare che l'istinto innato non va stravolto, ma bisogna ascoltarlo, anche ignorando totalmente il volere degli altri o delle regole morali imposte.
Quando arrivò alla cantonata dell'edificio e Aldo vide che aveva smesso di scrivere gli chiese : cosa fai Nannetti ? Non continui? E il colonnello astrale disse : - No, ho finito. E finì.
Solo che poco tempo dopo anche il direttore dell'ospedale vide in lui un certo potenziale e lo dotò di carta e penna. Nannetti fece moltissimi disegni e scrisse lettere e cartoline a parenti immaginari. 
C'è da dire che comunque ogni lettera di ogni paziente non veniva spedita ma inserita nella cartella clinica. 
È facile immaginare lo strazio di chi cerca notizie di un esterno, dei propri cari e non riceve mai nessuna risposta.
Persone dichiarate ammalate e annientate da chi avrebbe voluto curarli.
La sua opera è uno dei più grandi esempi mondiali di Art Brut. Ho provato a leggere, a scrutare quel mondo, ma non è facile in quanto il Nof4 era bustrofedico, ma soltanto se la parola a fine pagina non terminava. Se lì finiva allora andava a capo normalmente. Una frase tra le tante spicca, la più comprensibile e visibile : "L'animo umano si allunga e si accorcia". 
Si nota anche uno schema della formazione dei secoli in rapporto ai minerali.
 
La denuncia più angosciante invece : Il 10% muore per radiazioni elettromagnetiche , il 40% per malattie indotte o trasmesse, il 50% muore per odi o rancori provocati. Per carenza d'affetto.
Una denuncia che stringe e soffoca il cuore.
 
Il grande animo di NOF4 e il rispetto verso la dignità si evidenzia sopratutto in una parte di parete che fortunatamente oggi è al museo. Il muro sovrastante una panchina infatti era scritto a onde, lasciando tre spazi bianchi circolari. Il motivo era che lì stavano sempre seduti quelli che lui chiamava i catatonici. Ovvero i pazienti già morti e non volendo disturbare e non volendo invadere il loro spazio, pensando bene alla loro esistenza, se pur vegetali, il Nannetti, li circoscrive, mette una gamba in mezzo alla loro, li delimita, facendo uscire su quel muro pieno di segni, la loro forma, una foto senza volto. Il perimetro della loro testa.
Ed è in questo che emerge l'ampiezza dei sentimenti e di tutti i loro mondi. Sentimenti che in quel posto non dovevano neanche esistere. Clandestini. Da soffocare. Forse perché giudicati troppo intensi.
 
Tante ricerche e tante persone si sono appassionate a questa storia, tanto che ne hanno fatto un film, un documentario, gli strappi sono conservati al museo. 
Rimasta impressionata dalla forza di questo grande uomo mi sento come più ricca, più elastica con me stessa, mi sento in connessione con l'universo, rivolta verso un canale telepatico ancora ignoto, mi sembra di aver trovato la chiave sistematica, da lui citata, che ogni giorno cambia. 
E mi sento pronta a lasciarmi andare alla cassa mentale dentro me stessa.
Facendo il giro di tutto dell'edificio, fra ponteggi e pruni, l'unica via per accedere è una finestra senza sbarre, con la sola colonna centrale e una piccola tanica scalino. 
Con un certo timore mi sono fatta coraggio perché volevo entrare a tutti i costi. Come se ci fosse qualcosa ad aspettarmi. 
Il fascino della rovina e dell'abbandono mi hanno sempre resa incosciente, esiliandomi dai pericoli, sia fisici che mentali. 
Una volta scavalcata la finestra ci si trova in una stanza, sopra ad una sedia messa sotto il davanzale per aiutare la scesa. Il pavimento convesso. Quell'odore statico, che non viene toccato da anni.
Uscita da questa stanza, con passo lento e previdente, mi trovo davanti a due corridoi di macerie che avanzano lungo i miei occhi e mi entrano dentro fissando le pupille con due chiodi. Uno davanti, uno a destra, lunghissimo, che si fatica a immaginare la fine. La luce entra a strisce. A sbarre. La luce nei corridoi scarseggia e arriva attraverso alcune porte di tutte quelle stanze, le fessure, le poche aperture. E' tutto in penombra. E poco visibile. E' come se la luce non volesse interferire in questo ambiente sensibile.
Impalata sulla porta, impressionata da questa visione, ho avuto come uno smistamento contrario tra realtà e sogno e ho riconosciuto un incubo che ho fatto spesso in passato. Eccolo, l'edificio enorme, fatto di corridoi e stanzoni collegati fra loro.
Inizio a sudare, proprio come si fa nei sogni. Il rumore di una tegola che cade e si rompe mi riporta in questo presente.
 
