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L'ora propizia

quand’ero piccolo avevo un sogno ricorrente: spaventato da qualcosa urlavo, ma non usciva la voce. Oggi me ne capita un altro, non meno seccante: sono in macchina, parcheggio in salita, tiro il freno a mano ma la macchina scende, e non c’è modo di fermarla. Non so se c’è una relazione, ma è facile riconoscere almeno un elemento, diciamo così, comune, una medesima matrice: l’impossibilità di fare qualcosa: porre un rimedio, incidere, contrastare, agire in qualche modo, essere dentro una nuvoletta panica insonora accesa da piccoli lampi di segnalazione che nessuno vede. A volte la giornata comincia con questa invisibile tensione ch’io tento di mettere a fuoco scoprendo figure notturne lesionanti, apnee che si dissolvono in qualche ora finendo incastrate in una umbratile combine poetica. C’è una declinazione malinconica nell’animo che sveglia minuscole immagini ognuna in qualche modo portata alla trasformazione, come nelle metamorphosis di Escher. Un occhio che ricrea dicendo cosa era quella emozione sedimentata, magari per giorni o mesi, quell’esperienza tenuta in testa di cui sentiamo all’improvviso la presenza. Chi legge sa che deve fare i conti con un imbroglio di traduzioni, ma sa che dentro quell’imbroglio, durante quell’imbroglio, c’è una verità ch’egli è pronto a far sua, un punto in cui si vede la sua immagine ed è quella la voce ingabbiata, l’urlo che non arriva, il freno che non frena. Facciamo spesso i conti con questi oscuri archetipi che alla più imprevista ora si presentano sotto le più improbabili forme e chiedono di essere individuati. Quella è l’ora propizia dell’Arte, secondo me, che è sempre la visione di uno sfinimento, il vertice di una accumulazione, il riconoscimento di una febbre incubata, la sua splendente epifania.

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