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Dalle memorie di un Professore - Eventi inconsueti

-*parla Giovanni Pascoli*-
Marzo, 1891,
A passo spedito attraversavo il Viale dei Tigli, ad Urbino; mi preoccupava il pensiero di non poter essere presente in Facoltà, all'orario di inizio dell'ultima seduta di fine anno. Avevo consumato un pranzo sobrio alla consueta trattoria “Del Re”. Avrei voluto, certo, accomiatarmi con qualche elogio verso la figlia, non più giovane, dei proprietari, che era gentile e solerte ad aiutare gli anziani genitori... Invece, uscii... Mi ritrovai di corsa, su Viale dei Tigli che conduce all'università...
Non avevo bevuto né fumato, ma un leggero senso di vuoto, mi toglieva la forza di gravità: sentivo di essere prossimo ad un attacco di panico. Sapevo che ero atteso in facoltà per presiedere all'ultima seduta di fine anno; mi preoccupava il pensiero di dover giungere in ritardo… e, tanto più cresceva la mia preoccupazione, tanto più mi sentivo impotente. Mi vedevo costretto a cambiar via; facendo dietro front, mi ritrovai, davanti al nosocomio, sull'ultima panchina. Chiudevo gli occhi, per ritrovar me stesso, quando mi persi, come in un abbaglio: dapprima vidi, come in una danza, strisce di luce e cerchiolini d'oro; poi, quelle luci diventaron bianche ed io vidi formarsi una cornice.
Nella cornice, in una pace azzurra, vidi sul mare un tremolio di onde. Era un bel quadro che cedeva il posto a un altro suggestivo: tra i glicini appariva un bel giardino, dietro a un cancello tra le rose antiche, si intravvedeva il muro di una casa, drappeggiato di foglie; spinsi lo sguardo come per cercarmi... e mi rividi: ero un Professore, ma di liceo, con la sua studentessa.
L'immagine si perse, nella luce soffusa del tramonto.
In primo piano, ne appariva un'altra, come un incontro di lenti rifrangenti: mi vidi, professore su una seggiola; ascoltava una giovane… E non capivo se fosse seduta sulle ginocchia, a ridosso, dell'antico bracciolo. Si intravvedeva appena il suo profilo, i capelli folti e molto lunghi, castani... sparsi sui volants leggeri. L'immagine, acquistò movimento, ed io la vidi piangere... Scendevano le lacrime sul puro dell'organza; io le asciugavo il volto, dicendo: “Non piangere... So tutto.”
Vidi i suoi occhi mesti rasserenarsi e, tacitamente, rivolgermi una domanda... L'accostavo più forte.... Le posavo un bacio tra le ciglia...........
“M'aspetterai?”
“L' aspetterò.........Prometto.”
Conscio di non poter giungere in tempo, in sede di lavoro,e poiché, mi trovavo davanti
all'ospedale, mi avvicinai al portone e suonai. Mi apriva un infermiere: “Viene per una visita?” - Chiedeva. Risposi: “Sì, è tutta la giornata, che accuso un dolorino.” Non era vero, ma la bugia serviva da pretesto per parlare, e chiedere a un dottore, uno qualsiasi, che cosa, ne pensasse di quel fatto, straordinario, da sembrare un sogno. L'infermiere rispose: “Sono tutti impegnati; può aspettare nella sala d'attesa...” Entrai, ma non pensando di essere chiamato subito; scoraggiato già dalla presenza, di altre persone, pensai di uscire... Ed avevo varcato già la soglia, quando incontrai il sorriso di un dottore; mi salutava calorosamente, e mi diceva: “Esimio Professore... è un onore averla qui, fra noi; spero, non da paziente, beninteso...” Con lo stesso calore rispondevo. “Son felice che un giovane dottore, mi venga incontro, come se da sempre, mi conoscesse, e facendo tesoro del sentimento che ella mi ispira, voglio dirle una cosa: non sono nella veste di malato, ma, mi è accaduto un fatto molto strano: per l'emozione tremo ancora adesso.”
“Venga pure, la prego, nel mio studio.” Gli fui davanti, e, poiché ascoltava senza fuggir lo sguardo, gli raccontavo tutto, fin nei particolari, indicandogli pure, la panchina dove ero seduto. E finito il racconto, gli dicevo: “Dottore, le sarei molto riconoscente, se mi desse un parere... E sappia che non bevo e che non fumo.”
“Professore,” mi disse “io non so dirle più di quanto è plausibile sapere... Ma, a mio avviso, fatti così belli, riempiono la vita, non solo di chi parla. Non voglio darle una falsa speranza... ma penso Lei abbia avuto dal Signore, una missione; quella Creatura a lei si raccomanda... ed ella le ha promesso che l'aiuta.” La porta dello studio s'era mossa... una infermiera, sprovveduta, entrava... “Dottor Clevi, mi scusi...”
Il Dottore si alzò: con tale impulso, che trasalii. “La prego non mi dica, Signorina, che è già accaduto il peggio... Non lo dica alla figlia che è già sola... Provvederò da me a prepararla....”
L'infermiera capì... chinando il capo richiudeva la porta.
Mi parve naturale domandare: “Dottore, c'è un pensiero che la opprime?”
Mi guardò, asciugandosi la fronte... ed io vidi una lacrima brillare, tra le sue ciglia.
“Mi perdoni; è la seconda volta che succede; la cosa mi sorprende ed io per primo, non riesco a capir quello che mi succede.” “Il suo racconto mi ha turbato al punto, da sentire palese il filo conduttore, tra due donne, legate da una data...” “La prego, mi racconti...”
Mi ero concesso un piccolo relax sul retro di quest'ala sul terrazzo; passeggiavo su e giù, quando mi vidi fiancheggiato dall'ombra di una donna: il suo volto minuto e di bambina, era provato dalla sofferenza, sì da sembrare anche più anziana dei suoi anni trascorsi. Non so se ebbi il tempo di sedermi; mi ritrovai seduto sul mio letto dopo aver fatto un sogno sconvolgete: ero nell'obitorio... I corpi eran scoperti... tranne uno era dentro a un lenzuolo, come avvolto, volutamente quando mi avvicinai, senti una voce, lieve come un fil d'aria... ”Dottore, non sollevi il lenzuolo: non occorre; ci siamo già veduti... Non lo dica a mia figlia che son morta.” Mi volsi per dar tregua all'emozione... Sentivo un nome nella mesta stanza, come un soffio, su un acre odor di terra: “Pinuccia...”
Esitammo: senza trovar la forza di guardarci; eravamo prostrati. Fu il dottore a prender la parola:
“Professore, che cosa le succede? Forse L'ho impressionata, accetti un bicchierino di tamarindo... Ma voglio dirle e, questo la rincuori, che la data funerea era sparita; c'era soltanto quella dei natali.”
Mi rincuoravo e gli dicevo, solo: “Dottore, io non so come scusarmi; eppure, voglio dirle un'altra cosa: quel nome lo sentivo nella mia infanzia.”
“Non è per caso,” disse il buon Dottore “che ci siamo incontrati; spero ci rivedremo; anch'io ho bisogno di scambiare ogni tanto, due parole...”
 