C'è da dire che giorni dopo questa visita ho rifatto quel sogno, ed è stata la prima volta che non ho avuto paura. Ero seduta e mi guardavo intorno. Senza quel terrore che provavo sempre.
Giorni dopo, ancora, ho sognato quello stesso edificio non più abbandonato, ma nuovo. E non so se ero nel futuro o nel passato, ma stavolta non era la struttura a incutermi terrore, bensì le persone. Alla fine dell'incubo, infatti, mi rendo conto, che quelle persone che volevano ostacolare il mio percorso, non esistevano, erano come morte. L'ho svelato masticando parole, con mezza bocca chiusa. Mezza paralizzata. Perché appunto ero sotto influenza di queste presenze.
"non è l edificio ... è la gente che non esiste. Guarda, non ci sono"
Sto dentro due ore, fra respironi espellenti d'angoscia e colpi di calore che confondevano il clima. Cerco di convincermi per darmi coraggio e attenuare l'inquietudine, che alcuni infermieri e il dirigente stesso credevano e volevano fare del bene ai pazienti. Credevano di curarli. Nonostante quei trattamenti disumani.
 
Tantissime stanze di cui non riuscivo a capire l'uso, degli strani oggetti a forma di triangolo, grandi abbastanza da contenere la metà di un corpo, due luci in ogni stanzetta e cella, di cui una bianca e una blu, inquietanti vasche solitarie e mattonelle senza bagno, murales che inducono alla riflessione, e a un viaggio dentro la follia, visioni, frasi a impatto.
Alcune celle ancora chiuse a chiave, altre con porte spalancate. Il posto semivuoto e abbandonato si porta addosso tutta la sua storia. E la storia di NOF4. Tornando indietro, nell'altro padiglione, si arriva ad un altro reparto e lo si intuisce dalle celle più piccole, dalle vasche in miniatura, da un vecchio gioco comunista appoggiato al muro: il reparto dei minori. Quello dei bambini. I respironi per scaricare l'angoscia non bastavano più, anche perché l'aria che passava dai polmoni era pregna di soffocamenti e sofferenza, il sudore mi aveva bagnato tutta la maglietta. Non sono riuscita a vedere gli altri due edifici. Lo stato d'animo ormai era ingabbiato in una prigionia sensoriale sulla quale non avevo più controllo e che mi faceva chiedere – chi sono i matti? Coloro che vogliono schematizzare la mente e annullare le sue variabili interpretazioni o coloro che vogliono dare un'espressione a sé stessi e al loro stato d'animo? Chi sono i matti? Quelli che negano l'esistenza o quelli che lottano per esistere come realmente sono? D'altronde, qual è il senso dell'esistenza se non l'esistere stesso in rapporto alla propria identità?
 
Chi è il folle ? Colui che segue orme costruite e ben delineate o colui che spinge il piede dentro all'incalpestabile? È chi contiene entro certi limiti un sentimento o chi tenta in ogni modo di esprimerlo? Sono quelli che non si lasciano andare al loro sentire o quelli che si assecondano?
Prendiamo un cane. Prendiamolo nel passato, nel presente e nel futuro. Sappiamo bene cosa diventerà, già oggi che è un riempimento del fabbisogno umano. Domani non conoscerà più se stesso, il suo stato selvatico, avrà un istinto lontano che non comprenderà più. Non saprà più che cosa vuol dire correre in mezzo a un campo e cacciare una preda, con la bocca piena di bava, divorarla, e avere la bocca insanguinata.
Non saprà più da dove viene, tanto è diventato domestico e umanizzato.
 
E la nostra storia è la stessa. Secoli pieni di rieducazione e di allontanamento.
 
I matti non sono matti. I matti non esistono. Siamo noi gli assopiti. Coloro che non sanno più sentire né sentirsi. Coloro che devono seguire un altro per realizzarsi e credere in qualcosa per confermarsi. Coloro che attraverso i secoli hanno dimenticato chi sono e non sanno più ritrovarsi.
 
Ci hanno corretto, addomesticato. Ci hanno fottuto. E siamo cosi distanti dall'origine che è impossibile tornare a noi, se non liberando la meravigliosa follia repressa che abita la parte più nascosta degli occhi.
 
Siamo realmente divisi tra matti e normali oppure siamo due popoli con una madre diversa?
Come si fa a restare addormentati dentro gli uffici, dentro le chiese, dentro le proprie case, senza sentire mai il bisogno di porsi certe domande. Come si fa a rassegnarsi al tormento e alla voglia di scoprire chi siamo e da dove veniamo?
Di tutte queste cose che abbiamo cos'è che ci serve davvero? e quante di queste cose vanno a sostituire quella ricerca mistica e tentano di accomodare la tristezza e la malinconia in modo palliativo? Dov'è andata a finire la contemplazione dell'esistenza?
 
Ci stiamo abituando sempre più a un'insensibilità irreversibile.
 
 

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