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Il Giorno delle Calendule

Le calendule splendevano sopra un lago in cui i pesci nuotavano naufragati altrove. La steppa era di un altro colore, diverso dal verde. Sembrava giallastro, più o meno scuro, dipendeva da ogni filo d’erba. Pareva di essere sui campi elisi. Guardare il mondo da lassù era un concentrato di emozioni diverse. La poesia perforava gli occhi, innestandosi nell’anima come pura e semplice cosa del tutto. Io ero l’eremita che osservava e scrutava, era l’inizio di qualcosa che non avevo previsto ma solo sentito, quando sembrava primavera. I fiori erano di diverso colore, c’erano tulipani, rose, gigli e i girasoli. Mi sarebbe servito un treppiedi, una tela su cui appoggiare quell’infinito, dipingendone l’astratto sistema di quel che l’emozione mi dava osservandolo. Quel panorama era l’essenza stessa di quell’infinito, la pura complicità tra me, il tutto e quel niente che pareva qualcosa. Meditavo spesso davanti a quel lago, sopra una collina distante appena qualche metro. Pensavo alle grandi teorie, sull’amore, sulla religione, sulla morte, sull’istinto naturale di accettare tali cose e allo stesso tempo averne paura. Quella paura che tutti abbiamo quando conosciamo di quel qualcosa, un niente. Il semplice sconoscere la parte oscura di quel qualcosa. Anche in quella collina regnava l’equilibrio tra il tempo che segnava le ore su un pianoforte metafisico e ciò che c’era nella mia mente. Mi mancavano le pareti di una casa dove poter riposare, ma qui era bello e c’era pace. Il silenzio era interrotto soltanto dal brulicare del vento. Quello scirocco così intenso e incendiario, bruciava le foglie lasciandone l’aspetto di macchie scure come sulla pelle. Muoveva i rami da destra verso sinistra, io li contemplavo come il resto. C’era un legame profondo adesso tra me e la natura, quella madre che roviniamo per avarizia. Il sole era accecante, mi trafiggeva gli occhi coi raggi di luce e mentre ero privato della vista, disteso a valle, incassavo i pensieri come fossero piccoli tasselli di un puzzle semi completo. Pensavo di non avere bisogno delle grandi città, dei borghi, dei luoghi affollati. Per vivere ancora, mi bastava procreare l’attenzione delle farfalle. Loro vivono un giorno e se le tocchi, muoiono. Loro volano, sanno di mistici colori schiusi alla vista delle loro ali. Basta un battito. Lo stesso palpito che provavo io come loro, prima di cadere sulla domanda – Cosa ci facevo là? In mezzo a quel adombrato complotto di Dio?- Era Lui che aveva creato tutto questo, pensai. Eppure tutta questa bellezza era da me trascesa da un insaziabile voglia di scoprire il dopo. La primavera non mi bastava più, volevo l’inverno, volevo l’estate che stava arrivando. Ma quel giorno, nonostante il caldo, tardava a venire. Gettai un urlo all’improvviso, l’effetto fu un eco che si era sparso fino al paesello dinnanzi a me. Dalla collina si vedeva bene quel paese. Era deserto, non c’era alcun trambusto. Così, preso dalla curiosità, raccolsi un sasso e lo lanciai giù. Finì per rotolare altrove, dove non avevo previsto. Compresi il senso di gravità tralasciato da quella piccola roccia trafugata dal caldo. La notte cominciava a calare ed io ero esausto. L’avevo attesa per tutta la giornata, così che potessi vedere la mutazione del paesaggio. Ero ancora disteso su quella sensazione di pura eternità e sui filamenti d’erba. Pareva un tessuto tutto d’un pezzo, ancorato alla terra. Cominciai ad osservare il cielo, le stelle erano molto distanti, alcuni pensai erano pianeti chissà dove, chissà in quale tempo dimorassero. Sembrava una rete di puntini luminosi che dettavano l’essenza di qualcosa di più profondo. Una domanda a cui mi rispondevo: “Se fossimo soli, tutto il creato sarebbe poco più di un involucro pieno di noi e senza alcuna definizione che possa confermare che siamo umani. Se davvero fossimo soli, vi prego, chiamate qualcuno per venirmi a prendere. Perché in questa solitudine io non voglio restare, ne con voi, né con altri”. 

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