La seduta si tenne il giorno dopo; i miei colleghi in coro nel vedermi, mi dissero che avevo un'aria nuova, come di redivivo. “Mi scuso” dissi, “stavo per venire... ma ho avuto un malore...
Ora sono guarito.”
Mi ritrovai per strada nel primo pomeriggio.
Tutto era andato secondo il previsto. Nel primo pomeriggio, mi trovavo sulla strada di casa; c'era un pallido sole, come un pianto, rarefatto nell'aria. Pensavo ancora, alla giovane mesta che mi guardava fiduciosa: colsi una rosa dal timido giardino dei miei sogni segreti e gliela porsi: le dissi un giorno ci riabbracceremo... e tra cent'anni ti vedrò in fasce. Intravvedevo già la mia casetta, col comignolo rosa e le verdi persiane... Giunto che fui al piccolo portone, non trovando le chiavi; mi sentii quasi perso: “Eppure in questa casa vi abitai... mi volsi, sentii ancora la fragranza dei fiori bianchi dopo un temporale. Ritrovavo le chiavi come apparse miracolosamente... Risalivo la scala, del soggiorno, mi univo in un abbraccio alla mia sposa: nulla era cambiato.”
 
Una data ricorrente. Quando penso a una data che ricorre nel suffragarsi della mia esistenza, ritorna puntuale nella mente, la mia prima vacanza da bambino: fu quel soggiorno a Capo d'Orlando, per me sereno e suggestivo: l'ondata di scirocco ci avvolgeva portando la freschezza di gelsi e di limoni ed un profumo antico di banani. Ma, il viaggio era stato sconvolgente: mi rivedo con i miei genitori e i miei fratelli, in una strada vicino al binario. Il treno si fermò per un impedimento alla locomotiva principale; scendemmo tutti; si stava in attesa che un luogotenente e le forze dell'ordine, venissero a controllare. Luigi ed io eravamo con la mamma sotto ad un alberello di nocciuole, con le valigie. Papà con Giacomo e d un'altra valigia s'era inoltrato un po'… Prima di allontanarsi, ci aveva detto: “Si dice che più avanti, a poca strada, c'è un lanternino... una tavernetta... Vado a vedere se il locale è idoneo alle Signore.”
Rispondeva la mamma: ”Via spettiamo sotto questi alberelli.” Mentre la mamma era intenta a guardare un ramo carico di nocciuole, Luigi ed io, venivamo attratti da una luce ad intermittenza: “Madre, guardate....” dicevamo insieme “c'è una luce che appare e poi dispare, tra i binari. E c'è un'altra luce nel folto di un giardino.” Ci recammo a vedere... Una madre pregava, inginocchiata, di fronte ad una tomba. Leggevamo l'epigrafe, turbati:
                                              “Qui, giace Angela Di Re.
                                         Lasciò la vita, nel fiore degli anni,
                                 il 17-7-1860 per un attentato alla strada ferrata.”
Sollevando lo sguardo quella donna, ci disse: “Era mia figlia”. Mia madre si commosse al punto tale, da rimaner senza parole... Anche il mio fratellino... Io la guardai e ne ebbi una pena struggente... La donna ci guardò e disse alla mia mamma: ”Mi specchio dentro gli occhi dei suoi bambini: sono così dolci ed espressivi...”
Io le feci un sorriso come a dirle: “Ci rivedremo, ma nel Paradiso.” Prima di congedarsi la mia mamma, le fece una domanda: “Fa altri figli?” Rispose: “No, avevo lei soltanto che mi somiglia; non avrebbe voluto mai sposarsi, ma, si sposò per essere alla pari con le altre donne, lo sposo Antonio, è una brava persona; le aveva detto di non avventurarsi in quel viaggio... Ma Lei voleva andare, parlar con la Madonna e dirle di mandarle un altro figlio. Ora la sua bambina che ha tre anni, la tengo io, come se fosse mia. La mia figliuola, l'ho davanti agli occhi, nell'atto di lasciarmi; non ce la fece a dirmi stai tranquilla...” Ma vidi che muovevan le corolle, dei fiori posti al lato del suo letto: “Non piangere!...”

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